Il Bilancio di Genere, giunto alla sua sesta edizione, offre un’ampia rappresentazione della composizione di genere del nostro Ateneo, sia della componente studentesca, sia di quella docente e tecnico-amministrativa. È un documento che ci rammenta, con cadenza annuale, che tanti sono ancora i cambiamenti per i quali dobbiamo impegnarci se crediamo davvero che le giovani generazioni che formiamo abbiano diritto a una società più inclusiva, equa e ricca delle sue diversità.
Molto risoluti ed energici sono stati i progressi e i processi che hanno portato le nostre studentesse a ottenere risultati straordinari negli studi, le nostre docenti a farsi spazio in ambiti di ricerca fino a poco tempo fa caratterizzati da una dominante presenza maschile, le nostre rappresentanti del personale tecnico-amministrativo a organizzare il lavoro in modo sempre più efficace e innovativo. L’energia e l’ispirazione di tali processi si sono tuttavia scontrate con la forza d’inerzia della nostra struttura, forza che rallenta la composizione più equilibrata di iscrizioni studentesche in particolare nelle aree cosiddette STEM, allunga ingiustamente i tempi di carriera delle nostre docenti, ostacola il loro accesso ai ruoli apicali e alle posizioni decisionali. L’emergenza pandemica e la crisi che ne è derivata hanno ulteriormente aggravato la situazione, e come sta già dimostrando la letteratura nell’ambito degli studi di genere, le conseguenze a lungo termine avranno un impatto che probabilmente penalizzerà in termini di produttività scientifica e di carico lavorativo ancora una volta la componente femminile. Dobbiamo allora immaginare che il tempo per un vero cambiamento sia ulteriormente procrastinato, che dobbiamo attendere i cosiddetti “tempi migliori”? Ovviamente la mia risposta a questi interrogativi è un deciso no: se l’evoluzione e il rinnovamento di idee, pensieri, visioni sono troppo lenti significa che dobbiamo impegnarci di più e meglio.
Per fare questo due mi sembrano le chiavi di svolta fondamentali. Dobbiamo anzitutto smettere di pensare che il perseguimento delle pari opportunità, di un maggiore equilibrio di genere, la conciliazione e la lotta agli stereotipi siano “roba da donne”: non è possibile che i momenti di riflessione su tali tematiche vedano una partecipazione quasi esclusivamente femminile, perché a essere in ballo è il nostro futuro, l’avvenire dei nostri mondi professionali, la preparazione di chi prenderà decisioni politiche, la visione di chi sarà chiamato/a ad immaginare mondi e società migliori. E allora il coinvolgimento non può che essere allargato, inclusivo e coraggioso. Siamo tutte e tutti chiamati a pensare, in modo audace e non protettivo, a una realtà che, se più equa, sarà anche più efficace e produrrà pensieri, immaginari, visioni degne della nostra crescita come comunità. La seconda chiave di svolta che vedo necessaria è la convinzione con la quale dobbiamo raccordarci alla società per innestarvi germogli di cambiamento. I nostri bilanci di genere potranno vedere curve in visibile movimento solo se sapremo portare con forza la lotta all’abbattimento degli stereotipi nelle nostre aule, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanile, dove urgente è la lotta anche contro ogni forma di violenza di genere, dalla più banale e apparentemente non dannosa, fino alla più grave.
Siamo stati toccati, di recente, dalla perdita traumatica di una nostra studentessa scomparsa per femminicidio. Allo choc e al dolore deve seguire un impegno preciso, perché non può esistere prevenzione della violenza se non c’è cultura della prevenzione, e l’Università, tutte le Università hanno l’obbligo di essere istituzioni trainanti per questo cambiamento culturale.
Un forte impegno in questo senso è contenuto nel Gender Equality Plan (GEP) che presto porteremo all’approvazione degli Organi. Ce lo chiede l’Unione Europea, che ha saggiamente deciso di farne un requisito fondamentale per chi voglia accedere alla richiesta di fondi per la ricerca competitiva. Ma la sfida sarà quella di farne un documento che non sia di facciata, vincolato all’opportunismo, bensì un’opportunità per mettere in campo una visione che osi investire risorse, umane e finanziarie, in grado di favorire azioni e progetti innovativi. Nel nostro GEP saranno coinvolte la didattica, la ricerca, la terza missione, ma anche il tema del reclutamento, perché la valorizzazione dei talenti all’interno delle comunità professionali è uno degli elementi distintivi più importanti, che fa davvero la differenza. All’interno del GEP però non potrà mancare neppure il tema della sensibilizzazione: a partire da un certo momento è subentrata in me la convinzione che, accanto all’impegno e all’energia per accelerare il cambio di passo, per incentivare azioni concrete e buone pratiche, sia anche necessario preparare il terreno, accettare che in questo ambito il tempo della riflessione e della sensibilizzazione è quanto mai necessario e imprescindibile. Da questo punto di vista credo che in questi anni la nostra comunità abbia lavorato molto e possa dirsi almeno moderatamente soddisfatta. Mi sembra che oggi ci sia maggiore sensibilità a questi temi, minore paura nell’affrontarli, un più forte desiderio di portarli al centro del dibattito critico e costruttivo, nella consapevolezza che siamo anzitutto persone meritevoli di eguali opportunità. Quanto più sapremo perseguire la valorizzazione di talenti e differenze, tanto più la società saprà accoglierci, tutte e tutti, facendoci crescere nella libertà e nella vera democrazia.
Francesco Ubertini
Rettore dell'Università di Bologna dal 2015 al 2021