Pietro Pomponazzi

Umanista, filosofo, medico e docente di Filosofia e Filosofia naturale (Mantova, 16 settembre 1462 – Bologna, 18 maggio 1525)

Viene considerato il maggior rappresentante del pensiero aristotelico rinascimentale, il cui centro filosofico si era creato attorno all’Università di Padova e che grazie a lui riuscì a maturare anche nello Studio bolognese.

Pietro PomponazziPietro Pomponazzi nacque a Mantova in una famiglia agiata nel 1462.

Si iscrisse all’università di Padova solo nel 1484, dove seguì i corsi di Metafisica, Medicina e Filosofia naturale e conseguì la laurea nel 1487.

Dal 1488 al 1496 gli venne affidata nella stessa città patavina la cattedra di Filosofia.

Nel 1496 si trasferì presso la sofisticata corte di Carpi come precettore di Logica di Alberto III Pio, che seguì nel suo esilio ferrarese.  

Ritornato a Padova, nel 1499, divenne professore di Filosofia naturale, prendendo il posto del suo scomparso maestro, l’averroista Nicoletto Vernia.

Quando Venezia, nel 1509, ristabilì il suo dominio sulla città, strappatole dalla Lega di Cambrai, le lezioni dell’Università vennero sospese e Pomponazzi accettò l’invito di Alfonso d’Este e si trasferì all’Università di Ferrara. Colse l’occasione per scrivere il suo commento al De anima di Aristotele.

Dopo un breve ritorno a Mantova (1511) seppe della morte del suo maestro, nonché antagonista di pensiero, Alessandro Achillini, e decise di subentrargli come docente di Filosofia all’Università di Bologna. Dal 1512 al 1525 rimase a insegnare all’Alma Mater Studiorum, nonostante le pesanti accuse di eresia e le avversioni di importanti pensatori del tempo.

Nel 1516, infatti, Pomponazzi pubblicò il trattato De Immortalitate animae, nel quale si proponeva di dimostrare come l’anima umana non fosse eterna come si voleva pretendere di verificare tramite la ragione scolastica.

Solo quattro anni prima, nel 1512, durante il Concilio Laterano V, si era ribadito il dogma dell’eternità dell’anima e si era severamente vietato, con particolare riferimento ai professori universitari, di contrastare tale verità. Tra le fila della Chiesa, infatti, persisteva il pensiero di San Tommaso (XIII sec.), fondatore della Scolastica, che, poggiandosi sull’interpretazione medievale del pensiero aristotelico, sosteneva la natura simpliciter e immortale dell’anima e la sua dimostrazione attraverso l’alleanza inoppugnabile tra fede e ragione. 

Durante il Rinascimento, tuttavia, i nuovi circoli culturali stavano da tempo analizzando questo principio: a Firenze, nell’accademia ficiniana, sfruttando le teorie platoniche giunte da oriente, a Padova, negli ambienti universitari, rileggendo Aristotele attraverso il filosofo arabo-ispanico Averroè (XII sec.).

Pietro Pomponazzi si inseriva dunque come campione di questa seconda scuola di pensiero, che fondava le sue speculazioni sulla netta distinzione averroista tra Fede e Filosofia, intesa quest’ultima come studio della natura. Nel suo De immortalitate animae, il filosofo mantovano interpreta l’anima come entità molteplice, ma unita e legata al destino del corpo, perciò all’effimero della vita terrena. Nonostante ciò, ammette il limiti della Filosofia e non esclude la verità fideistica dell’eternità dello spirito che, a sua detta, ‘ha un certo profumo di immortalità’.

Tale principio metteva in crisi l’intero concetto di morale cristiana e la stessa esistenza del Paradiso e dell’Inferno.

Il testo, quindi, non poteva che finire tra le fiamme, mentre il suo autore, solo grazie all’intercessione del cardinale Pietro Bembo, riuscì a difendersi dalle pesanti accuse.

Nel 1518 Leone X condannò ufficialmente il trattato e chiese al Pomponazzi di ritrattare le sue teorie. Questi, non solo non ubbidì, ma addirittura contrattaccò i suoi antagonisti, attraverso l’Apologia (1518) e il Defensorium adversus Augustinum Niphum (1519).

Dopo questo burrascoso periodo, il Pomponazzi riuscì a conservare la cattedra, ma dovette evitare di pubblicare altri volumi che potessero suscitare scandalo. Uscirono unicamente trattati che esulavano dalle speculazioni teologali: il De nutritione et augmentatione e il De partibus animalium, entrambe edite nel 1521, e il De sensu, pubblicato nel 1524, un anno prima della sua morte.

Si dovette aspettare il 1556-57, invece, per poter stampare, fuori dall’Italia, nella protestante Basilea, le altre due opere rivoluzionarie del filosofo, scritte ambedue a Bologna. Il De incantationibus, nel quale si dimostra l’inesistenza di forze demoniache, l’infondatezza dei miracoli e il legame fisico tra i moti degli astri e il destino dell’uomo, e il De Fatu, dove si smentisce l’esistenza del libero arbitrio e si dimostra la sudditanza al Fato, inteso come naturale necessità e non come predestinazione divina.