La crisi dello Studio e la riscossa dell’Istituto delle Scienze

La storia dell'Università di Bologna nel XVII e XVIII secolo.

XVII secolo - La crisi seicentesca

Bologna all’inizio del Seicento era entrata in una lunga stagione di torpore e immobilismo.

All’esplosione demografica dovuta al benessere del secolo precedente, seguì una serie sempre più fitta di carestie ed epidemie, che spinse papa Clemente VIII a intervenire sulla gestione dei dazi commerciali, fino ad allora usati esclusivamente per pagare i docenti universitari (Gabella Grossa).

Ciò non comportò, come si potrebbe pensare, la riduzione degli stipendi e degli insegnamenti, anzi, proprio in questo periodo si assistette a un paradossale aumento delle cattedre – se ne contarono fino a 120 – che portò all’incresciosa presenza di quattro professori ogni studente. L’incremento dei corsi, oltretutto, era inversamente proporzionale alla qualità dell’offerta formativa, vincolata ai severi precetti tridentini e sempre più affidata alla scarsa attitudine intellettuale dei tanti nobili locali che riuscivano agevolmente a ottenere una docenza.

Non è un caso se proprio nel XVII nacque la maschera carnevalesca del Dott. Balanzone, tronfio giurista che pavoneggiava un sapere ormai vuoto e antiquato. Sui dottori cresceva lo sberleffo dei cittadini che godevano della loro canzonatura anche nei famosi poemi satirici Bertoldo e Bertoldino del poeta popolaresco Giulio Cesare Croce (1606-08).

Gli scolari, dal canto loro, si andavano via via provincializzando e persero definitivamente qualunque tipo di autonomia e potere dopo la soppressione, nel 1580, del rettorato studentesco.

I più facoltosi e coloro che erano spinti alla carriera ecclesiastica, inoltre, iniziarono a preferire i nuovi collegi gesuitici, che verso la metà del secolo arrivarono a creare attorno alla chiesa di Santa Lucia un vero e proprio quartiere governato dall’Ordine di Ignazio di Loyola.

La peste del 1630 non aiutò di certo questa situazione critica tanto per lo Studio quanto per la città, portandosi via un terzo della popolazione.

Si arrivò alla drastica decisione del 1668: sospendere per un ventennio le nuove nomine dei docenti.

Terminato questo lungo periodo di totale stasi, cercò in tutti i modi di intervenire l’allora arcidiacono della cattedrale, nonché cancelliere dell’Università, Antonio Felice Marsili. Nel 1689, l’erudito aristocratico sfidò apertamente il Collegio dei Dottori, accusandolo di lassismo e di incuria e proponendo una riforma del corpo docente. Quella che sarebbe potuta essere una mossa vincente fu aspramente osteggiata non solo dai professori ma anche dal Senato, troppo invischiato negli affari torbidi di un’istituzione in continua decadenza.

Da un lato dunque vi era lo Studio, impantanato nell’arrivismo locale e nei limiti che imponeva la Chiesa, dall’altro i Gesuiti che, sebbene più preparati alla modernità, rimanevano infiammati dalla propaganda ecclesiastica e dalla severità delle loro dottrine.

Solo pochi nomi riuscirono a salvarsi da questa decadenza, anche se quasi tutti finirono con l’abbandonare la città per altre sedi universitarie meglio predisposte ai nuovi orientamenti del sapere. È il caso dei medici Marcello Malpighi e Carlo Fracassati e dei matematici e astronomi Giovanni Cassini e Germiniano Montanari.

XVIII secolo - Lo Studio e l’Istituto delle Scienze

La situazione nella quale versava lo Studio a fine Seicento era tra le più drammatiche: pochi e locali studenti venivano indottrinati da nozioni antiquate e controllate dalla Chiesa.

Alcuni di essi, tuttavia, trovarono il modo di reagire, radunandosi a casa del sedicenne Eustachio Manfredi, dove nel 1690 istituirono l’Accademia degli Inquieti: circolo privato che, come molti altri in tutta Europa, divenne luogo di scambio e di confronto intellettuale.

