Francesco Petrarca

Umanista, poeta, filologo e filosofo (Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 19 luglio 1374).

Indirizzato dal padre alla carriera giuridica, Petrarca non poteva che venire a Bologna per imparare il Diritto. Nelle sue lettere senili ricorderà sempre con affetto e malinconia quel periodo di giovinezza, nel quale andava spensierato in giro per la città fin sui colli, assaporando la ricchezza di una città che lui stesso definisce, oltre che dotta, grassa.

Francesco Petrarca Francesco Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da genitori fiorentini, esiliati due anni prima in quanto guelfi bianchi.

Nel 1312 il padre Petracco venne assunto come notaio alla corte pontificia, da poco trasferita ad Avignone. La famiglia così si stanziò nella cittadina di Carpentras dove l’educazione di Francesco venne affidata al letterato Convenevole da Prato.

Nel 1316 il giovane venne mandato a studiare a Montpellier, continuando dal 1320 i corsi di Diritto nella più prestigiosa Bologna. Nella città felsinea Petrarca iniziò a capire quale fossero davvero le sue propensioni e cominciò a seguire le lezioni e a stringere amicizia coi letterati dell’Università degli Artisti, tra cui Giovanni del Virgilio e Bartolino Benincasa. Durante il caotico periodo nel quale lo Studio bolognese si era ribellato al Comune, reo di aver giustiziato uno studente spagnolo per aver rapito una giovane del luogo (1321), Francesco tornò momentaneamente ad Avignone, per ridiscendere a Bologna solo l’anno seguente. Verosimilmente fu proprio in questo periodo che iniziò a poetare in lingua volgare, seguendo le orme lasciate da Guido Guinizzelli ed emulando i trovatori locali suoi contemporanei, coi quali si godeva la sua adolescenza sotto i portici e sui colli della città emiliana.

Da Montpellier ci trasferimmo a Bologna, della quale io non credo luogo più bello e più libero trovar si potesse nel mondo intero. Ricorderai tu bene l’affluenza degli scolari, l’ordine, la vigilanza, la maestà dei professori, che a vederli parevano gli antichi giureconsulti. 

E quanta non era allora la fertilità delle terre e l’abbondanza di tutte cose per la quale con denominazione fatta già proverbiale Bologna fu detta la grassa?

Dolce ed amaro ad un tempo, tu ben te ne avvedi, è per me il rammentare fra queste miserie quel tempo felice, nel quale (e come accade a me così a te pure avverrà di serbarne viva e indelebile la ricordanza) io là mi trovavo fra gli studenti. Entrato già nell’adolescenza, e fatto più ardito che prima non fossi, ai miei coetanei mi accompagnavo, e con essi nei dì festivi camminando a diporto tanto mi dilungava dalla città che spesso vi si tornava a notte profonda. Pure le porte si trovavano spalancate, e se per caso talvolta erano chiuse, non ne veniva fastidio alcuno, perché non mura, ma fragile steccato per vecchiezza già mezzo disfatto cingeva la sicura città, cui d’uopo non era in tanta pace di muro alcuno o di più forte recinto.

(Seniles, X, 2)

Nel 1325 richiese al padre una cospicua somma di denaro per riuscire a pagare i tanti volumi comprati dal libraio bolognese Bonfigliolo Zambeccari. Nasceva così quella che sarebbe stata la biblioteca privata più cospicua del XIV secolo.

L’interesse al testo classico portò il giovane studioso a escogitare un innovativo approccio ai manoscritti allora in circolazione. Petrarca stava inventando la disciplina della filologia, che prevedeva la spoliazione del testo dalle allegoriche letture medievali e la ricerca di un esemplare il più possibile vicino a quello originario. Uno dei risultati migliori di questo capillare lavorio scientifico fu il Virgilio ambrosiano, iniziato fin dalla giovinezza (1324ca.) e aggiustato, commentato, arricchito nel corso di tutta la sua vita.

La passione per le lettere e per le discipline umanistiche potette essere pienamente soddisfatta, tuttavia, solo dopo la morte del padre, avvenuta nel 1326. In quello stesso anno Petrara lasciò Bologna e gli studi legali.

Senza il genitore e senza la professione prestigiosa alla quale sarebbe dovuto approdare, divenne per lui indispensabile cercare un protettore che gli offrisse gli ‘agi’ per quell’otium cortigiano, che dopo di lui sarebbe divenuto imprescindibile per i futuri intellettuali. Petrarca trovò questo sostegno nella famiglia Colonna, inserita nell’élite culturale, politica e religiosa europea.

Durante la sua nuova permanenza ad Avignone, come lui stesso avrebbe ricordato nel Secretum, incontrò per la prima volta Laura (1327).

Nel 1333 decise di prendere i voti (senza tuttavia rispettare il celibato), iniziando l’anno seguente, con l’elezione di Benedetto XII, un convinto sostegno al ritorno papalino a Roma. L’insofferenza nei confronti della curia francese, restia a tornare in Italia e invischiata in affari poco spirituali, lo spinse a cercare dimora nel vicino villaggio di Valchiusa, dove potette creare un suo cenacolo letterario e iniziare la stesura di molti dei suoi capolavori in lingua latina, come il poema epico Africa, il florilegio biografico De viris illustribus e le variegate Epistolae metricae.

