Filippo Beroaldo il Vecchio

Cortigiano, poeta, politico, filologo e Docente di Humanae litterae (Bologna, 1453 – Bologna, 1505).

Comunemente definito il “commentatore del Rinascimento felsineo”, nessuno più di Filippo Beroaldo il Vecchio seppe vivere appieno l’esperienza vivace ed eterogena che si respirava a Bologna sotto il governo di Giovanni II Bentivoglio.

Filippo Beroaldo il Vecchio Filippo Beroaldo nacque da una nobile famiglia di Bologna nel 1453. Grazie alla lungimiranza della madre, Giovanna Casto (il padre morì quando aveva appena quattro anni), il giovane ebbe modo di studiare in una città aperta alle tante culture che circolavano in Italia e all’estero.

Con la breve parentesi del vicariato del cardinal Bessarione (1450-55), infatti, Bologna era rientrata nei circuiti internazionali, maturando enormemente le offerte formative proposte dall’Università degli Artisti. L’Oriente bizantino, ma anche la cultura scientifica islamica, filtravano in tutte le discipline, presto rinvigorite dalla nuova tecnologia della stampa.

Maestro del Beroaldo fu proprio Francesco Dal Pozzo, che nel 1470 aveva creato a Bologna la prima stamperia locale.

Il promettente umanista, terminati gli studi, divenne lettore di Retorica e Poesia (1472), intraprendendo poco tempo dopo un lungo viaggio: prima a Parma (1476) poi, passando probabilmente per Milano, a Parigi (1476-77), nella cui università insegnò per circa un anno, acquistando fama di intellettuale italiano, divulgatore del petrarchismo e del neoplatonismo ficiniano.

L’Alma Mater Studiorum lo richiamò più volte, ma dovette aspettare il 1479 perché il Beroaldo accettasse di ritornare, lui che, come si evince dalle sue biografie, aveva una personalità così libera e indipendente.

La situazione politica locale poco dopo si sarebbe incrina, a seguito dello sventato attentato dei Malvezzi sui Bentivoglio (1488). Questi ultimi ripiegarono in un governo difensivo, espellendo dal Senato le famiglie nemiche e attuando una massiccia strategia propagandistica, attraverso l’uso delle arti così come dello Studio, ben nutrito di cortigiani al loro soldo.

Tra questi era anche Berolado, che nel 1489 vienne elettro tra gli Anziani e ottenne importanti incarichi come ambasciatore e pubblico oratore (scrive l’orazione per il matrimonio di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d’Este e un panegirico politico in lode di Ludovico il Moro).

Il dotto cortigiano continuò comunque a insegnare e a dedicarsi strenuamente alla redazione di commenti ad autori classici, anche se successivamente sarebbe stato aspramente criticato per la poca scientificità del suo approccio al testo antico. Nonostante ciò le nuove edizioni da lui curate di ben 24 autori latini ebbero il merito di riaccendere in Europa l’interesse verso le varie forme letterarie passate, anche quelle fino ad allora screditate. È il caso del romanzo di Apuleio, che solo in un ambiente goliardico ma raffinato come quello bolognese poteva essere resuscitato. L’interpretazione moralizzata e cristologica della favola di Amore e Psiche, raccontata nell’Asino d’Oro, avrebbe avuto grazie a lui immensa fortuna soprattutto figurativa (si pensi a Raffaello o Giulio Romano).

Accanto ai latini si interessò anche dei moderni (tradusse in latino la canzone Vergine bella di Petrarca e tre novelle di Boccaccio) e si cimentò in un’infinità di orazioni e di piccoli trattati sulle tematiche in voga nel periodo (la felicità, il vizio, la fortuna, la sapienza etc..), tanto che l’amico Giovanni Pico della Mirandola lo avrebbe appellato una ‘libreria vivente’.   

Ma su di lui serpeggiavano anche aspre critiche, rivolte alla sua vita dissoluta e addirittura licenziosa, che solo nel 1498, a 45 anni, si acquietò grazie al matrimonio. Prese come moglie Camilla, figlia dell’insigne collega e giurista Vincenzo Paleotti.

Nel 1502, assieme ad altri tre dottori dello Studio, venne invece chiamato ad arringare la popolazione alla difesa della città, minacciata dal temibile Borgia.

Il sogno stava per finire ma la morte arrivò prima del risveglio.

Giovanni II resistette al Valentino ma non al nuovo papa Giulio II, che riuscì a entrare in città nel 1506, ponendo fine a un lungo periodo d’indipendenza bentivolesca.

Beroaldo, il degno rappresentante di quella stagione, era morto l’anno prima, nel 1505.

L’umanesimo cedette il passo al Rinascimento maturo e la cultura eclettica, a volte estrosa, del professore filologo non sarebbe più stata capita dai suoi successori.

Erasmo, in visita a Bologna, rimpianse di non aver potuto conoscere un personaggio tanto famoso, ma non lesinò, come avrebbe fatto anche Paolo Giovio, critiche severe sui modi e gli esiti dei suoi studi.

Beroaldo rimase una parentesi felice di un’epoca ormai tramontata.