Foto del docente

Giuseppe Salvato

Adjunct professor

Department of Pharmacy and Biotechnology

Useful contents

DICA 33: EVOLUZIONE DELLA SPECIE

Estratto da: I CARDINI DI UNA SANITÀ PIÙ UMANA – umanizzazione delle cure

Quaderni del Filèremo – n.4/2016

CENTRO DI BIOETICA FILÈREMO – PERUGIA

“DICA 33”: EVOLUZIONE DELLA SPECIE

di Giuseppe Salvato, dottore commercialista e professore a contratto di Acquisizione di Capacità Relazionali presso la Scuola di Farmacia, Biotecnologie e Scienze Motorie dell’Università di Bologna.

*****

ABSTRACT

Comunicare è tra i primi atti vitali di ogni essere umano ma anche, per molti, tra i più trascurati nelle varie fasi dell’esistenza. Le abitudini e i luoghi comuni hanno spesso il sopravvento e le capacità critiche e di analisi rischiano di piegarsi a opportunismi e contingenze. E quando ci proiettiamo e ci relazioniamo nei luoghi di lavoro, spesso lasciamo a casa l’ingrediente che è alla base della reale efficacia della comunicazione: l’empatia.

Luogo di lavoro significa continuo confronto con capi, colleghi, professionalità diverse nonché destinatari che si giovano del nostro impegno: i cittadini. Sì, prima di chiamarli pazienti, utenti e, più di recente, clienti -come altrimenti definire colui che fa richiesta di un intervento voluttuario di chirurgia estetica?- il cittadino vive di una propria consapevolezza, frutto dell’evoluzione sociale e culturale di cui è necessario sempre più tener conto, se vogliamo comprendere il riequilibrarsi del rapporto tra operatore sanitario, in specie il medico, e beneficiario dei servizi socio-sanitari.

Pertanto nella complessità odierna, condizionata dagli indirizzi politici ma anche dalla tecnologia e da esigenze economiche, occorre imparare a “fare il professionista”: in passato le competenze e l’esperienza rappresentavano tutto ciò che serviva; oggi le abilità relazionali consentono di convogliare efficacemente questo “tutto” verso i naturali destinatari e, mi viene da sottolineare, con reciproca soddisfazione. Ecco, forse il segreto sta proprio in questo: comunicare bene cambia la vita, del cittadino e del professionista, che si sente così riconosciuto nel suo impegno verso i risultati attesi.

PREMESSA

Siamo colmi di luoghi comuni, favoriti dall’attività generalizzatrice della nostra mente che è sempre pronta a classificare le esperienze e ad archiviarle per mantenere libero lo spazio dell’attenzione cosciente, vagamente assimilabile alla ram di un computer; tale consapevolezza disponibile è una capacità umana normalmente destinata ad affrontare eventi nuovi e a gestire nuove informazioni. Pertanto, la mente stessa infila nell’ampio sacco dei “lo so” le esperienze già note e le conoscenze di cui siamo diventati padroni: è il sacco dell’inconscio, il nostro enorme hard disk in cui precipitano i ricordi sopiti e dove trovano terreno fertile le nostre abitudini. E tra abitudini e luoghi comuni il passo può essere davvero breve; lo testimoniano i mille proverbi e modi di dire trasmessi di generazione in generazione. Le prime e i secondi sono entrambi utili alla sopravvivenza, affinché non si rimetta costantemente in discussione il nostro modo di essere, il nostro modo di fare. Di luoghi comuni siamo tutti pervasi ed è evidente che si sono moltiplicati nei tempi della contemporaneità, stressanti più che ogni altra epoca storica. Stressanti, nonostante la pace tra gli Stati, anche se afflitti dal terrorismo; nonostante il benessere diffuso, anche se mal distribuito. Infatti, al crescere delle informazioni da gestire simultaneamente e chiamati oggigiorno ad un multitasking sempre più frenetico, generalizzazioni, abitudini e luoghi comuni rappresentano spesso l’ancora di salvezza per tutti noi.

