2° Convegno Nazionale della SIAA - Società Italiana di Antropologia Applicata Rimini, 12-13 dicembre 2014
In vista del 2° Convegno Nazionale della SIAA, che si terrà presso il Dipartimento di Scienze dell'Educazione, sede di Rimini, Università di Bologna, il 12 e 13 dicembre 2014, si presentano in questa sede i call for papers centrati sul tema dell’applicazione dell’antropologia in vari ambiti dello spazio pubblico. Le proposte (tra le 500 e le 700 parole), unitamente ad un breve CV, dovranno essere inviati ai coordinatori della singola call alla quale si è interessati in forma di abstract e, contemporaneamente, all'indirizzo dell'associazione (siantropologiapplicata@gmail.com) entro l' 01/09/2014. I contributi dovranno contenere una sintetica descrizione del contesto di ricerca e una chiara formulazione dell’argomentazione proposta. La conferma di accettazione della proposta verrà inviata entro il 30 settembre. Si invita a rendere disponibile e circolare una bozza degli interventi 7 giorni prima del convegno per favorire un dibattito informato.
- Ivan Bargna (Univ. Milano-Bicocca) Antropologia, industrie culturali, "creative class" e mondo dell’arte
- Marco Bassi (Univ. Trento) Ricerca-azione, advocacy e altri metodi interattivi e collaborativi nell’antropologia
- Giuseppe Beluschi Fabeni (Univ. Granada), Stefania Pontrandolfo (Univ. Verona), Sabrina Tosi Cambini (Fondazione Michelucci/Univ. Verona) Progetti applicativi contro l'antiziganismo
- Mara Benadusi (Univ. Catania) Antropologi nei disastri. "Engagement" e ricerca applicata nello studio delle catastrofi
- Massimo Bressan (IRIS), Sebastiano Ceschi (CeSPI) Antropologia applicata nei contesti del lavoro e dello sviluppo locale
- Nadia Maranini; Martina Riccio (Centro Studi e Ricerche in Salute Internazionale e Interculturale) Dall'applicazione all'implicazione
- Giovanni Pizza, Andrea Ravenda (Univ. Perugia) Esperienza dell'attesa e retoriche del "tempo che manca" nel campo sanitario. Il contributo operativo dell'antropologia
- Bruno Riccio, Federica Tarabusi (Univ. Bologna) Antropologia applicata, servizi e migrazioni
- Alice Rossi (Univ. Milano-Bicocca) Antropologia applicata e rifunzionalizzazione degli spazi urbani
- Giuseppe Scandurra (Univ. Ferrara) Antropologia e marginalità urbane. Le ricerche in Italia
- Ivan Severi (Univ. Bologna) Antropologia e servizi sociali
- Alessandro Simonicca ("Sapienza" Univ. Roma), Roberta Bonetti (Libera Univ. Bolzano) Processi di patrimonializzazione
- Mauro Van Aken (Univ. Milano-Bicocca) Culture e gestione delle risorse comuni
Coordinatore: Ivan Bargna (ivan.bargna@unimib.it)
Titolo della sessione: Antropologia, industrie culturali, creative class e mondo dell’arte
Con l’avvento dell’economia post-fordista centrata sul carattere sempre più immateriale della produzione e su quello sempre più esperienziale del consumo, si assiste a una parziale disseminazione di pratiche creative e immaginative in ampi strati della società; a questo fenomeno si accompagna una tendenza inversa (ma solo apparentemente contraddittoria) verso un accentramento sempre maggiore dell’industria culturale.
In questo contesto la valorizzazione della “creatività culturale”, sia presente che passata (nelle forme patrimonializzate della cultura) è presentata sempre più come un fattore chiave delle politiche di “sviluppo sostenibile” in grado di integrare piano economico, sociale e territoriale, rivitalizzando città e quartieri. Sempre più frequentemente si ricorre a strategie di tipo artistico ed estetico, volte a stimolare la partecipazione, l’interazione creativa e l’empowerment di comunità e persone, nel tentativo di ricomporre la frammentazione sociale e supplire ai vuoti della politica.
In questo quadro agli antropologi si aprono nuovi e molteplici campi d’intervento, sia con compiti di monitoraggio e consulenza nell’elaborazione di progetti, che di ideazione, progettazione e implementazione di iniziative in forma imprenditoriale o no profit.
Ambiti d’intervento applicativo della disciplina sono allora le politiche di patrimonializzazione della cultura e dei paesaggi; la conduzione di gallerie, la curatela di mostre e progetti museali; l’elaborazione progettuale o valutazione di impatto socioculturale delle pratiche di arte pubblica e partecipativa; la realizzazione di etnografie collaborative con artisti in situazioni socialmente rilevanti; la consulenza o creazione di prodotti e campagne di marketing, comunicazione sociale, pubblicità; la partecipazione alla creazione di progetti architettonici e di oggetti di design e moda.
Il panel si propone di confrontare le diverse esperienze lavorative condotte dagli antropologi nell’ambito delle industrie culturali e creative; di pensare criticamente la loro relazione con la teoria antropologica e l’ambiente accademico; di riflettere sulle implicazioni sociali e politiche del loro operare.
Coordinatore: Marco Bassi (marco.bassi@unitn.it)
Titolo della sessione: Ricerca-azione, advocacy e altri metodi interattivi e collaborativi nell’antropologia
Gli ultimi decenni hanno visto una forte crescita di metodi interattivi e collaborativi. Metodi come la ricerca azione, la ricerca collaborativa (intesa nel senso di dialogo con entità socio-politiche collegate al contesto di studio) e l’advocacy – per citare solo quelli più direttamente orientati sulle policy - sono ormai di prassi per quegli studiosi formatesi nei più diversi ambiti disciplinari che perseguono un collegamento tra la produzione del sapere e l’impegno nel sociale, attraverso nuove modalità di produzione, uso e diffusione del sapere, e di empowerment.
Viene spesso affermato che tali metodi si diffondono in reazione al positivismo. Se ciò può essere vero per molte discipline, il discorso è assai più articolato nell’ambito antropologico, da sempre caratterizzato dal dualismo dell’osservazione e della partecipazione. Anche nei periodi e nelle correnti più fortemente positiviste o neopositiviste gli antropologi si sono coinvolti - magari ‘privatamente’ e senza farlo comparire nei testi etnografici - in campagne e iniziative a favore degli attori con i quali venivano a contatto per i loro studi. Talvolta il rapporto era addirittura capovolto, come nel caso di Morgan, il cui interesse antropologico è stato stimolato dall’impegno civico. Non è quindi un caso che l’antropologia abbia sviluppato una gamma piuttosto articolata, e in qualche caso anticipatrice, di posizioni esplicitamente orientate ad influenzare le policy, o, comunque, ad incidere sul sociale, ben rappresentate da denominazioni come action anthropology, engaged antrhopology, public anthropology, militant anthropology, activist anthropology.