La fama raggiunta presso le corti e le università europee, grazie all’intercessione dei Colonna, e presso il vivace regno angioino di Napoli, grazie all’agostiniano Dionigi, gli permisero di soddisfare il suo grande sogno: essere incoronato a Roma, nel 1341, con l’alloro degli antichi poeti.

Ma nel frattempo Petrarca aveva rivolto la sua attività anche alla lingua volgare, iniziando nel 1336 quella che sarebbe divenuta la pietra miliare della letteratura italiana, il Canzoniere: 366 componimenti che avrebbero accompagnato la sua vita in ben nove fasi redazionali.

Gli anni ’40 furono segnati da una serie di lutti che precipitarono il poeta laureato in uno stato meditativo sulla fragile condizione umana. Con la peste del 1348, poi, la morte di Laura acuì questo sentimento.

Nel 1346 Francesco venne fatto canonico della cattedrale di Parma, divenendone arcidiacono due anni più tardi. Durante la pandemia aveva trova rifugio a Verona, città nella quale gli capitarono tra le mani le epistole ciceroniane, che subito vennero prese a modello per la stesura delle sue Familiares. 

Nel frattempo era bruscamente finita l’esperienza politica dell’amico Cola di Rienzo, conosciuto ad Avignone nel 1342. Il tribuno romano aveva trovato un ostacolo insormontabile per il progetto, così tanto incoraggiato dallo stesso Francesco, di far risorgere l’antica Roma. Nel 1347 Cola fu osteggiato proprio dai Colonna, protettori di Petrarca, il quale decise così di sottrarsi al loro appoggio.

Questi anni così difficili furono tuttavia straordinariamente fruttuosi. Petrarca iniziò gli aneddotici Rerum memorandarum (1343), il trattato religioso De vita solitaria (1346/53-66), il ‘virgiliano’ Bucolicum carmen (1346-58), il dialogico Secretum (1347-53), il trattato De otio religioso (1347-57), gli allegorici De remediis (1347-56) e gli spirituali Psalmi penitentiales (1347)

Alla fine del decennio riuscì finalmente a trovare un nuovo patrono in Jacopo II da Carrara che, nel 1349, gli offrì il canonicato del duomo di Padova.

In occasione del Giubilo del 1350, scendendo a Roma, Petrarca si fermò a Firenze, dove conobbe Giovanni Boccaccio. Tra i due si instaurò un rapporto di sincera amicizia e ammirazione, che arricchì enormemente il baglio culturale dell’aretino, avvicinato dallo scrittore del Decameron al greco antico e alle filosofie classiche fino ad allora trascurate.

Oltre al greco, in quegli anni, affinò anche le sue abilità nel volgare, intraprendendo nella nuova lingua letteraria il poemetto allegorico Triumphi (1351).

Nei primi anni ’50, Francesco rifiutò numerose cariche di prestigio, tra cui una cattedra presso lo Studio fiorentino e il segretariato apostolico accanto al nuovo papa Innocenzo VI, prendendo invece la decisione di stabilirsi definitivamente in Italia. 

Accettò l’invito dell’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti e iniziò, 1353, un lungo stimolante periodo al servizio della casata lombarda, venendo per questo aspramente criticato dagli amici fiorentini.

Oltre alle ambasciate in giro per l’Europa, Petrarca ebbe modo di rivedere e continuare i suoi scritti e di iniziarne di nuovi come le epistole Seniles e la raccolta dialogica De remediis utriusque fortune. Si era fatta in lui più urgente la necessità di guidare l’umanità verso principi etici e morali filtrati attraverso il neoplatonismo agostiniano e lo stoicismo cristianeggiante.

Nel 1361 fu costretto a fuggire da Milano, inondata dalla peste, per riparare prima a Padova e poi a Venezia, dove rimase fino al 1368.

La Serenissima lo accolse con tutti gli onori del caso, richiedendo in cambio la promessa della sua immensa biblioteca. Quando tuttavia venne accusato di ignoranza da quattro averroisti, i suoi ospiti non lo difesero (lo fece da sé, scrivendo il trattato neoplatonico De ipsius et multorum ignorantia), e così Petrarca decise di andarsene dalla laguna portandosi dietro i suoi volumi.

Si spostò nella vicina Padova presso Francesco I da Carrara che nel 1368 gli offrì protezione e il titolo canonicale. Gli ultimi anni del sommo poeta potettero trascorrere sereni nella casa di Arquà sui colli Euganei dove, accudito dalla figlia Francesca, ebbe modo di rivedere per l’ultima volta le sue opere.

La morte lo colse il giorno prima del suo settantesimo compleanno, nel 1374.

Quello che Petrarca lasciò in eredità fu la rinascita della cultura europea.