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Stefano Besoli

Full Professor

Department of Philosophy

Academic discipline: M-FIL/01 Theoretical Philosophy

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Argomenti trattati nella quinta settimana del corso di Filosofia teoretica (2-4 marzo)

1) Su queste basi credo s’imponga una riflessione, o forse solo un parallelo, tra la filosofia di Locke e quella di Kant, poiché da questo tipo di confronto potremmo trarre una valutazione più stabile circa l’impostazione della problematica empiristica. Innanzitutto occorre dire che il Saggio e la Critica della ragion pura sono entrambe espressioni di una posizione di pensiero complessa (e dunque in qualche misura anche instabile), che non si lascia risolvere nell’enunciazione di poche proposizioni. Entrambi questi lavori contengono la registrazione di un percorso intellettuale, piuttosto che il prodotto finito di un corso coerente di riflessione. Ed entrambe le opere presentano una serie di incoerenze, dovute al fatto di superare – in corso d’opera – certe assunzioni iniziali, senza tuttavia averle mai esplicitamente abbandonate. Questo tipo di somiglianze non sono peraltro da considerarsi accidentali, bensì sono dovute al fatto che sia Locke che Kant cercano di avvicinare la filosofia da un punto di vista nuovo, senza riuscire peraltro a coglierne il significato o le implicazioni fino in fondo. In particolare, tanto Locke come Kant cercano di applicare alla nostra conoscenza e all’esperienza il principio di una critica immanente (ovvero la problematica dei limiti della conoscenza), dato che entrambi ritengono che in tale posizione vi sia l’unica salvaguardia nei confronti del dogmatismo e dello scetticismo. Ed entrambi proclamano che tale esame delle condizioni della conoscenza debba essere intrapreso a partire da un’indagine della realtà.

Sulla base di questo comune esame, Locke e Kant finiscono per commettere due errori complementari, ma egualmente fatali. Da un lato danno per scontato una concezione dogmatica della realtà; dall’altro separano la conoscenza dall’apprensione della realtà, dalla quale essa assume linfa vitale. Ne consegue che entrambi finiscono per essere in qualche modo ossessionati da una realtà che è, nella sua natura intrinseca, inconoscibile. Da un lato abbiamo infatti la dottrina kantiana della cosa in sé, dall’altra la concezione lockeana che – sebbene prenda le mosse dall’assunzione secondo cui la realtà, in quanto estranea e indipendente dalla mente che conosce, può essere in definitiva caratterizzata dalle qualità primarie – giunge a sostenere una posizione che prefigura quella di Kant. Per Locke, infatti, dietro ad ogni oggetto percettibile esiste un’essenza reale sconosciuta, da cui peraltro dipendono tutte le qualità che percepiamo di quella cosa. Ed è proprio questo substratum inconoscibile a rappresentare – come sarà poi anche per la cosa in sé kantiana – il vuoto riferimento a una realtà concepita come qualcosa di disparato dalla nostra conoscenza (e dunque di non confrontabile con essa). Ma il mero riferimento a questa sorta di X sconosciuta (d’incognita) non poteva certo soddisfare i requisiti di conoscenza avanzati tanto da Locke come da Kant – il che si traduce nel riconoscimento di un secondo genere di realtà che attiene all’oggetto di conoscenza. In Kant ciò si traduce nella sua teoria riguardante la realtà dell’oggetto fenomenico, in cui confluiscono componenti derivate dall’esperienza tout court e l’opera determinante delle categorie (o forme) dell’intelletto; in Locke ciò si traduce nel conflitto tra il fatto che – per quanto la nostra conoscenza concerna le idee e non possa di conseguenza penetrare nell’essenza delle cose – tuttavia nella misura in cui le idee che essa implica sono ricevute dall’esperienza, le idee e la conoscenza di cui entrano a far parte devono essere comunque dichiarate reali. E questo secondo genere di realtà è concepito – sia nel caso di Locke sia in quello di Kant – in dipendenza diretta dal funzionamento della mente. Per quanto né i fenomeni di Kant né le idee di Locke siano designati come degli stati soggettivi, entrambi non hanno alcun’esistenza al di fuori della funzione mentale in cui sono appresi. Per Kant è infatti l’attività sintetica del soggetto a costituire i fenomeni, mentre come si è detto le idee lockeane cessano di essere qualcosa quando non abbiamo percezione (o consapevolezza) di esse. Come si può comprendere, una realtà che esiste solo nell’atto da cui è conosciuta non può soddisfare quelle condizioni di conoscenza riferite a una realtà che è, per così dire, al di fuori delle sue possibilità (ovvero fuori portata). E da qui nascono tutta una serie di problemi e di difficoltà.
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Su queste basi credo s’imponga una riflessione, o forse solo un parallelo, tra la filosofia di Locke e quella di Kant, poiché da questo tipo di confronto potremmo trarre una valutazione più stabile circa l’impostazione della problematica empiristica. Innanzitutto occorre dire che il Saggio e la Critica della ragion pura sono entrambe espressioni di una posizione di pensiero complessa (e dunque in qualche misura anche instabile), che non si lascia risolvere nell’enunciazione di poche proposizioni. Entrambi questi lavori contengono la registrazione di un percorso intellettuale, piuttosto che il prodotto finito di un corso coerente di riflessione. Ed entrambe le opere presentano una serie di incoerenze, dovute al fatto di superare – in corso d’opera – certe assunzioni iniziali, senza tuttavia averle mai esplicitamente abbandonate. Questo tipo di somiglianze non sono peraltro da considerarsi accidentali, bensì sono dovute al fatto che sia Locke che Kant cercano di avvicinare la filosofia da un punto di vista nuovo, senza riuscire peraltro a coglierne il significato o le implicazioni fino in fondo. In particolare, tanto Locke come Kant cercano di applicare alla nostra conoscenza e all’esperienza il principio di una critica immanente (ovvero la problematica dei limiti della conoscenza), dato che entrambi ritengono che in tale posizione vi sia l’unica salvaguardia nei confronti del dogmatismo e dello scetticismo. Ed entrambi proclamano che tale esame delle condizioni della conoscenza debba essere intrapreso a partire da un’indagine della realtà.

Sulla base di questo comune esame, Locke e Kant finiscono per commettere due errori complementari, ma egualmente fatali. Da un lato danno per scontato una concezione dogmatica della realtà; dall’altro separano la conoscenza dall’apprensione della realtà, dalla quale essa assume linfa vitale. Ne consegue che entrambi finiscono per essere in qualche modo ossessionati da una realtà che è, nella sua natura intrinseca, inconoscibile. Da un lato abbiamo infatti la dottrina kantiana della cosa in sé, dall’altra la concezione lockeana che – sebbene prenda le mosse dall’assunzione secondo cui la realtà, in quanto estranea e indipendente dalla mente che conosce, può essere in definitiva caratterizzata dalle qualità primarie – giunge a sostenere una posizione che prefigura quella di Kant. Per Locke, infatti, dietro ad ogni oggetto percettibile esiste un’essenza reale sconosciuta, da cui peraltro dipendono tutte le qualità che percepiamo di quella cosa. Ed è proprio questo substratum inconoscibile a rappresentare – come sarà poi anche per la cosa in sé kantiana – il vuoto riferimento a una realtà concepita come qualcosa di disparato dalla nostra conoscenza (e dunque di non confrontabile con essa). Ma il mero riferimento a questa sorta di X sconosciuta (d’incognita) non poteva certo soddisfare i requisiti di conoscenza avanzati tanto da Locke come da Kant – il che si traduce nel riconoscimento di un secondo genere di realtà che attiene all’oggetto di conoscenza.