E così, il parlare attorno al delicato tema della relazione tra personale sanitario e paziente può risultare noioso e inutile -secondo molti non c’è soluzione migliorativa, per come girano le cose-, ovvero talmente soggettivo da fare invidia all’immagine di migliaia di tifosi che si trasformano in abilissimi allenatori di calcio della squadra del cuore: tutti prodighi di soluzioni efficaci; tutti che ostentano ricette sicure, magari suggerite attraverso il buco della serratura con cui ciascuno di noi osserva questo complesso mondo. Eppure, questa relazione si è profondamente trasformata in pochissimi decenni e costringe ad una riflessione profonda sia il medico che tutto il personale sanitario con cui entra in contatto il cittadino-paziente. “Dica 33”, incipit del classico esame obiettivo del medico condotto, e non solo, che conosceva il carattere e le abitudini di ogni suo assistito e con cui umanamente si soffermava, appartiene alla preistoria al pari di tante sfumature relazionali oramai desuete, dal condominio alla fabbrica. Ma oggi, con che cosa abbiamo sostituito l’antico e fantomatico approccio?

IL CITTADINO-PAZIENTE

Il fulcro della nostra osservazione è il cittadino, e mi piace definirlo semplicemente così perché è innanzitutto tale, come ognuno di noi appartenente ad una comunità. E ben sappiamo quanto oggi sia cresciuta la consapevolezza dei diritti personali al pari della capacità di informarsi e istruirsi. Pertanto il nostro, temporaneamente divenuto “paziente” e magari accasato seppur fugacemente presso una struttura sanitaria, non dimentica la propria natura chiedendo, informandosi, pretendendo, osservando. Cultura, consapevolezza di sé e mezzi -internet in primis, ma non dimentichiamo il sempre efficace passaparola- fanno di costui non più un fruitore passivo di un complesso di servizi, ma un vero e proprio attore nella realtà che lo circonda e che lo riguarda, compreso il servizio sanitario nazionale in tutte le sue accezioni.

Ma dove trova origine tanta consapevolezza che, nel contempo, ha pure modificato radicalmente una relazione che era di vera e propria sudditanza nei confronti del medico e che oggi si è trasformata talvolta in atteggiamenti di pretesa e in contenziosi? I rivolgimenti sociali degli anni Settanta del Novecento apportarono notevoli differenze di approccio alla stesura di norme a tutela dei diritti del cittadino e alla realizzazione di iniziative volte a rafforzare l’identità di tale soggetto: un esempio specifico può ritrovarsi nell’istituzione del Tribunale dei Diritti del Malato (1980); ma negli anni Ottanta si annidano i germi visionari delle più generali novità in campo amministrativo, partorite successivamente e che identificavano sempre più il cittadino quale protagonista del proprio contesto politico e socio-culturale, non più come mero fruitore di servizi pubblici. La legge 241/1990 sulla trasparenza amministrativa e la legge 142/1990, che istituisce la figura del difensore civico, la legge delega 421/1992 e il successivo decreto legislativo 502/1992 (art. 14) sui diritti dei cittadini, nell’ambito del riordino del sistema sanitario nazionale, senza citare le Carte dei Servizi, l’istituzione degli Uffici Relazioni con il Pubblico (URP) e le norme che hanno modificato la gestione e spinto verso le amministrazioni territoriali locali nuove autonomie e responsabilità, direttamente monitorabili dai cittadini-elettori, formalizzano una trasformazione della società italiana nel contestuale approdo verso la moneta unica, sempre all’inizio degli anni Novanta.

Tale breve excursus ci aiuta ad evidenziare anche un altro fenomeno, figlio di una spesa pubblica oramai fuori controllo, che si manifesta pienamente con l’aziendalizzazione della sanità. Per rientrare nei parametri di Maastricht si intervenne pesantemente sui costi di previdenza, sanità e pubblico impiego, anche responsabilizzando i dirigenti su obiettivi gestionali affinché si limitasse l’influenza della politica all’alveo delle scelte di mero indirizzo. Il medico ospedaliero diviene dirigente (decreto legislativo 29/1993) e, pertanto, al compito essenziale di assistenza ai pazienti si affianca quello di gestire i servizi in sanità, con budget e obiettivi da rispettare. E tale funzione è divenuta così importante da lasciarmi pensare che l’assistenza sia oramai subordinata alle necessità gestionali, sia un “di cui” di queste ultime, provocando una pur prevedibile resistenza da parte del personale sanitario, al momento della riforma colto piuttosto impreparato sui temi di economia dell’ospedale. Oramai sono i DRG (diagnosis-related group o, nella nostra amata lingua, raggruppamento omogeneo di diagnosi, ROD) a guidare le scelte di ricovero e i tempi di degenza, con una ricerca di efficienza mai sperimentata prima di questi ultimi decenni. È anche doveroso registrare, però, qualche verosimile stortura per la quale, solo a titolo d’esempio, in tanti casi in urgenza viene ricoverato il malcapitato, silente e rispettoso del medico che gli salva la vita, residuo culturale del passato, mentre nel reparto ospedaliero vi accede il cliente privato del professionista.

