Una vita passata a cercare un nido dove rifugiarsi, dove ritrovare quel fanciullo che poco aveva potuto gioire in un’infanzia segnata da lutti e drammi. Giovanni Pascoli sembra non sia riuscito a recidere i suoi legami con quel passato tragico, nel quale tuttavia ha trovato il senso della sua esistenza, così come sembra non sia riuscito a strappare la sua storia da quella di Bologna, città che l’ha ospitato durante l’irrequieta giovinezza, che gli ha conferito la laurea e che per ben due volte lo ha richiamato a sé come professore della sua antica università.
Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro (oggi San Mauro Pascoli in suo onore), in provincia di Forlì-Cesena. Il padre Ruggero, agiato amministratore della tenuta ‘La Torre’ della famiglia principesca dei Torlonia, venne ucciso in un agguato nel 1867, lasciando la numerosa famiglia in serie difficoltà e nello smarrimento di un processo che non condusse mai alla pena dei mandanti del misfatto.
I numerosi fratelli Pascoli erano a quel tempo a Urbino a studiare presso il Collegio degli Scolopi. Vi rimasero fino al 1871 quando, scomparse anche la madre e la sorella maggiore e perduta la pensione per la morte del padre, dovettero trasferirsi a Rimini.
Nella cittadina romagnola Giovanni ebbe il primo contatto col movimento anarchico, che lo avrebbe coinvolto per tutta l’età giovanile.
Dopo aver frequentato in città il Liceo classico Giulio Cesare e, successivamente, quello degli Scolopi a Firenze, si diplomò infine a Cesena nel 1873.
In quello stesso anno, l’Alma Mater Studiorum aveva indetto un concorso che assegnava sei borse di studio per la Facoltà di Lettere, dove languivano da decenni le immatricolazioni (nell’anno accademico 1866-67 vi era stato un solo studente, nei successivi al massimo cinque).
Giovanni vi partecipò e vinse, trasferendosi dunque a Bologna in casa di un imbianchino in via Borgo di San Pietro e instaurando subito rapporti di stima e amicizia col professore Carducci e con alcuni compagni, in primis con Severino Ferrari.
Le ristrettezze economiche in cui versava fecero maturare in lui l’esigenza di riscatto sociale che a Bologna trovava piena rappresentanza nel movimento anarchico-socialista di Andrea Costa, studente anch’egli di Lettere.
Ben presto questo interessamento iniziale sfociò in vera missione, che assorbì Pascoli in comizi e scritture su fogli rivoluzionari, come il periodico ‘Il Martello’ (usava spesso pseudonimi come Dione, Zoc, ecc ...), portandolo fino alla perdita della borsa di studio e all’abbandono dell’università per quasi cinque anni (1875-80).
Nel frattempo, tuttavia iniziò a dedicarsi anche all’attività letteraria, facendo uscire nel 1877 sulla rivista letteraria ‘Pagine sparse’ le prime poesie di Myricae.
Si fece così notare come poeta, ma rifiutò le proposte di pubblicazione offertegli da Nicola Zanichelli e dallo stesso Carducci, condannando se stesso ad un lungo periodo di digiuni e di elemosina.
Il Carducci non desistette e, dimostrando la sua proverbiale attenzione nei confronti dei suoi studenti migliori, riuscì a fargli avere una supplenza presso il Ginnasio Guinizzelli, dove Pascoli però lasciò un deplorevole ricordo per le numerose assenze e la ripetuta irreperibilità (ai tempi si era traferito in via Petroni).
Quando poi, nel 1878, nacque la Federazione Internazionale anarchica bolognese, il giovane ribelle ne divenne subito un esponente di spicco, arrivando persino –ma qui le testimonianze non sono concordi- a decantare pubblicamente l’attentato al re Umberto I. L’apice della sua partecipazione ai movimenti socialisti fu l’anno seguente (1879), quando assieme ad altri giovani compagni manifestò sotto le carceri di San Giovanni in Monte (attuale dipartimento di Storia Cultura Civiltà), contro l’arresto di alcuni internazionalisti di Imola, finendo anch’egli in manette per oltre tre mesi.