In Kant ciò si traduce nella teoria riguardante la realtà dell’oggetto fenomenico, in cui confluiscono componenti derivate dall’esperienza tout court e l’opera determinante delle categorie (o forme pure) dell’intelletto; in Locke ciò si traduce nel conflitto tra il fatto che – per quanto la nostra conoscenza concerna le idee e non possa di conseguenza penetrare nell’essenza delle cose – tuttavia nella misura in cui le idee che essa implica sono ricevute dall’esperienza, le idee e la conoscenza di cui entrano a far parte devono essere comunque dichiarate reali. E questo secondo genere di realtà è concepito – sia nel caso di Locke sia in quello di Kant – in dipendenza diretta dal funzionamento della mente. Per quanto né i fenomeni di Kant né le idee di Locke siano designati come degli stati soggettivi, entrambi non hanno esistenza al di fuori della funzione mentale in cui sono appresi. Per Kant è infatti l’attività sintetica del soggetto a costituire i fenomeni, mentre come si è detto le idee lockeane cessano di essere qualcosa quando non abbiamo percezione (o consapevolezza) di esse. Come si può comprendere, una realtà che esiste solo nell’atto da cui è conosciuta non può soddisfare quelle condizioni di conoscenza riferite a una realtà che è, per così dire, al di fuori delle sue possibilità (ovvero fuori portata). E da qui nascono tutta una serie di problemi e di difficoltà.
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) In opposizione al razionalismo dogmatico Locke e Kant ritengono entrambi che in ogni tipo di conoscenza – sia essa razionale o contingente – sia implicato un riferimento essenziale all’esperienza, sebbene la forma che tali riferimento assume sia assai differente nei due casi. Per Locke, tutta la nostra conoscenza dipende dalle idee, il cui contenuto proviene originariamente dall’esperienza. Kant, dall’altro lato, distinguendo in ogni conoscenza un fattore empirico e un fattore puro, nega che questo possa avere, in un qualsiasi senso, un’origine esperienziale. Il riferimento all’esperienza dipende dunque per Kant dalla necessità di supplementare questa funzione pura e meramente formale con un contenuto materiale. E questo lo porta a restringere la conoscenza agli «oggetti dell’esperienza possibile», ovvero a quei fenomeni condizionati da relazioni spazio-temporali – concezione di cui non si trova viceversa traccia nel Saggio lockeano. Ma c’è un altro aspetto importante che unisce in qualche modo Locke e Kant – ed è precisamente un tema centrale della loro teoria della conoscenza: vale a dire la possibilità della conoscenza di essere a un tempo sintetica e necessaria. Per Locke, una conoscenza di tal genere consiste nella percezione delle relazioni che intercorrono tra i contenuti delle nostre delle nostre idee generali astratte.
Circa la natura dei giudizi universali e sintetici, il merito della proposta lockeana è, al riguardo, quello di cercare di spiegare la conoscenza necessaria, facendo esclusivo riferimento alla natura di ciò che è conosciuto. Vale a dire, essa ignora del tutto la concezione prevalente secondo cui l’universalità e la necessità della conoscenza scientifica dovevano essere attribuiti a qualche misterioso potere nella costituzione della mente – una concezione alla quale anche Kant si attiene, essendone stato largamente influenzato. Insistendo invece nel voler far derivare tutte le idee – comprese quelle implicate in tale forma della conoscenza – dai dati della sensazione e della riflessione, Locke sostiene quanto meno di principio la continuità tra l’esperienza percettiva e i prodotti del pensiero concettuale – cosa che veniva invece esplicitamente negata sul versante razionalistico e sarà negata da Kant stesso.
In linea con i presupposti della sua teoria della composizione – da lui mai formalmente ritrattata – le componenti ultime della nostra conoscenza vengono rappresentate – in quanto prodotte dall’esperienza – come delle unità molteplici, ciascuna delle quali è semplice e completa in se stessa. Ma a meno che l’universale non sia già in qualche modo presente nella forma più elementare dell’esperienza cognitiva, esso non potrebbe mai essere ricavato da tale esperienza per mezzo di qualsiasi processo di astrazione o considerazione parziale. E a meno che l’idea cosiddetta semplice non sia fin dall’inizio implicitamente appresa come appartenente a un intero più ampio, nessuna manipolazione della mente potrebbe scoprire una connessione tra essa e qualsiasi altra idea. Malgrado la sua dottrina composizionalistica, Locke è costretto ad ammettere in vari modi che l’universale è qualcosa di più di un’arbitraria finzione del nostro pensiero. E le incoerenze che ne risultano possono solo essere rimosse attraverso una revisione radicale della sua posizione originaria. Innanzitutto, dev’essere riconosciuto che la funzione mentale – da cui dipende soggettivamente la possibilità stessa della conoscenza razionale – non consiste nell’astrarre dall’esperienza o nell’aggiungervi un universale che essa non contiene, ma nel sollevare l’esperienza a un livello più alto, attraverso l’esplicito riconoscimento di un universale che era già presente in essa, sebbene non appreso come tale. Dalla reintegrazione dell’universale come componente attuale dell’esperienza, non vi è dubbio che consegua inevitabilmente una certa modificazione del metodo lockeano.
Kant, a sua volta, malgrado il fatto di aver dimostrato l’implicazione dell’universale nei fatti più semplici dell’esperienza oggettiva, non riesce a dare un resoconto soddisfacente della relazione che intercorre tra il cosiddetto universale e l’immediatezza (e particolarità) che un’esperienza siffatta comporta. Kant sembra in realtà accettare un certo atomistmo sensistico à la Hume – ovvero l’estremo e unilaterale sviluppo che sta alla base dell’applicazione alla mente della teoria composizionalistica – non tanto però come un vero resoconto delle componenti ultime della nostra conoscenza, quanto come un’adeguata rappresentazione del materiale in cui dev’essere realizzata la forma o (struttura universale) dell’esperienza stessa. Forma e materia, universale e particolare, si trovano così ad essere qualcosa di interamente disparato, sebbene si parli di entrambi come di momenti essenziali per la conoscenza. Il problema è quello di chiedersi come possa sorgere la conoscenza dall’unione tra una materia e una forma che non hanno un’intrinseca connessione tra loro. Per Kant non resterebbe dunque che accettare la suggestione secondo cui la forma (o aspetto universale della conoscenza) si deve in qualche modo alla mente (alla sua stessa conformazione), mentre il suo particolare contenuto materiale viene fornito da un’affezione che la mente subisce da una realtà esterna indipendente – ma ciò significa anche convertire la filosofia critica in una nuova forma di dogmatismo. È evidente cioè che Kant, malgrado la sua dimostrazione del modo in cui l’universale è implicato nell’oggetto della conoscenza, non è capace – al pari di Locke – di dare un resoconto soddisfacente della relazione che intercorre tra aspetto universale e aspetto particolare dell’esperienza. Il modo in cui la mente impone un universale su una molteplicità di dati provenienti dalla sensazione è altrettanto improponibile, come concezione, di quella riguardante la formazione dell’universale attraverso un’aggiunta fatta dalla mente a un contenuto esperienziale in cui tale universale non sembrerebbe però essere coinvolto. Entrambe le concezioni si basano sull’iniziale negazione riguardante la presenza (anche solo implicita) dell’universale nel contenuto della nostra esperienza immediata – negazione che comporta conseguenze esiziali e che condiziona il metodo sia di Locke sia di Kant, seppure in modi differenti e per certi aspetti opposti. Da un lato Locke, assumendo come dati ultimi della conoscenza l’esistenza di un certo numero di idee semplici (separate o quanto meno separabili tra loro), tende inevitabilmente a enfatizzare l’aspetto fattuale della conoscenza a scapito dell’aspetto logico. Dall’altro lato Kant, avendo colto una volta per tutte l’essenziale implicazione degli universali (del pensiero, di provenienza intellettuale) nei fatti più semplici dell’esperienza, ma ritenendo che essi non siano in alcun modo presenti nel contenuto sensibile, si consegna a una logica del tutto incapace di entrare in contatto con l’esperienza immediata. Ciò in cui anche Locke dunque fallisce, è nel dare una rigorosa dimostrazione del fatto che tali relazioni logicamente necessarie non siano altro che l’espressione, nel pensiero concettuale, di caratteristiche già essenzialmente implicate nella stessa esperienza immediata. Da tale fallimento consegue che la necessità di pensiero ha per Locke, da ultimo, l’apparenza di una mera aggiunta all’esistenza fattuale.
Il rimprovero di Kant ha buon gioco rispetto a un empirismo che considera l’esperienza alla stregua di una mera composizione di idee semplici, ma non avrebbe avuto alcuna forza nei confronti di un genere di empirismo che non avesse commesso questo errore. Inoltre, una volta che si ammetta una sorta di continuità tra esperienza concettuale ed esperienza fatta attraverso i sensi, è chiaro che mentre è importante distinguere le questioni riguardanti la validità da quelle meramente genetiche, diventa tuttavia pressoché impossibile tenerle del tutto separate.
L’impianto della dottrina della conoscenza kantiana è completamente dominato dall’antitesi tra un universale astratto – inteso come oggetto o prodotto del pensiero concettuale – e una mera molteplicità di impressioni sensoriali: estremi tra i quali è possibile – data la loro divaricazione – solo un’unione per così dire esterna e artificiale. E a Kant non resta infatti che servirsi dello spazio e del tempo – intese come pure forme della sensibilità – per operare un tentativo di mediazione che sconta peraltro un ovvia circolarità. Viceversa, nella teoria della conoscenza lockeana – per certi aspetti molto più ingenua – non c’è bisogno di presupporre un tertium che medi tra sensazione e pensiero, dato che tali funzioni non sono state contrapposte tra loro in maniera assoluta.
Un’effettiva risposta al problema sollevato da Hume non avrebbe dunque dovuto avere inizio – come Kant invece fece – dall’accettare la riduzione humeana dell’esperienza sensibile a una massa di impressioni separate (a un fascio di percezioni), bensì esibendo la correlazione essenziale che vi è ovunque, tra esperienza immediata e pensiero, nella nostra coscienza cognitiva. Si può dire quindi che Kant sarebbe dovuto tornare a Locke, ma a un Locke pienamente consapevole delle proprie assunzioni. In conclusione si può dire che Kant realizza un deciso progresso nell’evidenziare il coinvolgimento, in ogni conoscenza, di determinazioni universali del pensiero, ma trova un ostacolo pressoché insormontabile nella sua adozione di una forma estrema di atomismo sensistico, nient’affatto presente in Locke. Ciò che occorreva infatti per emendare il pensiero di Locke, non era tanto il fatto di insistere sul carattere indispensabile dell’universale ai fini della conoscenza, quanto un pieno riconoscimento della sua “segreta” presenza nel contenuto dell’esperienza immediata. Con tale riconoscimento si dissolverebbe infatti la concezione che i fattori essenziali della conoscenza abbiano la loro fonte (origine) esclusiva nella mente, in antitesi all’esperienza e alla natura della realtà. Antitesi da cui scaturisce tra l’altro una dottrina circa la soggettività (e quindi la possibile relatività) delle forme della conoscenza, a cui Kant non riuscì mai a sottrarsi del tutto. E gli stessi principi della nostra determinazione concettuale degli oggetti non apparirebbero più come una struttura (o un’impalcatura) estrinseca, non generata dall’esperienza, e incapace perciò di adattarsi a ulteriori esperienze e alla riflessione che ne consegue. Infine, il nostro metodo filosofico – senza sacrificare il suo carattere logico – nella misura in cui rende appunto implicati gli universali nella nostra conoscenza, resterebbe comunque in stretto contatto con l’esperienza – cosa che anche Locke desiderava massimamente.
4) Avendo ultimato la sua rassegna (il suo sguardo sinottico) sulle nostre idee, nonché discusso della loro espressione mediante parole e degli equivoci a cui tale funzione spesso dà luogo, Locke ritiene di essere nella migliore posizione possibile per affrontare la questione circa la natura e la possibile estensione della conoscenza, di cui le idee non sono altro che materiali o strumenti. Il tentativo di dimostrare che la conoscenza ha un riscontro oggettivo – tentativo che viene operato in occasioni diverse sia nel secondo che nel terzo libro – trova peraltro la sua sistemazione proprio all’inizio del quarto libro, dove il problema posto è il seguente: che valore ha la nostra conoscenza, visto che essa si svolge tutta all’interno delle idee del soggetto, e visto che la stessa articolazione di tali idee in una forma di sapere dipende, in qualche modo, da iniziative dell’intelletto stesso (cfr. p. 607). La definizione della conoscenza che Locke ci fornisce subito in apertura di questo quarto libro, e cioè che si tratta «della percezione della connessione e dell’accordo, o del disaccordo e del contrasto, fra le nostre idee» (ibid.), non fa che riaprire il problema, ma non sembra proporre alcun aggancio con la sfera della realtà oggettiva. Di qui il tentativo di ricostruire un rapporto con l’oggetto attraverso l’esame problematico dei vari aspetti della conoscenza e di tutti i possibili rapporti con il regno dell’oggettivo, ma anche dei suoi limiti. La consapevolezza dei limiti permette se non altro di rafforzare la nostra convinzione che la conoscenza abbia un aggancio oggettivo (faccia presa cioè presa sulla realtà), per quanto circoscritto: essa non potrà cioè estendersi al di là di certi limiti, ma al loro interno qualcosa di oggettivo vi sarà.
In primo luogo Locke si occupa di identificare la conoscenza con la certezza obiettiva, tracciando una netta linea di demarcazione nei confronti della conoscenza di natura probabilistica e congetturale, di cui invece si occupa a fondo nella seconda parte del quarto libro. A tal riguardo, va sottolineato però che la ragione interviene anche nel campo del probabile e del verosimile: essa ha cioè la possibilità di esercitarsi anche in questi ambiti. E questo è un punto di grande rilievo: se si riflette infatti sulla posizione cartesiana che escludeva il verosimile dalla conoscenza, equiparandolo addirittura al falso, o se si pensa all’aspra lotta condotta da Hobbes contro la retorica, che è l’ambito della discussione probabile per eccellenza, ci si rende conto del salto qualitativo che viene a operarsi nella seconda metà del Seicento su questi problemi. La conoscenza probabile o verosimile viene fatta rientrare nel quadro della conoscenza razionale. Il verosimile non contamina l’ambito del razionale, bensì è il razionale che investe l’ambito del verosimile. Oltre a una rivalutazione della conoscenza scientifica della natura, ciò porta anche a prospettare i rudimenti di una metodologia critica da applicare a un contesto di sapere che era stato sempre trattato con molta prudenza: e precisamente quello riguardante una metodologia della critica biblica. La Bibbia era sempre stata studiata in modo diverso da qualsiasi altro libro antico, ed è proprio con alcuni esponenti del razionalismo seicentesco (Hobbes e Spinoza), ma anche con Locke, che si pongono le basi per un’analisi della Bibbia secondo una metodologia critica di stampo filosofico. L’ultima parte del quarto libro è proprio dedicata al rapporto tra filologia critica e Bibbia, riguardando il rapporto tra ragione e rivelazione, tra ragione e fede. E anche in questo caso l’impostazione “razionalistica” di Locke non viene meno, potenziando anzi la capacità di autodeterminazione della ragione nei confronti della rivelazione.
5) Tornando alla definizione lockeana di conoscenza, l’abilità a percepire l’accordo o il disaccordo tra le nostre idee viene considerata da Locke come una capacità fondamentale della nostra natura intellettuale, che – insieme ai nostri poteri di percepire le idee stesse nello spirito e di comprendere il significato dei segni – costituisce quel potere della percezione che egli chiama intelletto. Ed è precisamente in questa forma di percezione che Locke trova la certezza costitutiva della conoscenza. «Dove c’è percezione, c’è conoscenza e dove non c’è siamo sempre privi di conoscenza, per quanto possiamo fantasticare, tirare a indovinare o credere» (p. 607). L’accordo o disaccordo tra l’idea è in alcuni casi percepito con immediatezza dall’intelletto, non appena si considerano le idee in questione; in altri casi, invece, tale condizione (di accordo o meno) si manifesta in maniera solo mediata, attraverso l’ausilio di altre idee. Nel primo caso abbiamo la conoscenza intuitiva, che è del tutto evidente; nel secondo, si ha la conoscenza dimostrativa, la cui evidenza dipende da prove e dall’intervento di altre idee, le quali rivelano un accordo o un disaccordo che non può essere direttamente percepito. 
6) Nel primo capitolo del quarto libro del Saggio, Locke – nel definire la percezione come una conoscenza consapevole – afferma che i collegamenti in cui si può percepire l’accordo o il disaccordo tra idee avvengono in base a relazioni schematizzabili in quattro tipi (identità o diversità; relazione; coesistenza o connessione necessaria; esistenza reale: cfr. a p. 609 § 7 gli esempi di tali relazioni). Il terzo tipo di rapporto parla di coesistenza o connessione necessaria. Con riferimento privilegiato alle sostanze, s’individuano da un lato le essenze nominali e dall’altro le essenze reali: cioè, da un lato i raggruppamenti d’idee che si rotrovano costantemente coesistenti nell’esperienza e che danno poi luogo – attraverso l’elaborazione dell’intelletto – alle essenze nominali, mentre la connessione necessaria – ovvero la necessità della connessione – implica qualcosa di più, vale a dire un fondamento che può essere dato solo dall’essenza reale. Quando parliamo di sostanza, parliamo di coesistenza o di connessione necessaria a seconda che facciamo riferimento all’essenza nominale o all’essenza reale della sostanza. Ora, è proprio su questa possibilità di avere una certezza maggiore o minore della conoscenza delle coesistenze che si fonda la critica lockiana della fisica.