Data la natura complessa di ogni tentativo di incidere sulle relazioni umane, è inevitabile per gli antropologi confrontarsi nel terreno aperto dell’interdisciplinarità e con altre tradizioni metodologiche. Capita, in questo percorso, di perdere l’identità antropologica e trovarsi coinvolti in processi dominati da altri paradigmi. Nonostante il contribuito che può di fatto aver fornito, l’antropologia finisce per apparire completamente marginalizzata dal discorso pubblico, in Italia come nel resto del mondo. Si invitano quindi gli antropologi che sono stati impegnati in iniziative caratterizzate dall’intento interattivo o collaborativo con la comunità o i gruppi di riferimento a riflettere su come la loro esperienza si posizioni in riferimento alla metodologia antropologica. Sono aperte tutte le chiavi di lettura, e le riflessioni di ordine etico e metodologico, ma la precedenza nella selezione delle proposte verrà data a contributi che in qualche maniera coinvolgano l’ambito delle policy.
Coordinatori: Giuseppe Beluschi Fabeni, Stefania Pontrandolfo, Sabrina Tosi Cambini (sabrina.tosicambini@gmail.com)
Titolo della sessione: Progetti applicativi contro l'antiziganismo
Il concetto di antiziganismo è stato introdotto relativamente di recente nelle scienze sociali, al fine di descrivere e definire diverse fenomenologie di violenza simbolica, politica, strutturale e istituzionale che in Europa, ma non solo, caratterizzano le relazioni instaurate dalle società maggioritarie con gruppi sociali identificati come "zingari". Per antiziganismo si intende dunque generalmente una particolare forma di razzismo che può sottendere tanto ideologie di superiorità razziale, quanto processi di de-umanizzazione, quanto, ancora, forme di discriminazione strutturale e istituzionale nei confronti dell'alterità "zingara", tutti fondati su stereotipi e pregiudizi storicamente radicati in Europa nei confronti delle minoranze di rom e sinti.
Nell'attuale contesto politico europeo, la promozione del riconoscimento multiculturalista propria delle politiche neoliberali è interpretata, da parte di un settore dell’attivismo rom e pro-rom, come una opportunità di affermazione “politico-etnica” e come una positiva fonte di risorse per azioni contro l’antiziganismo, a disposizione di enti pubblici o del terzo settore. Al contempo, tali politiche sembrano però riproporre nuove forme di antiziganismo, fondate su processi di etnicizzazione, marginalizzazione e criminalizzazione, che sono attualmente oggetto di dibattito all'interno delle scienze sociali e giuridiche, e nella stessa arena politica.
Il finanziamento da parte di enti pubblici e privati, dal livello europeo a quello locale, alla lotta contro l’antiziganismo ha generato molteplici iniziative di antropologia applicata, molte delle quali sono attualmente in corso. Esse rappresentano un corpus di esperienze alle quali si vuole dare uno spazio di presentazione in questo panel, in modo da evidenziare la portata del sapere antropologico applicato – la sua forza e le sue criticità – all’interno del complesso quadro sopra delineato.
Si invita, pertanto, a presentare paper riguardanti progetti (in corso di realizzazione o già realizzati), centrati sul tema dell’antiziganismo attraverso un approccio antropologico applicativo, che propongano riflessioni su:
- Il ruolo dell’antropologo e dell’antropologia applicata nell’arena politica locale, nazionale ed europea: quali sono le criticità che la nostra disciplina solleva e quali saperi fa emergere, e attraverso quali metodologie riesce (o non riesce...) a introdurre le une e gli altri nei contesti dove si definiscono le politiche, si prendono decisioni, si scrivono atti, si delineano prassi di intervento;
- L’antropologo nei contesti di interazione fra rom e gagé (es. tavoli di concertazione, tribunali, ecc.): quali obiettivi si pone, quali le modalità di conseguirli, quale la sua “posizione” e quale il suo “spazio” in questi contesti, quale il suo contributo, quali le domande che pone a se stesso e agli altri attori (rom e non rom);
Si richiede, inoltre, che il paper affronti i contenuti del progetto, presentando criticamente:
- definizioni, quadri concettuali e teorici dell’antiziganismo su cui si basa il disegno dei progetti;
- obiettivi e finalità, metodologie e strumenti di definizione delle problematiche, disegno e implementazione dell’azione, indicatori di monitoraggio, valutazione e follow-up dei progetti;
- rapporti tra contesto politico (ideologie e prassi), a livello europeo, nazionale o locale, e modalità di progettazione/realizzazione dei progetti;
- definizione e ruolo dei soggetti proponenti, partecipazione nel ciclo del progetto dei beneficiari diretti e indiretti, partecipazione di soggetti altri, modalità di partecipazione, aspetti critici e risultati a seconda della loro specificità settoriale (enti pubblici, mass media, ONG, etc.);
- criticità eventualmente emerse in corso d'opera sia in fase di progettazione che in fase di implementazione che di valutazione finale dei progetti
Coordinatore: Mara Benadusi (mara.benadusi@unict.it)
Titolo della sessione: Antropologi nei disastri. "Engagement" e applicazione nello studio delle catastrofi
Discussant: Sandrine Revet (CERI, Sciences-Po, Paris).
Fin dal suo emergere l’antropologia dei disastri si è andata configurando come un settore di studi dal forte afflato applicativo. Studiare le “cause profonde” delle catastrofi era considerato il presupposto per una definizione in senso più equo e condiviso dei metodi di gestione e mitigazione usati per sventarle. La riduzione della vulnerabilità dipendeva dallo sforzo di comprendere i fattori in grado di determinarla, che andavano ben oltre le caratteristiche fisico-tettoniche o più genericamente “naturali” delle zone colpite. Le catastrofi (così come i rischi ad esse connessi) non potevano essere considerati semplicemente il risultato di una forza dirompente capace di interrompere l’ordine normale delle cose. Erano processi ben più radicati ed avevano le proprie cause in quell’ordine stesso: un ordine politico, economico e sociale che, lungi dall’essere “normale”, mostrava il suo grado di “anormalità” proprio quando rendeva disastroso – per alcuni luoghi e alcune categorie di persone specialmente – l’impatto di un agente distruttivo.
“Spogliare i disastri della loro naturalità” promuovendo una visione alternativa all’approccio tecnocentrico tradizionalmente in uso nelle scienze geofisiche ha spinto questi antropologi ad esaminare i modi di sviluppo economico, le relazioni di potere sottese ai contesti locali, la vulnerabilità dei territori colpiti e spesso la storia coloniale pregressa in certe aree del pianeta, piuttosto che concentrarsi solo sugli aspetti fisici della catastrofe. Questo approccio presupponeva il coinvolgimento “a fianco” di popolazioni considerate particolarmente vulnerabili anche perché particolarmente soggette a forze politiche dominanti nel Sud del mondo. Ri-politicizzare le catastrofi e analizzare attentamente non tanto il rischio in sé, ma i processi di costruzione sociale del rischio ne sono state le parole d’ordine.