Seguì per Pascoli un periodo di ulteriore sconforto, durante il quale pensò addirittura al suicidio, ma nel quale si fece sempre più forte il rifugio nel ricordo della madre come lui stesso avrebbe raccontato nella poesia La voce.
Trasferitosi in via Mazzini, riprese dunque gli studi e finalmente, nel 1882, riuscì a laurearsi con una tesi su Alceo, accompagnato dal professore di Letteratura greca Gaetano Pelliccioni.
Nello stesso anno, allontanatosi oramai dai movimenti anarchici, venne iniziato alla nuova Loggia ‘Rizzoli’, legata alla Società Operaia, ritrovando molti dei suoi professori e compagni (Carducci, Filopanti, Saffi, Magni, Ceneri).
Grazie all’intercessione del sempre prodigo Carducci ottenne subito un posto come professore al Liceo Duni di Matera, dove rimase fino al 1884, anno nel quale per decreto ministeriale venne trasferito al Liceo Rossi di Massa.
Nella città toscana Giovanni richiamò ad abitare con lui le sorelle Ida e Maria con le quali instaurò un rapporto ambiguo, spesso ossessivo.
Sempre per decreto ministeriale, nel 1887, venne mandato a insegnare al Liceo Nicolini di Livorno fino al 1895.
Il giovane insegnante iniziò a farsi notare anche attraverso le pubblicazioni delle poesie di Myricae, edite nel 1891 sulla rivista ‘Vita nuova’ (la raccolta sarebbe poi stata arricchita nelle sue cinque edizioni successive, fino a quella conclusiva del 1903) e grazie alla vittoria del Certamen hoeufftianum di Amsterdam (1892), alla quale sarebbero poi succeduti altre 12 trionfi.
La notorietà raggiunta lo chiamò a Roma per collaborare col Ministero della pubblica istruzione, dandogli modo di conoscere i colleghi Gabriele D’Annunzio e Adolfo de Bosis, coi quali partecipò ad arricchire la rivista di quest’ultimo, il ‘Convito’, con alcuni poemetti, che sarebbero confluiti nei Poemetti Conviviali, la cui prima edizione integra sarebbe uscita solo nel 1904.
L’idillio che aveva intanto raggiunto nel piccolo nucleo familiare si ruppe nel 1895, quando Ida abbandonò i fratelli per ‘cedere’ al matrimonio. Giovanni e Maria, ‘traditi’ e rimasti soli, ripiegarono in quell’occasione cercando un nuovo nido, ancor più ristretto e isolato, sulle alture lucchesi di Castelvecchio.
Una nuova nomina per decreto ministeriale (1895), lo strappò ben presto da questo idillio, catapultandolo, nuovamente a Bologna come professore straordinario di Grammatica greca e latina. Nella città della giovinezza, delle sbandate anarchiche e della precarietà della vita Giovanni si trasferì con la sorella in via Belle Arti, dove, nonostante la reticenza, sembrò trovare un certo giovamento.
Nel 1896 partecipò nella Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio ai festeggiamenti per i 35 anni di insegnamento di Carducci, omaggiandolo da ex studente.
Arrivò addirittura ad aprirsi una strada per il matrimonio, fidanzandosi con la cugina riminese Imelde Morri, ma suscitando al tempo stesso enorme gelosia nella sorella Maria che, usando la sua solita persuasione, distolse il fratello dalla cosa.
Quando poi giunse a Bologna anche l’altro fratello, Giuseppe, alcolizzato e attaccabrighe, Giovanni, ebbe una scusante plausibile, seppur criticata, per abbandonare la cattedra e rifugiarsi nuovamente a Castelvecchio.
La fuga da Bologna, dalla mondanità, financo dalla ragione condusse Pascoli a scavare un rifugio interiore, dove poteva ritrovare l’essenza del suo poetare. Una regressione che lo condusse alla poetica del fanciullino, così ben spiegata dallo stesso nello omonimo scritto, uscito sulla rivista ‘Il Marzocco’ nel 1897.
Pascoli andava in tal modo ad aprire una strada letteraria nuova in Italia, un sentiero intimista e intuitivo, fatto di sonorità e sentimento, dove il poeta bambino si perdeva, lasciando la strada maestra dei superuomini, dei ‘superpoeti’, come Carducci e D’Annunzio.