Nel secondo capitolo, che riguarda i gradi della conoscenza, Locke dà la mssima importanza al procedimento conoscitivo dell’intuizione. L’intuizione è la percezione immediata del rapporto tra due idee, che può essere un rapporto di concordanza o di concordanza. Ciò che fa dell’intuizione il grado di conoscenza più certo è il fatto che in essa tale rapporto viene colto (percepito) con immediatezza. Qui si è voluto vedere un’influenza cartesiana, che indubbiamente esiste, anche se Locke – nel parlare di rapporto – fa riferimento a idee costruite e non a idee innate. Per Locke, i gradi della conoscenza sono comunque tre: intuizione, conoscenza dimostrativa e sensibilità. Con l’intuizione, Locke si richiama a una tradizione antichissima e consolidata. La conoscenza dimostrativa o razionale è invece una conoscenza mediata che si avvale di una serie d’intuizioni (in sé immediate), che fungono da idee intermedie o prove. La minore certezza della conoscenza dimostrativa deriva dal fatto che, laddove esiste un certo numero di mediazioni, esiste anche la possibilità dell’errore, ovvero che uno degli anelli della catena comporti l’errore di tutta la catena (e cioè dell’esito dimostrativo). Come sottolineato da Cartesio, i rimedi al riguardo consisterebbero nel controllo continuo delle catene deduttive.