L’afflato politico volto al cambiamento della cause di vulnerabilità determinanti le catastrofi è stato predominante fino all’inizio degli anni ’90. Nel decennio successivo però, per via dei finanziamenti e delle occasioni di visibilità aperte dalla International Decade for Natural Disaster Reduction (IDNDR), si è assistito ad una progressiva diluizione della radicalità dell’antropologia dei disastri. Una de-radicalizzazione però che non è stata priva di momenti di tensione, e neppure esente da eccezioni. Dibattiti interni circa la necessità di conservare uno spazio da ricercatori indipendenti hanno costellato l’intera vicenda, e a tratti vengono riproposti, soprattutto da quanti guardano con preoccupazione alla crescente popolarità che l’approccio antropologico sta assumendo all’interno delle Nazioni Unite.
Fino a che punto divenire consulenti riduce i propri spazi di autonomia, e ancora di più de-radicalizza (e rischia perfino di neutralizzare) l’impegno politico-applicativo originario? Un’antropologia dei disastri implicata a fianco delle comunità locali è compatibile con incarichi ufficiali di prestigio all’interno dei network internazionali di regolazione dei saperi e delle tecnicalità di gestione delle catastrofi? E più concretamente come può essere ri-declinato oggi quell’afflato politico-applicativo originario in un clima di crescente “capitalismo dei disastri”? In situazioni quindi in cui si tende a utilizzare lo shock legato alla catastrofe come un’occasione per promuovere in fase ricostruttiva politiche di sfrenato liberismo economico altrimenti impopolari? Il caso di New Orleans dopo l’uragano Katrina e dello Sri Lanka post-tsunami mettono bene in luce simili derive. E ancora, come ripensare un proprio posizionamento da ricercatori applicati in un clima in cui è in aumento l’uso politico della scienza che studia i disastri? Il processo alla Commissione Grandi Rischi nel caso del terremoto de L’Aquila mostra bene gli aspetti controversi di una strumentalizzazione dei saperi scientifici tecnico-consulenziali; cosa che era già accaduta d’altronde, sebbene in ambito diverso, nell’episodio drammatico della diga del Vajont.
Questa sessione intende sondare possibili risposte al nucleo di questioni qui presentate. Si incoraggiano interventi che muovano dalle problematiche menzionate (ricerca, applicazione, consulenza, impegno politico), provando a declinarle nel proprio campo di studio. Si accettano sia contributi da parte di chi ha optato per uno spazio da ricercatore indipendente, sia relazioni di antropologi che hanno invece ricoperto un ruolo consulenziale nella gestione delle catastrofi. Così come sono ben accetti interventi che indaghino l’opzione di un coinvolgimento diretto dell’antropologo/a a fianco dei comitati di vittime dei disastri, o dentro i movimenti civico-politici che sempre più spesso emergono in risposta ai bisogni di auto-determinazione della popolazione in fase ricostruttiva. In ogni caso è richiesta un’attenzione specifica alle dimensioni epistemologiche e politiche determinanti queste scelte, e una riflessione su come esse abbiamo influito vuoi sull’andamento della ricerca etnografica, vuoi sul processo di negoziazione/circolazione dei saperi tanto nella fase di campo quanto in quella successiva, ovvero a ricerca conclusa.
Coordinatori: Massimo Bressan, Sebastiano Ceschi (massimo.bressan@gmail.com; sebastiano.c@cespi.it)
Titolo Sessione: Antropologia applicata nei contesti del lavoro e dello sviluppo locale
La progressiva integrazione dei sistemi economici locali e regionali all’interno di un sempre più integrato mercato globale della produzione industriale, dei flussi finanziari e del lavoro (migrazioni) ha innescato nei territori italiani ed europei processi di mutamento che hanno investito la capacità di regolare i mercati particolari di lavoro e di subfornitura, le relazioni tra i lavoratori e di questi con le imprese. Forze esterne disaggreganti tendono a sconnettere i sistemi economici locali dai loro territori e allo stesso tempo introducono nuovi saperi (abilità e tecniche) e nuove reti di relazioni; unitamente alla “fine del lavoro” di matrice novecentesca, e alla sua ri-articolazione complessa nei contesti contemporanei, tali forze spingono a una nuova tematizzazione del lavoro e dello sviluppo locale. Da una parte, il lavoro perde centralità sociale e si frantuma nelle più diverse forme, modalità e nazionalità dei lavoratori, ma resta una componente imprescindibile delle relazioni sociali, della coesione comunitaria e dell’identità personale. Dall’altra, lo sviluppo locale si arricchisce di nuove dimensioni ed attori, viene coinvolto in nuove reti e relazioni transnazionali ed è oggetto di politiche che si collocano esse stesse su diversi piani istituzionali (regionale, nazionale ed europea).
La sessione intende contribuire al riposizionamento dello sguardo antropologico rispetto a questi temi, favorendo il confronto tra antropologi che hanno sviluppato lavori ed esperienze di ricerca, applicati all’analisi di due dimensioni distinte ed al tempo stesso integrate e complementari: a) quella del lavoro nelle sue diverse forme e scale dimensionali; b) quella dello sviluppo locale e delle sue diverse declinazioni economiche e sociali.
a) Il primo ambito tematico può includere l’analisi:
- delle modalità di funzionamento e delle forme di strutturazione del mercato del lavoro dipendente ed autonomo (istituzioni e sistemi di collocamento, reti di attori, meccanismi di discriminazione/segregazione);
- delle forme contrattuali e delle implicazioni sulle persone e sulle loro sfere di vita (meccanismi di transito, dimensioni della flessibilità, diversità tra cittadini italiani e stranieri)
- dei margini e delle modalità di negoziazione tra lavoratori e imprese/datori e del grado di autonomia dei lavoratori (negoziazione del salario e del contratto, partecipazione sindacale, accordi formali ed informali, forme di sottrazione dal lavoro; nuove forme di mutualismo e di autogestione; nuovi saperi, capacità e modalità organizzative);
- delle forme di lavoro autonomo e imprenditoriale (imprese italiane/immigrate; imprese con mercati locali/transnazionali; profili dell’imprenditore, del consulente, immaginari della mobilità sociale);
- dei luoghi, delle relazioni di lavoro e delle dimensioni soggettive del lavoro (relazioni organizzative, rapporti personali sociali e interculturali, valenze simboliche del lavoro, carriere e progettualità, socialità dentro e fuori del posto di lavoro)
b) il secondo ambito tematico può includere l’analisi:
- delle relazioni e del radicamento delle realtà e delle reti produttive nelle società locali, nei territori e nei contesti di vita;
- del funzionamento delle politiche dello sviluppo locale/regionale e delle risposte dei diversi soggetti in termini di innovazione, servizi, creatività, contratti etc.
- delle diverse concezioni e modelli dello sviluppo locale detenute dai diversi attori in gioco.
