Leon Battista Alberti

Umanista, Architetto, Scrittore, Matematico, Priore, laureato in Diritto Canonico (Genova, 1404 – Roma, 1472).

Destino dell’uomo rinascimentale, dopo Leon Battista Alberti, sarebbe stato il non accontentarsi. L’occhio dardeggiante che vola e scruta dall’alto, che investiga e scopre prima ancora di sapere e conoscere, è il simbolo scelto dall’inventore del Rinascimento, che nella sua lunga attività speculativa si è interessato e ha scritto di ogni cosa. Un politropo viaggiatore come il greco Ulisse, un fiorentino esule come il Petrarca. Come quest’ultimo, esattamente un secolo più tardi, anche l’Alberti arrivò a Bologna per studiare Diritto, ma ne ripartì tanto più arricchito dall’insegnamento dei letterati e degli scienziati che gravitavano attorno all’Università degli Artisti, grazie ai quali l’antica ‘Madre degli Studi’ poteva ancora dirsi ‘Alma’.

Leon Battista AlbertiLeon Battista Alberti nacque nel 1404 a Genova, città natale della madre, la nobile Bianca Fieschi, già vedova Grimaldi.  Il padre, Lorenzo di Benedetto Alberti, apparteneva ad una ricca e potente famiglia di mercanti e banchieri fiorentini, esiliati dai rivali Albizi.

Dopo un breve soggiorno a Venezia, gli Alberti arrivarono a Padova (1416) dove Leon Battista intraprese i suoi primi studi letterari, frequentando la scuola dell’umanista Gasparino Barzizza, assieme a Francesco Barbaro, il Filelfo e il Panormita e dove ebbe modo di stringere amicizia con Paolo Dal Pozzo Toscanelli e forse con Niccolò Cusano.

Trasferitosi a Bologna, si iscrisse alla Scuola di Diritto Canonico, venendo subito attratto, tuttavia, dalla frizzante temperie umanistica e scientifica che si stava organizzando presso la nascente Università delle Arti.  La Fisica e la Matematica sarebbero poi divenute i pilastri della sua produzione letteraria e artistica.

Durante la lunga parentesi bolognese, spesso segnata da continue malattie, il giovane dovette fare i conti con l’avversione della famiglia che, morto il padre nel 1421, tentò più volte di ripudiarlo in quanto figlio illegittimo.

Questa stagione drammatica e solitaria portò l’Alberti a reagire attraverso la scrittura, componendo la commedia amorosa del Philodoxeos (1424), subito sottratta dall’amico Panormita e rivendicata dal legittimo autore solo una decina di anni più tardi. Da qui in avanti sarebbe stato sempre presente il tema della virtù e dell’operosità come garanzia di successo e di benessere dell’uomo moderno: della figura dell’umanista rinascimentale che proprio in Alberti trova uno dei suoi iniziatori e uno dei suoi massimi esponenti.   

L’anno della laurea così tanto rimandata, il 1428, fu anche l’anno della caduta del bando degli Alberti da Firenze, dove probabilmente Battista non tornò subito, dimostrando poca affezione per la città della sua casata e soprattutto per la cultura della generazione intellettuale precedente, quella di Leonardo Bruni, che aveva ‘tiranneggiato’ dall’alto del suo accademismo elitario, come lo stesso Alberti lasciò trapelare nel suo De commodis literarum atque incommodis.

Alcuni biografi hanno tramandato l’impegno di Leon Battista, appena laureato, al servizio del cardinale legato bolognese Aleman, e successivamente del cardinale Albergati, seguito in Francia e Germania nella legazione mandata da Martino V per cercare di porre fine alla Guerra dei Cent’anni.

Di questo periodo poco verificato sono numerose opere in volgare su temi amorosi affrontati in maniera innovativa, l’Ephoebiam, il Deiphiram e l’Ecatonphilea, seguite negli anni più maturi da altre differenti composizioni come l’Uxoria, la Lettera a Cadagnello, la Sofrona, le elegie Angiletta e Mirzia, le egloghe Corimbo e Tyrsis, oltre ad alcuni sonetti, madrigali, ballate, frottole e sestine. Da questa ricca produzione amorosa se ne ricava un atteggiamento diffidente nei confronti delle donne e un pensiero quasi ossessivo per l’intellettuale di rimanere libero e indipendente.  

Questa condizione di celibato Alberti la verificò in prima persona, poiché nel 1432, trasferitosi a Roma come segretario di Biagio Molin, patriarca di Grado e reggente della cancelleria pontificia, prese i voti e venne nominato abbreviatore apostolico, in virtù della sua laurea. Tale carica era stata concessa solo una volta che papa Eugenio IV ebbe tolto l’impedimento all’Alberti di assumere gli ordini sacri, in quanto illegittimo.