Nel § 9 (p. 617) si dice che “la dimostrazione non è limitata alle idee della quantità matematica”. Qui inizia u primo attacco alla scientificità della fisica, allorché si nota la difficoltà ad applicare in maniera adeguata la dimostrazione alle qualità secondarie, che sono perciò difficili da quantificare. Non c’è l’unità di misura del rosso per poter iterare quest’idea, e inoltre la sensazione di rosso varia a seconda delle persone. Tutto ciò viene sviluppato nel § 11. Qui, ad es., Locke fornisce un’interpretazione corpularistica della luce analoga all’interpretazione data da Newton (già anticipata in qualche modo da Cartesio), in contrasto con la concezione ondulatoria di Huygens. Locke mostra di aderire quindi all’interpretazione corpuscolare della luce, anche se – in coerenza con tutto l’impianto del Saggio e col programma annunciato fin dall’introduzione – egli sostiene di non volersi occupare del problema di ciò che sta al di là delle sensazioni. Lasciando impregiudicato se esistano veramente i globuli contemplati dall’ipotesi. In ogni caso, il fatto che le qualità secondarie non possano essere scoperte dalla dimostrazione porta poi a sostenere la non scientificità della fisica, il carattere non apodittico della scienza della natura. Il terzo grado della conoscenza è costituito dalla conoscenza sensibile, di fatto estremamente limitata all’attualità, alla presenza dell’oggetto esterno. E tuttavia, essa ci dà qualcosa che nessun’altra conoscenza può darci: l’esistenza esterna. La sensazione ci dà, nel momento in cui si esercita (ovvero quando si ha conoscenza sensibile e non di tipo memorativo), l’esistenza esterna delle cose. Basti pensare alla differenza che sussiste tra il pensiero del fuoco e il fuoco toccato con un dito. In quest’ultimo caso, l’impressione causata dal fatto di toccare il fuoco col dito ci dà tutto ciò che si deve richiedere alla nostra conoscenza per essere certi di una presenza esterna. In questo caso, siamo “forniti di un’evidenza che ci pone al di là del dubbio” (p. 619 sg.). Certo, lo scettico potrebbe dire che è tutto un sogno, ma Locke pensa che al riguardo la differenza sia chiarissima, per cui alle prime due specie di conoscenza si può aggiungere anche questa, “ottenuta mediante la percezione e la coscienza dell’attuale ingresso in noi delle idee che vengono” dagli oggetti esterni (p. 620).
7) Il terzo capitolo, che riguarda l’estensione della conoscenza, è uno dei più ampi tra quelli che trattano di tali problemi. Qui vengono in luce i nodi riguardanti la scarsa scientificità della fisica e, per converso, la possibilità di costituire la morale come scienza deduttiva. Già nel primo paragrafo ci si rende conto della natura del problema a cui Locke pensa: dalla definizione stessa della conoscenza discende che “non possiamo avere una conoscenza che vada al di là delle idee che abbiamo” (p. 622). Questo problema investe per ora solo l’aspetto dei limiti della nostra conoscenza, per cui bisognerà verificare se tale conoscenza si estenda se non altro ai confini delle nostre idee, ovvero se si possa parlare di una conoscenza con riferimento a tutte le nostre idee e ai loro rapporti. Nel capitolo quarto, si affronterà invece il problema della realtà, ovvero del riscontro reale. Il risultato dell’analisi lockeana è che la conoscenza non ha la stessa estensione delle idee, nel senso che possiamo avere idee singole e irrelate tra loro, ma possiamo non avere percezione del rapporto tra queste idee. Ad es., come si dice nel terzo paragrafo (p. 622), la conoscenza intuitiva non si estende a tutte le idee, tanto è vero che si deve ricorrere alla conoscenza dimostrativa. Neppure la conoscenza dimostrativa è però coestensiva alle idee, giacché non è detto che si possa sempre trovare un termine di mediazione rea tutte le idee. Il limite della conoscenza sensibile è invece dato dalla sua attualità: infatti, nel momento stesso in cui cessa la sensazione, non si è più certi dell’esistenza esterna degli oggetti.