Solo per inciso, tra i cambiamenti culturali ormai acquisiti sovviene pure rammentare come, nel corso del Novecento, l’essere umano abbia mutato radicalmente il proprio rapporto con la morte: non l’accettiamo più, non vogliamo più morire e, indipendentemente dalle circostanze, oggettive e soggettive, ci chiediamo e chiediamo al medico sempre più spesso: “Perché è morto?”, sollevando a volte paradossali sospetti che qualcosa in più o di diverso poteva essere fatto… D’altro canto posso immaginare che, probabilmente, sia errato anche il linguaggio utilizzato per dichiarare la guarigione di un malato: non si può trattare di “sconfitta della malattia” ma di successo della vita -spostando così il baricentro dall’oggetto al soggetto- perché, mi si perdoni la banalizzazione, su un essere che è per definizione “mortale” la malattia prima o poi vince!

La responsabilità della vita è erroneamente attribuita al medico, nel mentre sappiamo bene che la stessa medicina non può essere classificata una scienza esatta. Per inciso, in medicina c’è l’obbligo dei mezzi e non del risultato, ma l’effetto di tale visione sulla relazione tra personale sanitario e cittadino-paziente è pressoché diretto. Come si evolverà ulteriormente tale rapporto con i mutamenti in atto? L’inesorabile processo di deospedalizzazione, a tutto vantaggio delle strutture territoriali, trova queste ultime già pronte ad affrontare il dialogo con un’utenza abituata alla corsia d’ospedale e ad intasare il pronto soccorso? Cambia pure l’organizzazione dei medici di base: quali resistenze e quali poteri sono in gioco? Vivo al Sud e, a proposito di pronto soccorso, avere un’esperienza diretta fatta non solo di interminabili ore d’attesa prive di qualsivoglia informazione, ma anche della costante presenza di guardie giurate armate a tutela della “quiete”, non mi rassicura affatto!

UN RAPPORTO QUASI PARITETICO

Orbene, per quanto appena rappresentato, oggi non possiamo affatto meravigliarci che il rapporto e le forme comunicative tra medico e paziente siano meno sbilanciati rispetto al passato. Oserei dire, col senno del poi, che era piuttosto prevedibile; e tale situazione la osserviamo replicata in tanti altri esempi di relazioni sociali.

Di certo, il potere del professionista diminuisce anche a causa di altri fattori. Prendiamo il caso delle tecnologie: focalizzando la propria attenzione su settori sempre più specialistici, il medico tende a perdere la visione d’insieme che lo caratterizzava sino a pochi decenni fa. Conosce sempre di più, ma in ambiti sempre più ristretti. E si rischia di vedere un essere umano come il ricercatore osserva una reazione chimica in provetta. Chi di noi, almeno una volta, non si è sentito osservato come una cavia? La complessità fa dimenticare la semplicità. L’attrazione per ciò che è efficiente fa dimenticare ciò che è efficace per il cittadino: un’informazione comprensibile. E il medico si disabitua al classico esame obiettivo. Mi sovviene, insinuandosi nella mia mente, una considerazione provocatoria: le persone hanno sì bisogno della scienza, ma non necessariamente degli scienziati. Le scoperte scientifiche di norma aiutano l’umanità, è indubbio, ma ci accorgiamo degli scienziati quando ne apprezziamo la capacità divulgativa, l’abilità di aiutarci nella comprensione di quanto di buono ci sia nel nuovo. E così l’immortalità è assicurata. Scienza e scienziati, pertanto, hanno obiettivi distinti, seppur naturalmente interagenti; e se la prima diventa grande soprattutto quando viene interpretata dalle applicazioni tecnologiche, i secondi influenzano il mondo attraverso una grande leadership comunicativa. Per quanto detto, allora, c’è speranza di successo per tutti coloro i quali non sono scienziati ma che abbiano adeguate doti comunicative!