Questa nuova condizione garantì al giovane erudito non solo una cospicua rendita, ma anche la possibilità di entrare nei circuiti culturali papalini.

Fu proprio in questo periodo che potette avvicinarsi con metodo all’architettura attraverso la lente dell’antichità. La sua curiosità nei confronti della materia, probabilmente, era tuttavia già iniziata a Firenze alla fine degli anni ’20, quando l’incontro col Brunelleschi lo aveva avvicinato al nuovo strumento della camera oscura, di cui sarebbe lui stesso divenuto abile teorico. I nuovi precetti della prospettiva gli furono utili quando si adoperò, per primo, alla misurazione topografica della Roma antica, pratica che sarebbe servita alla sua breve Descriptio urbis Romae.

Nonostante la nuova vita da priore, nel 1433 Alberti scrisse anche un noto trattato dialogico in fiorentino, Quattro libri della famiglia (il quarto venne steso a Firenze nel 1440), nei quali propone e dispensa consigli su come educare i figli e tenere gli anziani, sull’amore matrimoniale, sull’economia domestica e sull’amicizia, dimostrando ancora una volta di essere un degno rappresentante dei valori della nascente borghesia europea.

L’anno seguente, a causa dei disordini nell’Urbe, scappò al seguito di Eugenio IV verso Firenze, dove potette salutare il ritorno dall’esilio di Cosimo de’ Medici e dove riallacciò le amicizie con gli artisti, i letterati e i filosofi toscani, dei quali tuttavia non fece mai parte, troppo lontano com’era dalle posizioni dominanti che sarebbero presto confluite nel neoplatonismo ficiniano.

L’atmosfera e il fermento culturale della città toscana coinvolsero invece l’Alberti: da un lato ad una più convinta esaltazione del volgare fiorentino (avrebbe scritto la prima grammatica del volgare, dimostrando le teorie di Flavio Biondo sulla derivazione della lingua dal latino parlato), dall’altro su un più approfondito interessamento nei riguardi della pittura. Risale proprio al 1435/36 il De Pictura, opera dedicata in volgare all’amico Brunelleschi e in latino a Giovanni Francesco Gonzaga. Il celebre trattato fu il primo ad affrontare una forma artistica in maniera speculativa, emancipandola dalla mera esecuzione meccanica. Composta da tre libri, l’opera affronta con programmaticità la scoperta della prospettiva (analizzata per la prima volta); gli elementi fondamentali della creazione (linea, disposizione, luce e colore); e la nuova figura dell’artista intellettuale.

Nel 1436, dopo l’uccisione di Antongaleazzo Bentivoglio da parte del legato pontificio, Eugenio IV potette riprendere pienamente possesso di Bologna, nella quale si trasferì per due anni. Con lui ovviamente era anche l’Alberti che ne approfittò per ricucire i rapporti con gli amici del periodo universitario e per dedicare loro alcune opere, come l’insolito De Iure: breve opuscolo latino scritto per il giureconsulto Francesco Coppini, nel quale si percepisce la delusione nei confronti del meccanismo giuridico medievale, severo e teorico, volto al benessere dei giudici più che della collettività.

Quando nel 1438 venne inaugurato il Concilio di Ferrara, Leon Battista seguì il papa nella cittadina estense, per poi tornare nuovamente a Firenze una volta che l’incontro tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente venne lì trasferito (1439).

Il nuovo soggiorno toscano, terminato nel 1443, fu per l’Alberti propizio alla sperimentazione dell’agognato otium, durante il quale potette dedicarsi ad alcuni scritti come il già citato Uxoria e il Teogenio, trattato in volgare dedicato a Lionello d’Este, dove ritornano i temi giovanili della sfortuna dell’uomo e delle virtù del saggio, per l’autore, quest’ultimo, necessariamente stoico, come viene spiegato dettagliatamente anche nel trattato dialogico Della tranquillità dell’anima (1441 ca.). Sempre al signore di Ferrara Leon Battista dedicò il De equo animante (1441) sull’educazione dei cavalli, a cui fa eco Canis, breve elogio del cane. Goliardici, lucianeschi e moraleggianti sono invece l’opuscolo latino Musca (1442-43), dedicato all’amico Cristoforo Landino e le Intercenales, già iniziate nella giovinezza bolognese. Di ben più complessa e fortunata esecuzione è Momus (ante 1450), romanzo politico, anch’esso lucianesco, che inscena alla corte olimpica l’esecrabile perbenismo e le sottili nefandezze delle corti quattrocentesche.

Il cortigiano Alberti, che come Momo doveva sottostare alle regole del gioco, seguì il suo signore, Eugenio IV, nel suo ritorno a Roma (1443), inaugurando un lungo periodo di attività teorica incentrata soprattutto, ma non solo, sull’ l’architettura.