Il § 6 è abbastanza celebre per un elemento per certi versi accidentale, più che per ciò che intende dimostrare. Locke vuole dimostrare che la nostra conoscenza, ad es., della coesistenza di certi caratteri nelle sostanze è molto imprecisa, e fa un esempio che è diventato assai più importante di tutto il resto della trattazione. L’esempio verte sul fatto che noi non possiamo essere certi che la materia non possa anche pensare: ovvero non abbiamo la possibilità di affermare o di escludere che matreria e pensiero possano coesistere (cfr. p. 623 sg.). Inutile dire che tale affermazione comporta una posizione critica nei confronti del cartesianesimo, richiamando per certi versi l’obiezione hobbesiana alla conseguenza che Cartesio aveva tratto dal cogito.

Dal § 7 continuano le considerazioni circa i limiti della conoscenza. Nel § 8 si dice, ad es.: “la nostra conoscenza intuitiva si estende fin dove giungono le idee stesse (p. 627). Dire che un’idea è diversa da un’altra è sempre possibile, e sempre in modo immediato, attraverso l’intuizione. Il problema più complesso riguarda il rapporto di coesistenza e di connessione necessaria, oltre che l’esistenza reale della sostanza. La coesistenza non può essere dedotta a priori: questo è il principio. La coesistenza di caratteri, di qualità nelle sostanze può essere conosciuta solo attraverso l’esperienza. Dall’idea di oro non si può dedurre, ad es., la sua malleabilità. È solo dopo aver constatato determinate situazioni che si procedere a dedurre, ma solo all’interno di una struttura di tipo convenzionale. Se non si conosce l’essenza reale di una sostanza, , e quindi non si conosce la ragion d’essere della coesistenza di determinati caratteri, tali caratteri non possono essere dedotti a priori secondo l’ideale razionalistico razionale.
Sotto un certo profilo, stupisce un po’ che Locke resti legato a questo ideale di scienza come scienza deduttiva: lo stesso Locke che, nella seconda parte del IV libro, concede così largo spazio alla conoscenza probabile. Quello stesso Locke che ha dato tanto risalto alla costruzione artificialistica della scienza, e che tanto si era occupato di ricerche sperimentali, per altri versi conserva tali residui realistici e deduttivistici. Nel § 12 (p. 628) si sottolinea l’impossibilità di conoscere il rapporto tra qualità primarie e qualità secondarie, cioè il rapporto esistente tra essenza reale ed essenza nominale. Anche nel § 14 (cfr. p. 629 sg.) s’insiste sul fatto che conosciamo solo le connessioni empiricamente rilevabili, connessioni che non possono essere dedotte a priori. Ecco quindi che l’idea che abbiamo di una sostanza è sempre inadeguata. Potremo sempre scoprire, ma solo empiricamente, sem,pre nuove forme di coesistenza, non potendo mai dedurre altre qualità in base a ciò che già sappiamo. Da tutto ciò che Locke afferma in ordine all’estensione della conoscenza, e in particolare sui limiti della conoscenza riguardante le sostanze, maturano tutti i dubbi sulla consistenza scientifica della conoscenza della natura. Locke non è certo un nostalgico della vecchia teoria tradizionale della sostanza e dell’essenza della sostanza come forma sostanziale: tuttavia, Locke concepisce l’essenza reale delle sostanze in termini corpuscolari, per cui permane quantomeno l’esigenza, l’ideale insoddisfatto di rifarsi a una struttura che potrebbe spiegare la necessità della coesistenza di quei caratteri che cogliamo nell’esperienza.In conclusione, non conoscendo l’essenza reale in quanto tale, non conosciamo neppure il rapporto che sussiste tra l’essenza reale e i caratteri che facciamo entrare nell’essenza nominale. In altre parole non conosciamo il rapporto tra le qualità primarie e quelle secondarie, cioè tra i poteri di produrre in noi determinate reazioni e quelle reazioni stesse. Anche le qualità di un oggetto che sono poteri di mutare i caratteri, cioè le qualità secondarie di un altro oggetto, sono conoscibili solo per via empirica: e anche per questo la fisica non è una scienza.
8) L’affermazione della dimostrabilità in modo apodittico, cioè deduttivo, della morale, ovvero della possibiliiità che la morale si costituisca come scienza dimostrativa e deduttiva, viene avanzata nell’ambito della discussione delle relazioni, dell’estensione della conoscenza con riferimento alle relazioni. Le proposizioni morali sono sempre relazioni tra un’azione e una legge. Ma le idee di azioni sono idee di modi misti, essendo state costruite interamente da noi. Le leggi, o le abbiamo fatte noi in quanto si tratta di leggi umane, oppure le conosciamo integralmente nel loro dettato attraverso la rivelazione o attraverso la ragione naturale. Sta di fatto che noi conosciamo tutti i termini che entrano nella relazione, per cui conosciamo perfettamente le connessioni tra idee costituite dalle relazioni morali. Certo, la scienza eduttiva per eccellenza è la matematica: la matematica ha una certa superiorità sulla morale nell’ambito delle scienze deduttive, cioè delle vere scienza. Essa sembra cioè più immediatamente dimostrativa della morale. Ciò dipende da vari fattori ai quali si può anche porre rimedio. Per esempio la matematica fa riferimento a modi semplici, che sono molto meno complicati dei modi misti. Per altri versi, la matematica non è influenzata dagli interessi, mentre la morale sì, e ugualmente anche la politica, poiché tutto ciò che ha a che fare con la sfera della pratica ha a che fare con l’urgenza degli interessi, dei bisogni, della passionalità, dell’emotività in generale. Se da un lato la razionalizzazione stessa della morale come scienza porterà a un raffreddamento di questi elementi emotivi, dall’altro una maggior pacatezza potrò essere introdotta proprio attraverso l’invito alla tolleranza reciproca, a non voler insistere nel dogmatismo, nell’opposizione preconcetta, nella devozione supina alla tradizione, alla superstizione, all’educazione.

Per quanto riguarda l’esistenza reale, Locke ritiene che si abbia percezione dell’esistenza di noi stessi per intuizione, la percezione dell’esistenza di Dio per dimostrazione, mentre – per ciò che riguarda gli oggetti esterni – la percezione della loro esistenza si ha solo in presenza della sensazione. Quanto all’igniranza e a tutti i disagi, le intemperanze, l’insolubilità delle questioni e delle discussioni che essa reca con sé, Locke esamina una serie di elemeni che ne costituirebbero la causa, il primo dei quali è la mancanza di idee: non abbiamo mai un numero sufficiente di idee semplici nelle nostre idee complesse di sostanze, che per questo risultano sempre inadeguate. Un’altra causa è data dalla mancanza di connessione tra idee: ancora una volta, Locke richiama l’esempio del rapporto tra qualità primarie e secondarie. Un’altra causa ancora sta nella mancanza di applicazione da parte dell’intelletto, e cioè nella trascuratezza delle definizioni, nella scarsa verifica dei rapporti che s’istituiscono nelle dimostrazioni. I rimedi sono sempre gli stessi e si riducono a una maggior analisi delle definizioni, ma al di là di un certo limite non si può andare. E ancora una volta si ribadisce che la fisica non è una scienza, ma è una conoscenza a posteriori, sempre inadeguata, che riesce ad aggiungere sempre nuove nozioni senza mai raggiungere la completa adeguatezza.