C’è anche un aspetto economico che merita attenzione: l’introduzione dell’euro ha indubbiamente eroso il potere d’acquisto degli Italiani e quello che poteva essere uno standard elevato, a cui si era abituato il professionista degli anni Ottanta-Novanta, è diventato il “minimo sindacale” -nel rispetto di tanti altri mestieri, che vedono tale minimo a livelli decisamente inferiori!- da incrementare con la libera professione. Ma quando il cittadino paga direttamente si sente in diritto di chiedere e a volte di pretendere; e nel ruolo delle parti, sul piano dei rapporti interpersonali questa è un’ulteriore “carta” giocata a favore di quest’ultimo.

Mi viene da aggiungere, a pensarci bene, che il riequilibrio della relazione medico-assistito non abbia migliorato, di per sé, la salute del cittadino, che dipende da fattori davvero lontani rispetto a quanto possano gestire le professioni sanitarie: l’aria, l’alimentazione, gli stili di vita… Certo, i sistemi di controllo della salute hanno una loro incidenza, ma pare proprio che l’attività degli ospedali contribuisca sulla salute solo per una piccolissima percentuale, includendovi il peso delle attività emergenziali. La stessa medicalizzazione del parto, di quanto ha ridotto la mortalità neonatale e della partoriente? Paradossalmente, ci stiamo forse preoccupando di un fenomeno, il rapporto tra operatori sanitari e cittadini-pazienti, che si svuota di interesse se, come sembra, chiudendo tutti gli ospedali la mortalità non aumenterebbe poi di tanto? È, questo, un altro segnale che ci induce a pensare come il potere del medico continui a calare…

Continuerei le mie osservazioni in libertà confrontandomi pure con la consapevolezza, registrata da parte di un numero sempre più elevato di persone, che la salute debba essere vista secondo una prospettiva olistica. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha modificato la sua definizione, per cui oggi pensiamo ad essa sì attraverso il benessere fisico, ma contemperato dall’altrettanto importante benessere psicologico e sociale. E non è estraneo a tale approccio ampliato il fatto che un numero sempre più elevato di uomini e donne stia riscoprendo le medicine complementari: la fitoterapia, l’omeopatia e l’agopuntura, riconosciute e regolamentate dalle normative pubbliche, ma anche la medicina tradizionale cinese e tante altre. Fermiamoci un attimo, allora, e riflettiamo se il medico, di per sé, possa garantire la salute...

In questo momento, però, mi pongo una domanda semplice, ma non per questo banale: chi insegna al medico come fare il medico? Cercherò di rispondere più innanzi; qui basta rammentare a noi stessi come lo stesso poteva dirsi, fino a non poco tempo fa, degli insegnanti; infatti, le riforme più recenti hanno spinto numerosi giovani a studiare le scienze dell’educazione. Ma del medico e della sua consapevolezza relazionale, chi se ne occupa? La sua formazione, sostanzialmente allopatica, di certo favorita dalle multinazionali del farmaco, è tipica della cultura occidentale ed è basata sulla lotta alla malattia, nonostante l’attenzione crescente verso l’educazione sanitaria e le forme di prevenzione. La medicina di cultura orientale, viceversa, si fonda sull’inganno della malattia, attraverso il medesimo mezzo -come fa la stessa omeopatia- o con altro sistema. E tale differenza non è ininfluente rispetto al tema della comunicazione.

E mi sorge un ultimo pensiero: il rapporto paritetico a volte fa paura…

COMUNICARE BENE CAMBIA LA VITA

Tra i miei interessi professionali c’è la comunicazione e la relazione con il cliente. Me ne occupo anche con gli studenti dell’ultimo anno della Scuola di Farmacia di Bologna, dove hanno compreso l’importanza di orientare i giovani verso aspetti gestionali e lavorativi di non secondaria importanza. Certo, ancora oggi qualcuno di essi non comprende appieno il significato di una disciplina che è propedeutica all’attività lavorativa, non certo subordinata ad essa; eppure, si riesce finalmente a scalfire una convinzione fatta di nozioni scientifiche e studi approfonditi che però rischiano di trascurare il “veicolo” con cui tanta professionalità dovrà essere messa al servizio della collettività: la comunicazione e le abilità relazionali.