Nascevano i Canti di Castelvecchio, la cui prima edizione sarebbe uscita nel 1903: una raccolta di poesie intime e malinconiche che venne dedicata all’amata madre.
Ancora una volta il soggiorno nel piccolo borgo toscano venne interrotto da una nomina ministeriale. Nel 1898 i due fratelli partirono alla volta di Messina dove a Giovanni avevano affidato la cattedra ordinaria di Letteratura latina.
Durante il lungo soggiorno siculo, inframmezzato da continui viaggi, Pascoli pubblicò i volumi di analisi dantesca: Minerva oscura nel 1898, Sotto il velame nel 1900 e La mirabile visione nel 1902.
Finalmente, nel 1903, riuscì a risalire in Toscana, come professore di Grammatica latina e greca all’Università di Pisa, dove rimase fino al 1905, anno nel quale venne nuovamente richiamato dall’Alma Mater Studiorum, questa volta per decreto regio, per ereditare dal Carducci la prestigiosa cattedra di Letteratura italiana. La successione sarebbe dovuta andare all’amico Severino Ferrari, che però purtroppo era morto quello stesso anno in un ospedale psichiatrico.
Pascoli non potette declinare l’offerta e anzi, trasferitosi a inizio 1906 nella silenziosa via dell’Osservanza, sui colli bolognesi, vide questa come un’occasione di riscatto.
“E la mia vecchia Bologna mi parlò al cuore e mi parve che dicesse: «non vedi? Sono Bologna. Non ricordi? La tua giovinezza è qui. La tua povera giovinezza che tu non vivesti, io te l’ho serbata. È qui. Ce n’è un po’ da per tutto, nelle vie e nelle piazze, nelle case e nelle chiese, nella vecchia Università, persino a San Giovanni in monte. È qui. Ha fatto bene a venire a riprendere ciò che lasciasti. Coraggio!». Oh! fosse vero, o giovinetti e fanciulle, che io potessi ritrovare le cose perdute! A voi io le renderei; e sarei felice io, del dono più a voi conveniente, che potessi farvi ancora!”
(Odi, prefazione, 1906)
Riuscì negli ultimi anni a dedicarsi alle edizioni di scritti composti dagli anni ’90, come Odi e Inni (1906) e Pensieri e discorsi (1907), oltre a pubblicare le prime tre parti del poema storico Le Canzoni di Re Enzo (La canzone dell’Olifante, Il Carroccio e Il Paradiso), celebranti la gloriosa resistenza comunale alle mire dell’imperatore Federico II.
Assieme a Carducci, nel 1907, riuscì a creare all’interno della rinomata Accademia delle scienze di Bologna una nuova sezione di Scienze Morali, di cui fu uno degli esponenti più importanti.
Quando poi, nel 1911 scoppiò la guerra italo-turca in Libia, suscitò grande scalpore col suo discorso La grande proletaria si è mossa, nel quale sostenne la causa interventista e nazionalista (di quell’anno sono i tre Poemetti italici), senza tuttavia tradire gli ideali socialisti di un tempo, di riscatto delle genti e della creazione di un popolo unito e libero.
Tra i banchi, invece, venne spesso criticato, poiché sembrava sfuggirgli un programma compiuto e poiché non riusciva a dimostrare quell’ardore che tanto era stato apprezzato nel suo predecessore. ‘Il suo insegnamento più che letterario era morale’, era come se volesse ‘insegnare la sua religione umana, di cui gli autori studiati dovevano essere gli apostoli e i padri’ (Antonio Scolari).
La vita l’aveva condotto alla malinconia e all’eccesso di alcolici, che lo portarono nel 1912 ad una morte prematura, a soli 56 anni, protetto fino alla fine dalla sorella Maria, che insistette nel negare la cirrosi come causa del malore fatale.
Giovanni Pascoli trovò finalmente la pace nel suo amato nido di Castelvecchio, dove la sua salma venne subito portata.
Al suo posto, l’Alma Mater Studiorum tentò di chiamare Gabriele D’Annunzio, che declinò l’invito, rispondendo con il celebre telegramma: “L’onore è grande, ma il mio amore della libertà è ancora più grande”.