In fondo, Locke è ancora legato a un ideale di scienza perfetta, perfettamente compiuta o, meglio, perfettamente svolgibile in quanto renda possibile dedurre tutte le conseguenze partendo da certi principi a priori. Si tratta di un ideale proprio del razionalismo tipico della prima metà dei Seicento, a sua volta debitore dell’ideale razionale della scienza. Si pensi all’ideale cartesiano: attraverso la matematizzazione della natura, cioè della fisica, condotta mediante la quantificazione integrale dei corpi e dei movimenti, si tentava di rendere la scienza fisica interamente deduttiva, così com’era deduttiva la matematica. Ma tale ideale non si è realizzato, e ciò sempre deludere Locke.

Pur essendo il più filosofo tra i filosofi sperimentali, e quindi l’interprete delle loro esigenze, del loro entusiasmo di ricerca, della loro reazione nei confronti delle impostazioni sistematiche e dogmatiche del passato, Locke lascia tuttavia trasparire la nostalgia di quell’altro ideale, la sua delusione per i limiti che si pongono alla scienza qual è. Il sapere scientifico non può essere attuato nel senso in cui i suoi predecessori pensavano si potesse attuare: non può essere cioè quella scienza a priori che è in grado di dimostrare la connessione necessaria di termini che rientrano nel suo discorso. Invece di padroneggiare questa situazione nuova, Locke pare concepire tale arretramento come qualcosa di limitante e negativo. Di qui il disperato sforzo di Locke di trovare un aggancio a questa scienza nominale, a questa scienza artificiale e soggettiva: soggettiva perché non può che far riferimento alle idee presenti nella mente, e artificiale perché non può che fare riferimento all’iniziativa del soggetto nel dare una struttura al saper, nel dare una struttura e un significato ai contenuti, ai dati.

Ecco quindi la preoccupazione massima di Locke di trovare comunque un aggancio con l’oggetto, col reale, in modo che tale scienza abbia un qualche significato, una qualche validità, con un riferimento sotterraneo al fatto che le cose – che stanno al di là delle idee – inviino materialmente al soggetto dei messaggi, delle indicazioni che sono indubbiamente mediate dalle idee, ma che il soggetto – nella sua strutturazione sistematica del sapere – non ignora e non può ignorare.