Sono ben accetti lavori applicati di antropologia delle istituzioni, delle organizzazioni, delle relazioni industriali e delle policy di sviluppo locale; lavori di taglio più etnografico di antropologia nei luoghi di lavoro, delle relazioni di lavoro e di antropologia del lavoro migrante; analisi esplorative sugli spazi di ricerca e azione dell’antropologia sui temi della call.
Coordinatrici: Nadia Maranini, Martina Riccio (nadiamaranini@gmail.com; martina.riccio1987@gmail.com)
Titolo Sessione: Dall'applicazione all'implicazione
In quali contesti, attraverso quali pratiche e snodi concettuali e operativi la disciplina antropologica, che si è sempre caratterizzata per la sua vicinanza al mondo teorico della produzione scientifica, trova un primario spazio di implicazione nei processi di trasformazione sociale? Nel contesto italiano, già da alcuni decenni è stata discussa in maniera esplicita all’interno del mondo antropologico (soprattutto sull’onda della corrente post-moderna degli anni Ottanta negli Stati Uniti), la non neutralità della figura dell’antropologa/o e il suo necessario posizionamento come attrice/ore sul campo. Tale dibattito ha soprattutto messo in luce come l’antropologa/o sia ineludibilmente parte dello spazio intersoggettivo del campo, facendone emergere la soggettività come strumento stesso di ricerca. Nell’interrogarsi sulle dimensioni trasformative della disciplina, non ha trovato altrettanto spazio e legittimità una riflessione teorica e metodologica sulle forme in cui la ricerca antropologica può giocare un ruolo attivo nei processi di denuncia e di rivendicazione sociale all’interno della comunità (intesa come istituzioni, realtà associative e cittadinanza), e su se e come tale prospettiva di lavoro implica una trasformazione delle pratiche della ricerca etnografica. Ripensare la ricerca antropologica come sguardo/processo implicato in spazi concreti di 'attivazione' comunitaria - su temi di tradizionale 'pertinenza' disciplinare quali ad esempio la salute, l’educazione, la migrazione, il sesso e il genere - significa rimetterne in discussione i fondamenti teorico-metodologici nonché i presupposti materiali: come cambia, in termini di tempistiche e priorità degli aspetti da indagare, la ricerca sul campo? Come si modificano il linguaggio e la forma di comunicazione nel processo di co-costruzione della ricerca con molteplici attori e nella sua restituzione pubblica? Come (si) configurano le relazioni con altri soggetti/ruoli/discipline?
La sessione vorrebbe costruirsi in forma interdisciplinare e trasversale ai diversi campi di studio. E’ dunque aperta a tutte/i coloro che, a partire dalle proprie esperienze di ricerca individuali o collettive, vogliano confrontarsi sulle criticità teoriche e metodologiche che un tale ripensamento della ricerca antropologica in chiave implicata solleva, e sui possibili risvolti pratici e trasformativi del senso della ricerca stessa.
Coordinatori: Giovanni Pizza, Andrea Filippo Ravenda (giovanni.pizza@unipg.it; ravenda01@gmail.com)
Titolo Sessione: Esperienza dell'attesa e retoriche del "tempo che manca" nel campo sanitario. Il contributo operativo dell'antropologia
Questa sessione vuole riflettere sulla dimensione operativa delle pratiche teoriche critiche dell’antropologia a partire da etnografie condotte sulla esperienza dell’attesa e le figure della temporalità in campo sanitario.
La presenza operativa dell’antropologia in campo sanitario ha ottenuto negli anni un risultato comune alla gran parte delle ricerche etnografiche. Si è rilevato, cioè, che le differenze interne e i rapporti di forza che attraversano lo spazio sociale della salute, corrispondono anche ad articolazioni e divisioni del lavoro materiale intorno a oggetti costruiti e resi rilevanti sia dalle scelte istituzionali, politiche e di governo, sia da pratiche messe in atto in contesti diversificati e variamente situati nei quali si attivano molteplici agencies umane (pazienti, familiari, medici, infermieri, specialisti, burocrati, antropologi e vari operatori di assistenza) e non umane (oggetti, tecnologie e dispositivi). In tale quadro, le malattie non sono più decostruibili unicamente come “invenzioni della tradizione biomedica” fondate su assunti ideologici “autoritari” e “riduzionistici”, ma risultano quali prodotti proteiformi e concreti, ideali e materiali, evanescenti eppure resistenti proprio perché fabbricati e attivati quotidianamente nel quadro di una dialettica egemonica che è un complesso campo di lotta dagli esiti tutt’altro che scontati (come dimostrano le rivendicazioni sempre più articolate di movimenti politici popolari connessi al diritto alla salute). Le etnografie in campo sanitario hanno difatti illuminato almeno due ordini di influenza politico-istituzionale sulla esperienza corporea: 1) la centralità dei processi di incorporazione, che ha reso prevalente la dimensione politico-fisica sottesa all’esperienza del malessere e alla ricerca di guarigione; 2) la capacità di agire in campo biomedico, che è apparsa orientata non tanto da una sorta di specifica cultura epistemica, quanto da vincoli politico-economici e governamentali sempre più rigidi, destinati a ostacolare l’esercizio democratico del diritto alla salute. È dunque apparso sempre più evidente quanto l’assistenza sanitaria pubblica sia connessa alle scelte politiche di allocazione delle risorse economiche, nonché alle pratiche di azione e di sfida, di alleanza e di lotta, dei diversi agenti che operano in campo sanitario. In questa ottica, i processi di incorporazione assumono un significato politico oltre che fenomenologico, in quanto essi riguardano tutti gli agenti sociali che attraversano il campo sanitario e non soltanto i “pazienti”. Non sono forse, queste, le conoscenze e le esperienze evidence based del campo sanitario?