Questo ristretto gruppo di scienziati venne poi accolto nel palazzo di Luigi Ferdinando Marsili che, tornato da una lunga esperienza tra le fila dell’esercito asburgico, aveva precedentemente tentato di ammodernare gli insegnamenti dell’Archiginnasio, proponendo una riforma sostanziale, ben più complessa di quella avanzata qualche anno prima dal fratello Antonio Felice.

Ricevuta anch’egli risposta negativa, il nobile studioso aveva così offerto i propri alloggi e le proprie risorse non solo agli Inquieti, ma anche alla neonata Accademia artistica Clementina, patrocinata come si evince dal nome dall’allora papa Clemente XI.

Quest’ultimo divenne il più convinto sostenitore degli incontri tra le due accademie che sancirono, nel 1711, la costituzione dell’Istituto delle Scienze.

Incisione Palazzo PoggiProprio grazie all’appoggio papalino Marsili ottenne dal Senato, altrimenti reticente, i fondi e il sostegno politico necessari all’autonomia e all’indipendenza del suo esperimento accademico, che poteva ora permettersi l’acquisto del cinquecentesco Palazzo Poggi, nel quale trovò e creò idonei spazi per i suoi laboratori, le aule didattiche, le gallerie espositive, la biblioteca e persino la stamperia e la rilegatoria.

Era il 1714 e l’Istituto poteva finalmente aprire i battenti di Bologna alla modernità.

Non passarono molti anni che questo “Tempio di Salomone” divenne famoso in tutta Europa, entrando nella fitta rete internazionale di scambi scientifici e di rapporti personali e professionali tra i più illustri inventori e artisti allora in circolazione.

Anche i docenti bolognesi vennero attratti da questo mondo racchiuso in un palazzo, dove era possibile analizzare e sperimentare con totale libertà intellettuale le scoperte che avrebbero illuminato e migliorato la qualità della vita delle società future. Così, gli stessi professori che la mattina tenevano lezione in Università al pomeriggio insegnavano all’Istituto – e viceversa –, portandosi dietro i loro studenti, felicissimi di poter apprendere qualcosa di nuovo oltre alle retrive lezioni che si tenevano in Archiginnasio.

Accanto alle discipline scientifiche tradizionali quali Medicina, Matematica e Astronomia, trovarono il loro posto nuove fondamentali materie: Fisica, Meccanica, Ottica, Ostetricia, Elettrochimica, Chimica e tante ancora che, comunicando le une con le altre, si davano mutuo sostegno in una moderna concezione interdisciplinare della sperimentazione e del sapere.

Antonio Maria Valsalva, Eustachio e Gabriele Manfredi, Francesco Antonio Oretti, Jacopo Bartolomeo Beccari, Francesco Maria Zanotti, Pier Paolo Molinelli, Giovanni Antonio Galli, Giovanni Battista Guglielmini e, sopra tutti, Luigi Galvani sono solo alcuni dei protagonisti di questo periodo.

Nel fermento di tale innovazione scientifica, sostenuta e patrocinata anche dal papa bolognese Benedetto XIV, potette attuarsi una ben più epocale rivoluzione socio-culturale, che portò le donne non solo tra i banchi ma anche sulle cattedre accademiche.

Come nelle associazioni parigine e londinesi anche nell’Istituto nostrano, tra le fila degli iscritti, vennero subito accolte le donne, da secoli invece escluse dai più ufficiali consessi maschili universitari.

Bologna in questo è un caso a sé. Persino nei periodi più misogini l’Ateneo ha infatti vantato la storica presenza medievale di mogli, figlie e sorelle di accademici, che in casi straordinari erano divenute lettrici, ovvero insegnanti (Accorsa, Bettisia Gozzadini, Novella Calderini, Dorotea Bocchi).

Non è quindi solo un caso che proprio l’Alma Mater abbia dato per prima ad una donna una cattedra moderna. Era il 1732 quando la ventunenne Laura Bassi, col tripudio collettivo di tutta la città, divenne docente in Filosofia.

La seguirono tante altre nello studio e nell’insegnamento come Faustina Pignatelli, Anna Morandi Manzolini, Cristina Roccati, Clotilde Tambroni e Maria Dalle Donne, in una staffetta che tuttavia faticò a scavalcare i tanti ostacoli della storia, che rimasero sempre più alti per la corsa delle donne nel già difficile e complesso percorso universitario.