Ebbene, proprio a sfatare un luogo comune che ci spinge a ripetere supinamente come il cliente abbia sempre ragione, che non condivido, dobbiamo al contempo accettare l’idea che, in ogni caso, il cliente vada sempre ascoltato. E sottolineo “sempre” perché, senza la comprensione del punto di vista altrui non si genera armonia, che è il vero risultato di una comunicazione efficace. Comprensione anche in assenza di condivisione, si badi bene, proprio perché non è detto che il cliente abbia sempre ragione o abbia sempre capito. E il parallelo tra cliente e cittadino-paziente è assolutamente calzante, laddove un’informazione oggigiorno facilmente reperibile, seppur parziale o errata, ma ben radicata nella mente di quest’ultimo, può paradossalmente contrapporsi al professionista che gli è di fronte per aiutarlo.

Questa contrapposizione, obiettivamente assurda, mi ha fatto ricordare come qualcuno, non rammento la fonte, suggeriva le specifiche del buon operatore in sanità riassunte nella regola delle tre T: Tatto, Talento e Tempestività. Ecco, in queste pagine ci occupiamo della prima caratteristica, il tatto, fortemente condizionata dalle capacità relazionali dell’operatore sanitario. L’assunto di base, per quanto detto sopra, è che l’interlocutore, paziente o familiare che sia, venga considerato un dato da cui partire e non necessariamente da modificare; mentre i comportamenti di chi lavora in sanità siano da adattarsi a tale contesto -c’è qualche lettore che sta storcendo il naso?- che attinge la sua essenza nell’evoluzione ambientale, sociale e culturale su cui ogni operatore, preso singolarmente, può fare ben poco.

Permettetemi a questo punto un decalogo sulla comunicazione, elementare ma essenziale:

  1. comunicare è una imprescindibile capacità umana, indipendente dalla cultura in cui si è immersi e dall'istruzione ricevuta;
  2. saper comunicare è una indubbia misura del successo personale;
  3. il nostro cervello sarebbe sicuramente depotenziato senza il linguaggio e la naturale dote comunicativa dell’uomo;
  4. abbiamo tutto il nostro tempo a disposizione per migliorarci in tal senso, senza toglierlo ad altre attività quotidiane;
  5. comunicare significa relazionarci col mondo attraverso tutti e cinque i nostri sensi;
  6. la comunicazione verbale è di valore quasi insignificante rispetto alla comunicazione paraverbale e non verbale, decisamente più ricche di sfumature: lo sanno bene gli attori, costretti a “calarsi” nel personaggio che interpretano;
  7. più che il parlare, ascoltare e osservare sono le qualità essenziali con cui nasciamo e cresciamo, imparando così anche a parlare: proviamo a star zitti per un giorno e a non udire o non vedere per un altro, e chiediamoci in quale ipotesi abbiamo avvertito maggior disagio;
  8. l’efficacia comunicativa è direttamente correlata ai nostri atteggiamenti, più che alle condizioni esterne. Per mettere gli altri al centro dei nostri interessi occorre un solo “integratore”: l’empatia;
  9. se vogliamo relazionarci bene con gli altri dobbiamo avere un’equilibrata relazione con noi stessi;
  10. la comunicazione, in qualsiasi forma, genera un’alterazione positiva o negativa dello stato emotivo del nostro interlocutore.

Ne possiamo dedurre che sappiamo così tanto sulla comunicazione, eppure investiamo relativamente poco tempo e poca attenzione nel migliorare le nostre capacità comunicative!

Cosa succede, allora, nei luoghi di lavoro? Come incide la comunicazione nell’efficacia del processo politico-organizzativo che rende prioritaria la prevenzione e, quindi, dà rilievo alle strutture territoriali? Si può fare prevenzione senza informazione? E l’informazione è efficace senza una corretta abilità comunicativa interpersonale?

Intendo dire che ognuno di noi può migliorare se stesso agendo, simultaneamente, sia sulla leva dell’aggiornamento professionale che sulla modalità con cui consente a tale preparazione di essere utile al mondo. Mi sovviene un pensiero di William Arthur Ward: L’insegnante mediocre parla. Quello buono spiega. Quello superiore dimostra. Il grande insegnante ispira. La citazione ci suggerisce qualcosa circa il peso che la comunicazione può avere nell’educare e coinvolgere gli altri attorno a noi, a parità di competenze? E ancora: colui che ha bisogno, di cosa ha effettivamente bisogno? La risposta a questo secondo interrogativo rappresenta la chiave di svolta di ogni approccio al lavoro in sanità, e non solo. Infatti, ai bisogni espliciti -la richiesta di guarigione- si intramezzano i bisogni impliciti -il capire cosa stia succedendo e cosa succederà; ma anche l’essere compresi, ascoltati, rincuorati-, che appartengono all’essere umano in quanto tale e non solo al cittadino che diviene paziente in ospedale.