Come il corpo e lo spazio, il tempo è un ingrediente fondamentale di tale incessante fenomenologia politica, nonché un tratto saliente atto a svelare, se esplorato con gli strumenti dell’antropologia, le più intime contraddizioni dei modi di produzione della salute e della malattia. Infatti, i processi di aziendalizzazione e di burocratizzazione del campo sanitario hanno reso la quantificazione del tempo non soltanto l’oggetto di scelte organizzative, ma una vera e propria modalità di misurazione della efficienza clinica centrata sulla dialettica della velocità e della lentezza. La erosione del diritto alla salute, resa ancora più iridescente dagli effetti necropolitici del neoliberismo nell’attuale crisi economico-finanziaria, conduce a una percezione del tempo per certi versi paradossale. Esso appare breve quando dovrebbe essere lungo e si allunga quando dovrebbe essere rapido. Da un lato si determina una velocizzazione frenetica e quantitativa dei ritmi imposti dalla organizzazione aziendale dei servizi che incidono sullo stesso incontro medico-paziente, sulla “visita”, dall’altra si determina una forma di esperienza sociale costituita dall’attesa da parte dei cittadini per l’accesso ai servizi, una lunga durata derivante dai tagli alla spesa sanitaria pubblica. Tali effetti negativi sul diritto alla salute nella fase neoliberista del “capitalismo veloce” sono ancora da esplorare etnograficamente. Ma tali etnografie non possono non riflettere sulla loro funzione operativa oltre che esplorativa e interpretativa. La classica critica antropologica del “riduzionismo” dello sguardo medico-scientifico, a fronte di tali complesse evidenze politico-corporee, appare oggi non più centrale. Tuttavia nuovi ostacoli si frappongono al dialogo: alla luce dei risultati che l’azione dell’antropologia sul campo sanitario lascia intravvedere, sia come critica dell’organizzazione esistente sia come possibilità di cambiamento o di valorizzazione di laboratori sperimentali in campo sanitario, le professionalità del campo biomedico hanno elaborato una sorta di “retorica del tempo che manca”, una lamentela sulla mancanza di tempo che emerge sempre di più nel dialogo con l’antropologia medica e punta a giustificare le difficoltà di perseguire appieno le indicazioni operative che provengono dalla ricerca antropologica in campo clinico-sanitario. Tale retorica , peraltro, include un altro genere di enunciati che ricorre nello spazio pubblico della salute: le lamentele sulla mancanza di risorse economiche. Si tratta di corrispondenze che rendono in certo senso urgente lo studio etnografico dell’efficacia o dell’origine situata delle metafore del tempo in campo sanitario, in primo luogo di una tra le più frequenti «metafore con cui viviamo»(John Lakoff), cioè quella che recita: «il tempo è denaro».
Alla luce delle premesse qui illustrate, obiettivo della presente sessione è raccogliere interventi che siano esito di ricerche etnografiche a carattere operativo focalizzate sulla esperienza dell’attesa, la percezione e la organizzazione del tempo, la retorica del “tempo che manca” o del “tempo che ci vorrebbe”, nel campo sanitario. Etnografie del tempo sanitario, di quello perduto o ritrovato, ridotto o esteso, sospeso o prolungato, mercificato, riscattato, trasceso o conquistato, fuori le mura o intra moenia, a seconda dei casi. Si richiedono in particolare ricerche nelle quali l’effetto operativo della presenza etnografica abbia fatto emergere tali contraddizioni e abbia condotto ad alleanze o a laboratori sperimentali per il loro superamento. Obiettivo è avere resoconti plurali relativi a nuove possibilità di dialogo concreto e operativo fra antropologi, medici e altri protagonisti del campo sanitario, che vadano oltre le intenzioni della transdisciplinarità teoretica e possano condurre a forme nuove di collaborazione e alleanza pratica.
Coordinatori: Bruno Riccio, Federica Tarabusi (bruno.riccio@unibo.it; federica.tarabusi2@unibo.it)
Titolo della Sessione: Antropologia applicata, servizi e migrazioni
Mentre nell'antropologia delle migrazioni sono emersi apparati analitico-concettuali sempre più sofisticati, le preoccupazioni operative che caratterizzano l'incontro quotidiano con la diversità culturale all'interno dei servizi (pubblici e del “privato sociale”) ci suggeriscono di indagare più a fondo questo ambito di applicazione. Infatti, le categorizzazioni, a volte semplificate, relative alla migrazione, gli essenzialismi adottati nel pensare e gestire le “differenze”, i saperi e modelli professionali messi in campo nell'interazione con l'utenza straniera, la (ri)produzione di forme discriminanti e di esclusione così come le dinamiche di spersonalizzazione e controllo che si evidenziano nei confronti di cittadini migranti, rifugiati e richiedenti asilo sembrano essere al centro di un'analisi critica in ambito scientifico e accademico, ma non avere trovato sufficienti spazi di traduzione pratica nelle esperienze concrete di chi opera nel variegato sistema dell'accoglienza.
E' per questa ragione che si ritiene necessario facilitare il confronto tra due mondi professionali non sempre comunicanti e stimolare una riflessione centrata sui diversi dilemmi che caratterizzano l'applicazione dell'antropologia in tale ambito: quali sono gli effettivi margini di negoziazione per produrre e alimentare dentro ai servizi un sapere critico che non abbia un carattere solo sporadico e occasionale? Come applicare un approccio riflessivo e contestuale in ambiti spesso governati da procedure standardizzate e routinizzate e dal bisogno di efficienza organizzativa? Attraverso quali canali e strategie costruire un'“alleanza” con gli operatori e interrogare la loro riflessività sulle categorizzazioni istituzionali e su saperi e linguaggi che caratterizzano le loro traiettorie professionali? con quali dilemmi di carattere etico-politico e pratico-metodologico ci si confronta nella traduzione pratica e operativa di questo sapere?
Nel tentativo di discutere questi ed altri interrogativi, la sessione punta a sviscerare i possibili percorsi che caratterizzano l'urgenza di coniugare una “postura” critica nell'analisi della diversità e dei processi migratori con la richiesta di soluzioni operative orientate a contribuire alla costruzione e realizzazione delle politiche pubbliche nei confronti dei migranti.
La sessione è aperta a tutti coloro che, da vertici di osservazione diversi (quello di operatori con formazione antropologica o di antropologi con esperienza di ricerca applicata), desiderino mettere in gioco il proprio background professionale, relativo a diversi contesti (servizi pubblici, associazioni locali, progetti e centri “interculturali”, ecc.) e in rapporto a molteplici attori/utenti (seconde generazioni, donne migranti, famiglie straniere, rifugiati e richiedenti asilo, ecc.), per esplorare la possibilità concreta di guidare il sapere antropologico dentro la quotidianità sociale dei servizi e delle pratiche dell'accoglienza.
Coordinatrice: Alice Rossi (a.rossi30@campus.unimib.it)
Titolo Sessione: Antropologia applicata e rifunzionalizzazione degli spazi urbani
Nel corso dell’ultimo decennio in Italia si è assistito ad un graduale restringimento delle possibilità di accesso al lavoro, all’edilizia popolare, alle forme di Welfare, in presenza di un accelerato processo di privatizzazione dei beni e degli spazi pubblici.
A livello globale i movimenti ‘Occupy’ rispondono ad un diffuso bisogno di ‘ri-appropiazione’ simbolica e materiale che sovverta le attuali gerarchie di potere in uno scenario globale in cui la produzione procede spontaneamente (per conto proprio), senza il lavoro. Per comprendere le trasformazioni in corso, l’antropologia applicata ‘è costretta’ a stare in bilico tra queste dimensioni spazio-temporali-esistenziali fortemente connotate dal senso della precarietà (contratti di lavoro e di soggiorno a termine, percorsi di accoglienza e integrazione residuali, percorsi di studio senza sbocco professionale…). Lo sguardo decostruttivo e storicizzante dell’antropologo, anch’esso coinvolto nell’attuale processo di erosione sociale ed economica, consente di mostrare le contraddizioni strutturali, economiche, generazionali passate e presenti che il carattere auto evidente del dibattito pubblico tende ad occultare. Cosa succede quando uno spazio inutilizzato viene rifunzionalizzato per rispondere a necessità abitative, economiche, politiche che ‘il governo delle città’ non gestisce adeguatamente? Cosa significa quando i soggetti, violando le norme, modificano la propria condizione di vita attraverso forme di occupazione dei luoghi cittadini?