In un certo senso, c’è quindi un riferimento metafisico all’oggetto che non è mai esplicitato, perché a livello esplicito Locke dirà sempre che non ci si può rapportare alle essenze reali. Tuttavia, perché la nostra conoscenza abbia un senso, si deve cerare un qualche riscontro tra il piano delle idee e quello dell’oggettività. Ma tale rapporto è problematico, anche perché nel discorso lockeano finiscono per presentarsi tre piani, nel senso che sembra che il piano delle idee non corrisponda esattamente al piano dell’esperienza, non identificandosi cioè con l’esperienza. Di conseguenza, avremo un piano degli oggetti reali, un piano dell’esperienza e uno delle idee. Affinché si possa essere ragionevolmente certi chela nostra conoscenza è adeguata, ovvero conforme alla realtà, la nostra conoscenza deve modellarsi sulle indicazioni dell’esperienza, perché questa si modella su orientamenti che provengono dall’oggetto. La questione non è però affatto chiara, poiché la parte più ambigua del Saggio è proprio quella costituita dai capitoli in cui Locke cerca, in ogni modo, l’aggancio reale alla conoscenza. E a proposito di un aggancio realizzabile, Locke esplicita tale esigenza fortissima al termine del quarto capitolo: “E questo, comunque possa sembrare agli altri, è stato per me finora, lo confesso, una delle cose di cui sentivo il maggior bisogno” (p. 657). Questa è infatti l’esigenza principe: dopo aver dispiegato integralmente l’aspetto soggettivo e artificiali stico della conoscenza, trovarne l’aggancio reale. Diversamente, la conoscenza sarà priva di riferimento, se non appunto al soggetto. Mentre Hobbes aveva una concezione della verità scientifica puramente formale, una volta stabilito che le nostre classificazioni sono artificiali e che lo stesso rapporto tra il nome e la sua definizione è puramente artificiale, facendo riferimento a generalizzazioni che abbiamo operato in modo autonomo, Locke non sembra limitarsi a cNel capitolo IV, laddove Locke tratta della realtà della conoscenza, il problema è per così dire già ambientato: parlando di ciò, sappiamo cioè che Locke intende porre il problema di un riscontro con la realtà tout court. Fin dalle prime righe Locke osserva che il lettore sarà incline a pensare che egli abbia costruito un “castello in aria”. Una teoria gnoseologica che fa riferimento solo alla presenza e al combinarsi delle idee nella mente del soggetto può facilmente scivolare nel solipsismo, e quindi nello scetticismo, nel relativismo. Ogni uomo ha infatti le proprie idee, le combina come gli capita, come gli sembra opportuno, senza che vi sia garanzia di un rapporto tra le immaginazioni degli uomini e la realtà delle cose. Nell’ultimo capoverso di pagina 646 Locke dice infatti: “ma quale utilità questa conoscenza esatta che gli uomini hanno delle proprie immaginazioni ha per chi indaga la realtà delle cose? Non importa quali siano le fantasie umane, è la conoscenza delle cose che dev’essere apprezzata. Questa sola dà un valore ai nostri ragionamenti e fa preferire la conoscenza dell’una a quella dell’altro, cioè la conoscenza delle cose quali realmente sono ai sogni e alle fantasie”. Nel §2 Locke aggiunge però che spera “prima di finire di rendere evidente che la via della certezza che passa per la conoscenza delle nostre idee va un po’ oltre la semplice immaginazione”. Nel § 3, si riconosce l’evidenza del fatto che lo “spirito non conosce le cose immediatamente, ma solo per l’intervento delle idee che ha di esse. La nostra conoscenza perciò è reale solo in quanto c’è conformità tra le nostre idee e la realtà delle cose”.
Qui emerge, dunque, il primo elemento che funge da base per la discussione e la teoria lockeana. In pratica, realtà della conoscenza significa sua conformità alla realtà, nel senso che le idee siano conformi alle cose e che si combinino nella nostra mente conformemente al modo in cuì si combinano le cose. Realtà della conoscenza significa quindi riscontro reale, conformità del piano delle idee col piano della realtà, dell’oggettività. Nulla di più problematico, fin dalle idee semplici. In genere le idee semplici godevano di privilegi particolari nell’esame della conoscenza lockeana. Per le idee semplici non c’è, ad es., un problema di esistenza: quando abbiamo un’idea semplice dall’esperienza, non ci poniamo cioè il problema della sua esistenza. Di certo essa fa riferimento a qualcosa che esiste al di fuori di noi. Riguardo alle idee semplici non c’è problema di rapporto tra essenza reale ed essenza nominale: l’essenza reale coincide con l’essenza nominale, anche se – potremmo dire – che non si può parlare di essenza, in quanto delle idee semplici non c’è definizione. Leggendo il § 4 si potrebbe avere l’impressione che non vi sia problema nemmeno per quanto riguarda la questione della realtà delle idee semplici, giacchè lo spirito le può appunto creare da sé. L’idea semplice è qualcosa che s’impone allo spirito. Tuttavia, quando Locke aggiunge che l’idea semplice deve “necessariamente essere il prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale”, ecco che comincia a emergere il problema dell’oggetto. Locke accetta infatti senza discutere l’esistenza di oggetti fuori di noi, in una sorta di metafisica implicita: oggetti che, in forza della loro costituzione corpuscolare, influenzano i nostri organi di senso producendo le idee semplici, sotto forma di percezioni. Le idee semplici sono quindi il prodotto delle cose esterne materiali che agiscono sullo spirito in modo naturale, producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e volontà del nostro creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse.
iò. Se per Hobbes, infatti, la proposizione “l’oro è malleabile” è deducibile a priori, avendo deciso d’includere il termine malleabile nella definizione di oro, Locke – pur accettando questa definizione – aggiunge che l’affermazione secondo cui tutto l’oro è malleabile non ha un reale significato scientifico, in quanto può fare riferimento solo all’essenza nominale. Per Hobbes non sembra porsi, quindi, un problema di riscontro reale della conoscenza, mentre in Locke questa sembra essere la questione dirimente.
9) Nel capitolo IV, laddove Locke tratta della realtà della conoscenza, il problema è per così dire già ambientato: parlando di ciò, sappiamo cioè che Locke intende porre il problema di un riscontro con la realtà tout court. Fin dalle prime righe Locke osserva che il lettore sarà incline a pensare che egli abbia costruito un “castello in aria”. Una teoria gnoseologica che fa riferimento solo alla presenza e al combinarsi delle idee nella mente del soggetto può facilmente scivolare nel solipsismo, e quindi nello scetticismo, nel relativismo. Ogni uomo ha infatti le proprie idee, le combina come gli capita, come gli sembra opportuno, senza che vi sia garanzia di un rapporto tra le immaginazioni degli uomini e la realtà delle cose. Nell’ultimo capoverso di pagina 646 Locke dice infatti: “ma quale utilità questa conoscenza esatta che gli uomini hanno delle proprie immaginazioni ha per chi indaga la realtà delle cose? Non importa quali siano le fantasie umane, è la conoscenza delle cose che dev’essere apprezzata. Questa sola dà un valore ai nostri ragionamenti e fa preferire la conoscenza dell’una a quella dell’altro, cioè la conoscenza delle cose quali realmente sono ai sogni e alle fantasie”. Nel §2 Locke aggiunge però che spera “prima di finire di rendere evidente che la via della certezza che passa per la conoscenza delle nostre idee va un po’ oltre la semplice immaginazione”. Nel § 3, si riconosce l’evidenza del fatto che lo “spirito non conosce le cose immediatamente, ma solo per l’intervento delle idee che ha di esse. La nostra conoscenza perciò è reale solo in quanto c’è conformità tra le nostre idee e la realtà delle cose”.
Qui emerge, dunque, il primo elemento che funge da base per la discussione e la teoria lockeana. In pratica, realtà della conoscenza significa sua conformità alla realtà, nel senso che le idee siano conformi alle cose e che si combinino nella nostra mente conformemente al modo in cuì si combinano le cose. Realtà della conoscenza significa quindi riscontro reale, conformità del piano delle idee col piano della realtà, dell’oggettività. Nulla di più problematico, fin dalle idee semplici. In genere le idee semplici godevano di privilegi particolari nell’esame della conoscenza lockeana. Per le idee semplici non c’è, ad es., un problema di esistenza: quando abbiamo un’idea semplice dall’esperienza, non ci poniamo cioè il problema della sua esistenza. Di certo essa fa riferimento a qualcosa che esiste al di fuori di noi. Riguardo alle idee semplici non c’è problema di rapporto tra essenza reale ed essenza nominale: l’essenza reale coincide con l’essenza nominale, anche se – potremmo dire – che non si può parlare di essenza, in quanto delle idee semplici non c’è definizione. Leggendo il § 4 si potrebbe avere l’impressione che non vi sia problema nemmeno per quanto riguarda la questione della realtà delle idee semplici, giacchè lo spirito le può appunto creare da sé. L’idea semplice è qualcosa che s’impone allo spirito. Tuttavia, quando Locke aggiunge che l’idea semplice deve “necessariamente essere il prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale”, ecco che comincia a emergere il problema dell’oggetto. Locke accetta infatti senza discutere l’esistenza di oggetti fuori di noi, in una sorta di metafisica implicita: oggetti che, in forza della loro costituzione corpuscolare, influenzano i nostri organi di senso producendo le idee semplici, sotto forma di percezioni. Le idee semplici sono quindi il prodotto delle cose esterne materiali che agiscono sullo spirito in modo naturale, producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e volontà del nostro creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse.