In realtà, un’adeguata preparazione svincolata da un approccio empatico verso l’assistito rende autoreferenziale il personale sanitario al pari dell’effetto prodotto dall’abnorme utilizzo di termini specialistici nella comunicazione interpersonale; per eccesso di zelo sottolineo che tale considerazione vale per ogni professionalità: l’attenzione pressoché esclusiva all’oggetto, cioè alle “cose da fare”, da un lato può velocizzare l’applicazione dei protocolli, consolidandosi un valore -l’efficienza- sostenuto da una cultura che è centenaria nel mondo economico e che è approdata da pochi anni nella sanità italiana; dall’altro, ne mina l’efficacia nell’aspetto della qualità percepita dal soggetto, che è il destinatario ultimo del servizio.

A tal proposito conviene rammentare che il concetto di salute si è evoluto nel tempo non di certo per un cruccio filosofico di pochi intellettuali: il sistema sanitario e il suo personale, pertanto, quanto sono in grado di rispondere ai nuovi bisogni di salute? Il benessere non è più una semplice assenza di malattia e gli aspetti emotivi, psicologici e relazionali coinvolti in uno stato di malessere o disagio personale hanno assunto un valore decisamente più alto rispetto ad un pur recente passato. D’altronde, come ci sentiremmo nella relazione col pur apprezzato medico dopo che questi, senza quasi guardarci in faccia, abbia confabulato con l’infermiere di turno in un linguaggio spesso incomprensibile ai più e ci abbia salutato frettolosamente? Lo giudicheremmo ancora un bravo professionista? L’esclusività delle competenze non è più un elemento di grande discriminazione tra le persone, ma in molti ancora non l’hanno compreso. Una cosa è certa: collateralmente alla preparazione professionale, le capacità comunicative premiano vantaggiosamente l’operatore sanitario, che viene apprezzato per il suo modo di porgersi.

Ma perché l’evidenza di tali bisogni di comprensione da parte del cittadino-paziente non è sempre nelle priorità dell’operatore in sanità? Sono sufficienti le riflessioni riportate sinora? Evidentemente no. In verità le abitudini sono dure a morire, ed è vero! Il carattere personale tende a sclerotizzare comportamenti frettolosi o autoreferenziali che inizialmente aiutano -fanno risparmiare tempo ed energie- e alla fine intrappolano, in quanto non si intravedono alternative o vie d’uscita. La leva personale su cui agire, pertanto, è la vera chiave di svolta affinché il lavoro anche in sanità non sia una semplice fonte di guadagno ma, altresì, di relazioni e apprezzamenti che hanno una forte influenza sugli aspetti motivazionali e, in ultima istanza, sul grado di felicità con cui ogni lavoratore affronta la vita. A relazionarsi bene c’è davvero tanto da guadagnare e comunicare bene cambia la vita, al professionista e al suo assistito.

IMPARARE A FARE IL MEDICO

Anche la comunicazione più accurata non raggiunge lo scopo se non vi è alla base disponibilità all’ascolto. E l’ascolto è una qualità rara, che va coltivata sin da ragazzi. Relazionarsi con il paziente si impara da giovani universitari: osservare il professore in corsia leggere le cartelle cliniche e ostentare sicurezza, difficilmente con lo sguardo rivolto alla persona allettata, magari non dando il tempo ai suoi studenti di soffermarsi, di fare domande, di incuriosirsi e, perché no, di sbagliare, può al momento accrescere l’aurea e l’influenza dominante del professore stesso che, oltre all’insegnamento di specifiche competenze, più o meno involontariamente trasferisce uno stile agli studenti i quali, per questioni anagrafiche, rammentiamo essere ancora dotati di un ingrediente fondamentale della natura umana di cui sono ricchi i bambini, ma che consumiamo -a volte in fretta- con l’età della ragione: tale ingrediente si identifica nell’empatia.