L’esame delle traiettorie di chi, dopo anni di lavoro regolare, è stato sfrattato, o di chi, pur avendone diritto, non accede alle forme di accoglienza previste per l’Asilo Politico, evidenzia la presenza di un fenomeno diffuso di differenziazione e gerarchizzazione della cittadinanza. Il popolo dei ‘senza casa’ è molto eterogeneo, nelle palazzine occupate convivono italiani e immigrati, ‘padri e figli’ ma esistono altre forme di occupazione degli spazi urbani che rispondono a necessità mediche, legali, sociali e culturali. L’attenzione ‘multi-focale’ dell’antropologia in questi spazi evidenzia la possibilità di capire se le ‘ri-appropriazioni’ urbane generano legami sociali inclusivi oppure nuovi ghetti e in quali circostanze ciò avviene. Portare alla luce tali pratiche serve ad allargare i termini di negoziazione del ‘patto sociale’ tra cittadini e città, intesa come luogo dove poter sperimentare forme ‘anti-crisi’ attraverso il riutilizzo, la rifunzionalizzazione di ambiti già esistenti. Questi luoghi parlano anche del bisogno di ‘cittadinanza’, di riconoscimento da parte di un insieme variegato di soggetti le cui identità sociali si definiscono per la ‘mancanza’: senza-lavoro, senza-casa, senza-documenti, senza-cittadinanza. In che modo queste forme di vita emergenti rompono col passato, lo trasformano o lo ri-producono?
La call si rivolge ad antropologi che abbiano operato con ruoli diversi (come operatori sociali, attivisti, animatori, volontari, amministratori della città …) in ambiti di occupazione ‘spontanee’ e di ri-significazione degli spazi urbani o all’interno di progetti istituzionali di ‘riqualificazione’ di zone della città con lo scopo di ampliare i contesti di inclusione.
Coordinatore: Giuseppe Scandurra (giuseppescandurra@gmail.com)
Titolo della sessione: Antropologia e marginalità urbane.
Nell’ultimo decennio sono state pubblicate numerose ricerche, in Italia, che hanno avuto per oggetto ciò che qui proviamo a chiamare con il nome di “antropologia delle marginalità urbane”. Obiettivo di questa sessione è quello di interrogare i ricercatori italiani che hanno pubblicato le più recenti ricerche etnografiche sui processi di esclusione sociale in relazione allo spazio urbano del nostro Paese per rispondere a queste tre domande: è legittimo parlare di un’antropologia delle marginalità urbane nel nostro Paese? Alla luce di queste ricerche, per lo più prodotte a partire dagli anni Duemila, come sono cambiate le politiche per l’inclusione sociale nelle nostre città? Quali sono state le ricadute applicative di questi studi fuori e dentro l’Università?
“Il nome del barbone” è sicuramente tra le prima ricerche etnografiche condotte sui senza fissa dimora. Il sociologo Federico Bonadonna, a ridosso del nuovo millennio, circoscrivendo il campo a determinate aree del centro storico di Roma, nell’arco di dodici mesi ha raccolto storie di vita di un gruppo di senza fissa dimora tramite supporti video, audio magnetici e questionari strutturati per rilevare dati biografici - età, sesso, provenienza geografica, etc. -, le modalità di adattamento, gli itinerari urbani che i protagonisti della sua ricerca seguivano per recarsi al luogo del sonno o del lavoro. Senza fissa dimora, per l’etnografo romano, sono le persone che si trovano in uno stato di grave bisogno poiché non hanno una casa, un reddito minimo, la possibilità di accesso ai servizi socio-sanitari, hanno rotto con la famiglia, gli amici, e sono, spesso, in una condizione di rischio di possibile ulteriore deterioramento fisico e psichico. L’intuizione felice di Bonadonna sta nel fatto di definire la vita praticata da tutte le persone che ha incontrato durante il suo studio, quella di strada, come «una forma di adattamento all’ambiente urbano, una cultura della resistenza in grado di elaborare una diversa percezione della realtà spazio-temporale» (Bonadonna 2001); non solo, dunque, una forma di emarginazione passiva e parassitaria.
Il testo di Bonadonna risponde a un tema di studio iniziato negli anni Cinquanta, che fa da filo rosso a molte etnografie prodotte nell’ambito delle marginalità urbane pubblicate in Italia recentemente: ovvero, in termini antropologici, è legittimo parlare di una «cultura della povertà»? (Lewis 1973). Questa domanda, in effetti, trova risposte in altre due monografie pubblicate in Italia e che, a nostro parere, possono entrare in quel gruppo di studi etnografici che qui proviamo a titolare come “Antropologia delle marginalità urbane”.
Il secondo lavoro che va in questa direzione è “Sopravvivere in strada” (Barnao 1994). Oggetto della ricerca del sociologo urbano Charlie Barnao è un gruppo di senza fissa dimora che vivono a Trento, nell’area centrale di Piazza Dante. Il sociologo analizza, dopo aver conquistato necessari rapporti di fiducia con i protagonisti della sua ricerca, le strategie di adattamento di queste persone in una continua lotta quotidiana per il procacciamento di beni essenziali per la propria salute mentale e fisica. L’opera di Barnao è da segnalare per due meriti: è tra le prime a fare il punto sugli studi, per lo più statunitensi, che sono stati pubblicati all’interno delle ricerche sull’esclusione sociale, e realizza uno dei primi “conteggi”, con modalità nuove, dei senza fissa dimora a Trento.
Il terzo lavoro che merita attenzione è “Gente di sentimento”, di Sabrina Tosi Cambini (2004). L’antropologa, che ha condotto una ricerca etnografica di lunga durata alla stazione Santa Maria Novella di Firenze, sostiene che il temine “senza fissa dimora” non andrebbe usato. Tosi Cambini, non a caso, chiama i protagonisti della sua ricerca etnografica «uomini e donne che vivono in strada». La ricercatrice sottolinea come le persone che ha incontrato durante lo studio fossero ricche soprattutto dal punto di vista relazionale, quindi assolutamente da non classificare «in base alla condivisione di ciò che non hanno». Tosi Cambini, il cui testo ha il merito di fare una sintesi soprattutto degli studi francesi condotti su questo tema, portando all’estremo le posizioni di Bonadonna e Barnao afferma che non sempre queste persone vadano «reintegrate» nella società, proprio perché dispongono di una propria visione del mondo, con la quale i servizi dovrebbero confrontarsi (Tosi Cambini 2004).