10) Ci si potrebbe chiedere perché Locke si appelli al creatore. Seguendo la questione delle idee semplici come produzioni naturali e regolari delle cose fuori di noi, si inizia a comprendere il richiamo lockeano alla creazione divina. Il problema della realtà delle idee semplici si presenta in tutta la sua nettezza solo se si fa riferimento alla distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, ovvero alla convinzione più volte espressa da Locke secondo cui sono le qualità primarie degli oggetti a provocare nel soggetto le qualità secondarie. Le qualità primarie sono diverse da que secondarie per definizione. Le qualità primarie fanno riferimento alla dimensione dei corpuscoli, al loro movimento. Tali qualità producono nel soggetto colori, odori, sapori ecc. Che rapporto c’è tra il moto vorticoso dinun corpuscolo ad es. piramidale e la sensazione di rosso? Nessuna. Ma allora come si può parlare in questo caso di conformità? Ecco che interviene, al riguardo, l’opera del creatore, che garantisce la conformità richiesta. Non una conformità piena, quale sarebbe la conformità garantita dalle specie aristoteliche, ma un certo grado di conformità garantito dalla naturalità e regolarità del rapporto. Se non si è in grado di cogliere la natura del rapporto tra qualità primarie e secondarie, l’unico tipo di conformità a cui si può fare appello è la regolarità del rapporto stesso. Tra qualità primarie e qualità secondarie non c’è alcuna identità e tuttavia, tutte le volte che sul piano degli oggetti reali si verificano certe condizioni, e cioè hanno luogo le manifestazioni di certe qualità primarie, nel soggetto vengono suscitate certe qualità secondarie. Di conseguenza, noi possiamo solo ritenere che la conformità consista nella regolarità del rapporto tra qualità primarie che ci sono ignote e qualità secondarie che sono le uniche con le quali abbiamo a che fare. Ecco tutta la conformità a cui possiamo mirare: nondimeno, anche questa regolarità può essere garantita solo dal sommo creatore. Dio ha deciso quale grado di conformità dovesse esistere tra le qualità primarie e le qualità secondarie; ha limitato i nostri poteri conoscitivi; ha giudicato che per il nostro vivere sarebbe stato molto meglio avere una visione macroscopica della natura anziché microscopica, avere a che fare con le qualità secondarie anziché con quelle primarie: è Dio, dunque, ad aver istituito tale rapporto e a garantirne la regolarità. Dio, quindi, non solo ha determinato tale grado di conformità, ma lo ha giudicato il migliore e il più adatto alla nostra vita. La conformità tra le nostre idee semplici e l’esistenza delle cose è sufficiente per la conoscenza reale, per cui l’esito più coerente di una problematica di questo genere – nei termini in cui la pone Locke e con le soluzioni che per essa egli indica – sembrerebbe essere l’immaterialismo berkeleiano: ovvero la riduzione dell’essere delle cose alla percezione delle loro idee, e la sostituzione di queste cose reali, alle quali comunque non si può fare riferimento diretto, addirittura con Dio. Se si toglie il termine intermedio materiale, resta Dio a reggere la conoscenza del soggetto: e Berkeley compie proprio questo passo. Così, quella che può sembrare una teoria fortemente paradossale e sfondo esclusivamente apologetico. Diventa una teoria plausibile all’interno di un certo sviluppo di pensiero. Quanto invece alla matematica e alla morale, la realtà della conoscenza è garantita, perché se i modi sono gli archetipi di se stessi, essenza reale ed essenza nominale coincidono, per cui Locke è in grado di rivendicare la dimostrabilità della morale e la somiglianza esistente tra tale disciplina e la matematica (cfr. §§ 5-7). 
11) A partire dal § 11, si pone invece il problema delle sostanze, ovvero di quale dovrebbe essere la conformità dell’idea complessa di sostanza. A p. 652 si dice:. “Le nostre idee di sostanze, dovendo essere le copie di archetipi fuori di noi o riferite ad essi, devono anche essere prese da qualcosa che esiste o è esistito”. A metà pagina si prosegue così. “la realtà della nostra conoscenza delle sostanze è dunque fondata su questo, che tutte le nostre idee complesse di sostanze sono quelle e solo quelle composte di idee semplici di cui si è scoperto che coesistono in natura. Le nostre idee allora diventano copie vere, per quanto non sempre esatte e sono così i soggetti di una conoscenza reale, se mai ne abbiamo, delle sostanze”. Qui è chiaro il frapporsi di un ambito dell’esperienza in quanto distinto dall’ambito delle idee, da un lato, e distinto dall’ambito degli oggetti dall’altro. Posto che non possiamo rifarci alle essenze reali e quindi al piano dell’oggettività, sembra che si possa fare riferimento all’esperienza per decidere se certe idee sono reali o immaginarie. Lìidea di ippogrifo è immaginaria, mentre quella di cavallo è reale: in base a quale criterio? In base alla conformità con gli oggetti reali? No. In questo caso facciamo semplice riferimento alla conformità con l’esperienza. L’esperienza ci dà cavalli e non ippogrifi. Tale persuasione che le nostre idee possano essere copie vere delle sostanze fuori di noi, in realtà fa riferimento al fatto che le idee siano copie vere di ciò che si presenta nell’esperienza. In questo senso per Locke attraverso l’esperienza giungono fino al piano delle idee, fino all’intelletto, dei suggerimenti da parte del mondo oggettivo.
Locke si arrovella, dunque, di fronte alle difficoltà incontrate nel raccordare un sapere soggettivo-artificialistico con il piano della realtà. Gli elementi di carattere realistico influenzano anche la teoria lockeana della verità, che viene enunciata nei termini corretti in cui era consapevolmente enunciata all’epoca: la verità consiste “nell’unione o nella separazione di segni a seconda che le cose da essi significate concordino o discordino l’una con l’altra”. Salvo domandarsi cosa s’intenda per “cose”, perché a tutta prima quando si legge “segni”, si penserebbe che i segni siano le parole. Non si deve però dimenticare che le idee sono segni delle cose, così come le parole sono segni delle idee. E allora ci sarà una verità nel rapporto tra le parole e le idee, come anche una verità nel rapporto tra le idee e le cose. Ma quest’ultimo rapporto comporta che si scivoli di nuovo nel problema della realtà della conoscenza. In questo caso verità della conoscenza e realtà della conoscenza finiscono per corrispondere. Più in generale, l’impressione è che si possa parlare di verità, a livello di discorso parlato, e di verità a livello del discorso mentale e che la verità a livello di discorso parlato significa che in una proposizione espressa in parole, i segni sono congiunti e disgiunti in modo coerente rispetto alle idee che essi significano. C’è quindi un doppio rapporto di significazione e la correttezza va registrata ai due livelli. Locke ritiene che ossa esistere anche un discorso mentale non espresso in parole, anche se ammette che una tale condizione sia difficilissima da mantenere, giacché si scivola facilmente nell’uso delle parole anche quando si pensa. La verità reale consiste allora nel fatto che i segni siano correttamente congiunti o disgiunti in una proposizione verbale la quale, a sua volta, fa riferimento a una proposizione mentale, la quale a sua volta fa riferimento a un’unione o disgiunzione delle cose. Ma che sono tali cose? Sono gli oggetti dell’essenza reale? Di certo no: sono gli oggetti in quanto si presentano nell’esperienza. Ancora una volta abbiamo quindi il prospettarsi di un piano intermedio tra gli oggetti e le idee, che è il piano dell’esperienza. Si tratta, cioè, del punto di riferimento necessario per poter parlare di realtà e di verità anche se si tratta, pur sempre, di verità e di realtà per così dire precarie e inadeguate.
12) Per riassumere alcuni aspetti riguardanti il problema della verità della conoscenza, si può ribadire che Locke – in armonia con una tradizione di pensiero che parte da Aristotele – assegna l’ambito della verità alla proposizione, nel senso che singoli termini verbali o concettuali non possono essere considerati dal punto di vista della verità o meno. La verità o la falsità hanno luogo laddove in una proposizione si connettono o si disgiungono dei segni, cioè laddove si esprime un giudizio attraverso dei segni. Benché Locke distingua un discorso mentale da un discorso verbale, per cui si avrebbe un doppio ordine di verità, lo stesso Locke ammette che è difficilissimo condurre dei ragionamenti puramente mentali, cioè delle connessioni o disconnessioni di idee senza fare riferimento ai loro nomi. In pratica, avremo quindi due piani in cui si esplicita il problema della verità: quello della proposizione verbale, espressa in parole, e quello della proposizione mentale, espressa attraverso rapporti di idee. La verità della proposizione verbale si avrà quando i termini verbali, cioè i nomi, saranno connessi così come sono connesse le idee che essi significano. E tuttavia sussiste il problema della fondatezza della connessione delle idee, per cui in realtà la verità della proposizione verbale si verifica quando i termini verbali sono connessi così come si connettono le idee, e le idee si connettono così come si connettono le cose cui le idee fanno riferimento, ovvero di cui le idee sono segni. L’esigenza primaria di Locke è trovare un aggancio tra la verità verbale-mentale e la realtà. Ma il problema è appunto quello del rapporto con la realtà. Esso non si pone per quanto riguarda le verità matematiche e le verità morali, cioè quelle legate ai modi, perché nelle idee di modi l’essenza reale coincide con l’essenza nominale. Si pone, invece, per quanto riguarda le sostanze.
Locke concepisce il concetto di verità come corrispondenza: questo è uno dei tanti modi in cui si può concepire il concetto di verità. Tuttavia è piuttosto curioso ciò che viene sostenuto da un simile empirista, artificialista che rifiuta di approfittare della fecondità di un concetto come quello dell’essenza nominale per cui la verità consisterebbe nella coincidenza tra ciò che si dice a proposito di un particolare e ciò che si dice nell’essenza nominale. A Locke non importa che una proposizione come “tutto l’oro è fisso” sia vera perché nell’essenza nominale dell’oro è inclusa la fissità, mentre un pensatore come Hobbes aveva operato un tentativo molto vigoroso di ancorarsi a questo concetto di verità, piuttosto che a quello di una verità concepita come corrispondenza. In fondo Locke è un empirista che non si soddisfa del piano dell’esperienza: è un empirista che persegue un ideale – non certo empiristico – che persegue la possibilità di rapportarsi all’oggetto: un ideale proprio di scuole metafisiche non empiristiche. Ci troviamo cioè al cospetto di una posizione soggettivistica, poiché Locke – secondo la definizione dei suoi avversari – è un “ideista”; ma al tempo stesso si ha a che fare con una posizione empiristica, nella misura in cui – a differenza di Cartesio – esclude ogni innatismo, e dunque ogni possibilità di rapportarsi all’oggetto grazie alle idee innate; da ultimo, si tratta di una posizione artificialistica, nel senso che tutte le articolazioni in base a cui conosciamo gli oggetti sono di carattere artificiale, essendo appunto create dall’intelletto. Il paradosso lockeano consiste, quindi, nel tenere insieme posizioni molto avanzate rispetto alle concezioni del periodo, ma al tempo stesso nel manifestare una profonda insoddisfazione per lo stato della conoscenza così come viene a costruirsi.