Durante i primi anni del nuovo soggiorno romano Alberti si concentrò sull’ultimazione del De re aedificatoria (ci sarebbero state modifiche anche posteriori), opera monumentale che, riprendendo il De architectura di Vitruvio, affronta nei suoi 10 libri i principi di quell’arte (firmitas, utilitas e venustas), con alcune speculazioni innovative, come l’interesse all’idraulica, all’utilizzo di procedimenti matematici e scientifici, all’invenzione di congegni meccanici, ai danni provocati dall’usura e dal tempo e alla moderna ispirazione al lascito classico. L’artista, ora divenuto intellettuale, diveniva sacerdote pitagorico che ricercava il tutto, anche il divino, nel numero, i cui semplici rapporti rintracciati riuscivano a materializzare la teoria della proporzione e con essa quella dell’ordine che governa l’universo. Natura e cultura si facevano così sorelle, iscritte nei cerchi e nei quadrati dell’Alberti e dei suoi seguaci.

L’opera venne dedicata nel 1452 al nuovo pontefice Niccolò V, al secolo Tommaso Parentucelli, amico fin da quando erano stati compagni di studi giuridici a Bologna. Si suppone che, per ricambiare, il papa abbia permesso all’Alberti di intervenire e studiare da vicino i tanti cantieri che si aprivano nell’Urbe, affidandogli mansioni non troppo dissimili da quelle già ricoperte e successivamente incrementate per alcune nobili famiglie fiorentine e padane.

Per il signore di Rimini, Sigismondo Pandolfo Malatesta, infatti, Leon Battista aveva già curato l’involucro della gotica chiesa di San Francesco (1450), eletta a tempio familiare (Tempio malatestiano), mentre per i Rucellai di Firenze aveva intrapreso una serie di lavori che tanto avrebbero insegnato agli architetti locali: Palazzo Rucellai (dal 1447), la Loggia Rucellai (entro il 1460), il Tempietto del Santo Sepolcro in San Pancrazio (1457-67) e la facciata di Santa Maria Novella (1458-70).

Probabilmente dagli anni fiorentini (1440 ca.) Alberti si era interessato alla sistemazione della Rotonda della Santissima Annunziata (terminata negli anni ’70), questa volta per volontà di Ludovico Gonzaga, che poi avrebbe servito a Mantova nei progetti delle chiese di San Sebastiano (ante 1460) e Sant’Andrea (post 1460). Alla corte mantovana era giunto nel 1459, accompagnando il nuovo papa Pio II all’incontro che prospettava l’organizzazione di una crociata contro i Turchi, dal 1453 dominatori di Bisanzio.

Erano tutti lavori per i quali Alberti non si fermava nel cantiere, delegando ai capomastri la responsabilità costruttiva, illustrata nelle sue direttive progettuali. L’architetto, ovvero l’artefice di cose superiori (dal greco archè tekton), si era così emancipato dallo scalpello e dalla polvere delle pietre, lanciato verso orizzonti onniscienti ed estetici che, come si rammarica Momus, avrebbero dovuto legittimarlo all’incarico della costruzione del mondo al posto dei vacui filosofi.

Quello che Alberti stava creando non erano soltanto splendide chiese e raffinati palazzi, ma le profonde fondamenta dell’intero Rinascimento.

Uno dei suoi incontri più fortunati fu quello con il giovane Lorenzo de’ Medici al quale dedicò nel 1462 un opuscolo latino sull’arte oratoria, Trivia senatoria, forse intuendo e magari influenzando le future abilità diplomatiche del giovane pacificatore d’Italia.

Influenzato invece lui stesso dal segretario papale Leonardo Dati, dopo essere stato dispensato da Paolo II della mansione di abbreviatore apostolico, ebbe tempo per interessarsi anche della crittografia, sulla quale scrisse il De componendis cifris (1466), nel quale si esalta l’invenzione della stampa e si discute l’uso di alfabeti segreti (il tema doveva interessare anche il giovane matematico Luca Pacioli, suo ospite romano).

La produzione trattatistica sulle forme dell’arte aveva appena trovato compimento nel 1462 (alcuni sostengono una stesura di molto precedente), quando al De Pictura e al De re aedificatoria si unì il De Statua.

La multiforme esperienza intellettuale e artistica dell’Alberti si chiuse infine tra le righe del trattato dialogico De Iciarchia, scritto pochi anni prima della morte (1472), nel 1468. Il rivoluzionario intellettuale, creatore di un nuovo mondo superiore, rivelava così la verità dell’uomo, la sua poliedricità, persistendo nel campo politico e familiare in una visione paternalistica e conservatrice.