I lavori di Bonadonna, Barnao e Tosi Cambini hanno un elemento in comune: oltre a inserirsi nel dibattito storico sulla “cultura della povertà” concentrano tutti lo sguardo su senza fissa dimora che vivono per strada e hanno scelto, nella maggior parte dei casi, di non avvalersi delle strutture comunali - dormitori e rifugi diurni - che loro avrebbero permesso di ripararsi dal freddo soprattutto durante i mesi invernali e non incorrere in retate da parte delle forze dell’ordine diventate sempre più frequenti nelle strade di queste città - rispettivamente Roma, Trento e Firenze. Inoltre, queste etnografie hanno tutte il pregio di porsi determinati problemi legati alla politica delle rappresentazioni (Bourgois 1995): come ritrarre al meglio le marginalità urbane in Italia quando, in questi ultimi anni, dopo l’arrivo direttamente dagli Stati Uniti delle politiche «tolleranza zero» (Wacquant 2000), il dibattito sulla povertà tende a polarizzarsi intorno ai temi dell’immigrazione - la presenza sempre più numerosa di immigrati - e delle scelte individuali - differenziazioni sempre più diffuse a livello mediatico tra senza fissa dimora “onesti” che rispettano le regole e a forza di lavorare sono riusciti a reintegrarsi e altri che invece hanno preferito delinquere?
Tra le preoccupazioni di tutti e tre i ricercatori, in effetti, c’è la possibilità che i lettori possano fraintendere le storie di vita quotidiane dei senza casa protagonisti delle rispettive monografie come rappresentazioni stereotipate di homeless. Bonadonna, Tosi Cambini e Barano, invece, hanno scelto di non cedere mai a una narrativa interiorizzante senza però occultare la sofferenza che caratterizza tutte le vite degli attori sociali al centro dei loro studi (Wacquant 2002).
A partire da questi studi si è sviluppato in questi ultimi anni l’interesse per ricerche etnografiche che concentrano l’attenzione su queste tematiche; ma quali sono i motivi che hanno spinto alcuni antropologi e sociologi, attraverso il metodo etnografico, a scegliere di indagare tali questioni?
Nel 2005, inserendosi in questo filone di ricerca, chi propone di coordinare questa sessione del convegno ha condotto uno studio su un gruppo di senza fissa dimora a Bologna utenti, tutti, di un dormitorio comunale nella prima periferia di Bologna. Avvalendosi anche di strumenti quali la rappresentazione fotografica il ricercatore ha descritto nel testo le pratiche di vita quotidiane dei protagonisti del suo studio. “Il Carracci. Un’etnografia dei senza fissa dimora a Bologna” (Scandurra 2005) si differenzia forse dalle etnografie sopra menzionate perché raccoglie le storie di vita di un gruppo di ospiti del rifugio notturno Massimo Zaccarelli, meglio conosciuto come “Carracci”, i quali hanno scelto di non dormire per strada, piuttosto avvalersi dei servizi comunali quali il dormitorio, le mense comunali, le docce pubbliche, etc.
Negli stessi anni l’antropologo Ferdinando Fava ha pubblicato “Lo Zen di Palermo. Antropologia dell’esclusione”. Fava, nel suo testo, dialoga con questa letteratura concentrando la sua attenzione, ancor di più degli altri autori prima citati, sulle pratiche di vita quotidiane di un gruppo di abitanti di questo territorio: «Quale è la vera vita che si svolge fra le strade e nelle case di questo immenso quartiere, consegnato all'immaginario collettivo come il più violento e disperato d’Italia e simbolo del degrado che accomuna molti sobborghi urbani europei?» (Fava 2008)
Sempre nel 2008, infine, è stato pubblicato un lavoro di grande interesse ad opera dell’antropologo Antonello Ciccozzi che ha avuto per oggetto le pratiche di vita quotidiane di uomini e donne appartenenti a sottoculture giovanili spesso accusati dai media nazionali di essere responsabili del “degrado” che caratterizza i nostri spazi pubblici urbani.
Alla luce di questi lavori, le domande principali che questa sessione si propone sono: “In che senso possiamo parlare in Italia dell’esistenza di un’antropologia delle marginalità urbane? Cosa hanno prodotto i nostri studi in termini di nuove politiche per l’inclusione sociale che rispondano al meglio ai bisogni di uomini e donne “emarginati”? E, rivolgendosi anche all’Accademia, come questi studi hanno cambiato anche il modo di fare ricerca etnografica? Chi sono stati i lettori di queste ricerche? Che dibattito hanno provocato con chi lavora quotidianamente - operatori, educatori, assistenti sociali, amministratori etc. - con queste realtà? Quali, in sintesi, sono state le ricadute applicative di queste ricerche nel nostro Paese?
Coordinatore: Ivan Severi (ivan.severi3@unibo.it)
Titolo della sessione: Antropologia e servizi sociali
Nei mezzi di comunicazione si afferma in modo sempre più frequente che nella nostra società è avvenuto un mutamento antropologico, che tra un giovane nativo digitale e la generazione dei trentenni esiste un abisso più ampio di quello che fino non molto tempo fa esisteva tra nonni e nipoti. A usare il termine mutamento antropologico non sono certo gli antropologi che, anzi, restano generalmente esclusi da questo dibattito fatto di superficialità e generalizzazioni. È innegabile il forte cambiamento sociale in atto, così come è innegabile, complice la “crisi” economica che erode le risorse, che le tradizionali forme di servizi offerti dalle istituzioni incontrino difficoltà sempre maggiore a interfacciarsi con la società. È proprio in questo interstizio che può inserirsi il contributo specifico dell’antropologia applicata.
Talvolta l’operare di un servizio può risultare inefficace, perché costruito per una categoria di soggetti in progressiva scomparsa o perché basato su un’analisi inadeguata del problema, senza essere in grado di incidere sulla realtà. L’antropologo può essere un interlocutore capace di proporre letture alternative e utili ad una maggiore comprensione dei cambiamenti in atto. In questo modo è possibile concepire un’antropologia al servizio degli enti pubblici e privati che operano nel sociale, uno sguardo alternativo che può contribuire a ridisegnare completamente i servizi al cittadino perché meglio si adattino alle esigenze della contemporaneità. Attraverso questa concezione l’antropologo diventa una professionalità specifica che aspira a trovare un suo ruolo nell’ambito dei servizi alla persona, sulla base dell’apporto che possono fornire gli strumenti che ne contraddistinguono l’approccio. L’antropologo può avere un ruolo nella comprensione dei cambiamenti in atto, contestualizzandoli entro una cornice che tenga conto delle forze politico-sociali in gioco, e collaborare con altre figure amministrative, ma soprattutto professionali, per la riconfigurazione dell’offerta di servizi in modo più funzionale.
In Italia si sta diffondendo da diversi anni l’antropologia medica e la ricerca antropologica all’interno di alcuni servizi sociali; crediamo che i tempi siano maturi per aprire un confronto più generale, che tenga conto anche delle esperienze in ambiti meno documentati, che possa portare a una riflessione approfondita sul tema e aprire la strada a un riconoscimento dell’utilità dell’approccio antropologico nell’ambito dell’offerta di servizi. Che tipo di contributo può portare la riflessione antropologica nell’ambito dell’offerta dei servizi sociali? In che campi l’antropologo può intervenire e in che modo? Quali sono gli interlocutori adeguati (associazioni, cooperative e società di servizi, operatori del sociale, educatori)? Quali sono le criticità riscontrate nei casi di collaborazione e quali le possibili proposte di intervento? Quali i casi virtuosi di collaborazione e quando, invece, gli ostacoli si sono rivelati insormontabili?
Saranno privilegiati casi studio che affrontano criticamente queste domande e che oltre a rilevare i problemi si spingano alla formulazione di ipotesi risolutive e possibilità di intervento.
Coordinatori: Alessandro Simonicca, Roberta Bonetti (alessandro.simonicca@uniroma1.it; roberta.bonetti1@gmail.com)
Titolo Sessione Processi di Patrimonializzazione
Il processo di “patrimonializzazione” si caratterizza per un una molteplicità di ambiti di applicazione: conoscitivi e legati alla dimensione culturale e interculturale in generale, nonché educativi e giuridici, e correlati alla dimensione pratica, dalle dinamiche dell’azione economica, alle politiche territoriali o alla gestione delle risorse.
Rispetto alla generica nozione di “patrimonio”, spesso confusa con la “cultura” tout court, il concetto di “patrimonializzazione” offre la prospettiva di cogliere e indagare “patrimoni plurimi”, al di là delle gerarchie, delle dicotomie e delle visioni universalizzanti di esso. Esso offre la prospettiva di indagare i patrimoni nei vari momenti della loro selezione, salvaguardia, conservazione e messa in forma valorizzativa e fruitiva e, in particolare, nelle diverse forme interpretative e partecipative che da sempre li caratterizzano.
L’interesse antropologico verso tali processi è molteplice: innanzi tutto ricostruisce il modo in cui gli agenti di un territorio comprendono e danno senso al proprio patrimonio; induce a analizzare, con un atteggiamento riflessivo, le varie strategie (politiche, sociali, economiche e identificative) usate per dare nuovo “valore culturale” allo stock disponibile di risorse locali; obbliga, infine, a procedere alla visione concreta della genesi dei conflitti che l’insieme dei processi in atto portano con sé, ponendo l’antropologo come figura sociale peculiare, capace di mediare conoscenze con azione efficacemente trasformativa.
La call for papers è aperta alla presentazione di interventi sui processi di patrimonializzazione di ampio spettro, dalle politiche sociali, economiche, e culturali in generale, dai musei ai processi in atto in situazioni di conflitto o di emergenza ambientale, ai processi di urbanizzazione e di promozione e sviluppo turistico.
Coordinatore Mauro Van Aken (mauro.vanaken@unimib.it)
Titolo della sessione: Culture e gestione delle risorse comuni
La gestione delle risorse naturali oltre ad essere stato un campo “tradizionale” dell’antropologia applicata, è oggi al centro delle politiche di sviluppo, con particolare attenzione all’acqua e alla terra. Nel contesto contemporaneo si è intensificata la richiesta del sapere antropologico e della ricerca etnografica per molteplici dinamiche: l’accentuarsi delle forme d’ineguaglianza e di esclusione globale e locale di molte popolazioni all’accesso alle risorse (processi di “land grab” e “water grab”, ad esempio), l’intensa competizione attorno alle risorse comuni, il crescente processo di mercificazione e di finanziarizzazione delle risorse, l’espandersi dell’agrobusiness e del degrado ambientale, le questioni della sicurezza alimentare, dell’accesso al cibo e le dinamiche di cambiamento climatico (e la sua rimozione sociale).
Lo stesso policy making dello sviluppo include sempre di più nelle proprie forme discorsive o tecniche di intervento, in molteplici forme e logiche, i “saperi locali”, i “sistemi di cooperazione”, in breve “la partecipazione” della “comunità” locale, con dinamiche contraddittorie, tra apertura di spazi di manovra nelle forme di cambiamento e la perpetuazioni di modelli gerarchici e depoliticizzanti.
A cavallo tra antropologia dello sviluppo e antropologia dell’ambiente, il panel è aperto alle ricerche che reimmettono al centro le dinamiche, teoriche e assieme applicate, attorno alle risorse e ai loro sistemi di gestione: terra e acqua innanzitutto, ma anche semenze, foreste, pesca, pastorizia, risorse minerarie (la crescente centralità dei ‘minerali rari’) e la produzione di cibo (piccola orticoltura, orti sociali, ad esempio) e le sue filiere innovative (Gas e Des, ad esempio).
Molteplici sono le tematiche connesse alle risorse comuni, “a casa nostra” quanto altrove: lo studio dei sistemi produttivi rurali o peri-urbani, le agri/culture, le forme di cooperazione e i sistemi di lavoro, i saperi locali e i savoir faire, la relazione tra saperi esperti dello sviluppo e saperi tecnici locali, le reti socio-tecniche (ad esempio, nei contesti irrigui), le forme di pluralismo giuridico, le connessioni tra pratiche simboliche, rituali e i processi economici, le agri/culture e le pratiche ambientali, i movimenti sociali connessi alla ricerca di autonomia o alla difesa dalle crescenti dipendenze nell’accesso alle risorse.
Il panel focalizza quindi sulle risorse comuni, compresa la ridefinizione contemporanea di “common” (chi è la “comunità” oggi? Cosa significano terra e acqua, ad esempio, negli attuali contesti di produzione e nella diversità dei contesti ambientali e culturali?) nelle dinamiche di cambiamento pianificato: attorno alle risorse è presente un’arena politica costituita da molteplicità e asimmetria degli attori dello sviluppo, locali e globali, e un’intensa interfaccia tra molteplici interessi, strategie e saperi dove forte è l’incontro/scontro anche tra diverse idee di ambiente e di “natura”.
L’analisi dei contesti applicati richiede perciò una problematizzazione della dicotomia epistemologica di cultura/natura, per reimmette lo studio dell’ambiente al centro dell’analisi delle diversità culturali e delle modalità culturali di interrelazione alle risorse. Ciò in relazione ad altri saperi disciplinari con cui sempre più l’antropologo/a collabora in contesti applicati (ecologia politica, storia ambientale, geografia, ma anche economisti, idrologi..) nel leggere dinamiche della complessità.
All’interno di questa cornice, si invitano gli iscritti a proporre analisi etnografiche attorno alle risorse, con attenzione ai ruoli, alle problematiche e alle potenzialità dell’applicazione dei saperi antropologici nella cooperazione allo sviluppo, nello sviluppo locale in Italia, nell’aiuto umanitario, nel policy making, nei contesti istituzionali o nella protezione ambientale.