Siamo così giunti ad un punto chiave delle presenti considerazioni: comunicare senza empatia è impossibile; possiamo parlare e sentire le voci altrui, ma senza empatia mai metteremmo al centro dei nostri interessi l’essere umano che ci sta di fronte, le sue ansie, le sue opinioni, il suo modo di vivere la malattia o il disagio.

Eppure si può agire diversamente, senza giustificazioni e senza imprese ciclopiche. Di recente ho dato un passaggio in auto ad una studentessa italiana che vive a Parigi, medico specializzando che mi ha raccontato di come sia semplice là per uno studente interagire con il suo mentore il quale, per arricchimento esperienziale dei discenti, cambia anche di frequente. In Italia, inutile dirlo, seguiamo per anni -gratuitamente o quasi- il nostro caro professore sino ai limiti del comprensibile, e a volte oltre… Fare domande -anche banali- ed essere ascoltato dal docente pare essere cosa normale in Francia; ma in Italia sembra proprio di no; quindi, la comunicazione incomincia ad essere inefficace già nelle aule e nelle corsie universitarie. Un bambino di tre-quattro anni si chiederebbe: “Perché?”. Personalmente ho difficoltà a rispondere con un’ipotesi ragionevole e, pertanto, lascio al lettore il non banale responso. A tal proposito, però, reagisco più schietto dello schietto: vuoi vedere che un giovane medico in formazione, che ha il diritto-dovere di imparare a muoversi con dimestichezza in sala operatoria, è più utile che faccia la minor esperienza possibile lasciando campo aperto al luminare di turno e ai suoi interessi privati?

TRATTARE PAZIENTI IMPAZIENTI

Certo è che -allontanata ogni “cattiveria” dalla mia mente- l’operatore sanitario, nel trovare ogni sorta di giustificazione, fondata o meno, rischia di soccombere di fronte a due sindromi piuttosto note: la SIMULAZIONE -apparire ciò che non si è- e la DISSIMULAZIONE -non apparire ciò che si è-. Nel primo caso il camice di lavoro aiuta a simulare l’atteggiamento della persona che si identifica talmente tanto nella propria professione da dover apparire necessariamente votata ad una missione -ecco un grande luogo comune!-; nel secondo, la sindrome da dissimulazione, la fa da padrona il burnout e, quindi, la perdita di interesse per il lavoro che si svolge. Si cerca di dissimulare il proprio disagio e ogni aspetto lavorativo diventa un pesante dovere, tanto da sbolognare alle leve più giovani il fardello di molte responsabilità e operatività. E il cittadino-paziente diventa un numero da gestire; e in fretta…

Sottolineo pure un interrogativo di non secondaria importanza: se nelle politiche sanitarie e, più in generale, nelle scelte di welfare, sempre più si pone attenzione alla prevenzione, possiamo mai immaginare un genuino successo di tale strategia senza un’opera di educazione alla salute psico-fisica che coinvolga ogni cittadino? E non mi rivolgo esclusivamente ai medici di base, che pure rappresentano il punto di partenza ma anche di arrivo della persona che transita dall’ospedale: chi educa insegna, e ciascuno di noi vorrebbe per insegnante non semplicemente una persona competente, bensì un soggetto capace di adattarsi a chi ha di fronte, che si relaziona con flessibilità e senza ostentazioni. E allora, come si fa ad educare senza sentire il bisogno di incominciare dall’ascolto dell’essere umano, che è principio e fine di tali politiche? Si pensi solo al fatto che in passato il medico appurava le patologie emergenti, nel mentre oggi segue i fattori di rischio: diagnosi precoce e prevenzione sono due pilastri imprescindibili della medicina sul territorio, che condizionano e condizioneranno sempre più l’organizzazione e i budget delle aziende ospedaliere. Pertanto, spingere la relazione verso una maggiore attenzione al cittadino-paziente rispetto alla malattia significa che non è più sufficiente il parlare e il prescrivere; oggi gli operatori sanitari più accorti cercano di condividere l’approccio e sensibilizzare i comportamenti sani, con una simultanea attenzione crescente alla compliance, ovvero all’aderenza al trattamento prescritto.

Ma il successo di una strategia di prevenzione non può misurarsi con i parametri efficientisti che hanno pervaso la gestione dei centri di cura in questi ultimi vent’anni: si tratta di valutare i risultati su tempi lunghi e di adottare criteri più fondati sull’efficacia, gli stessi su cui si basa una corretta comunicazione. A tal fine, i medici più attenti cercano di motivare il proprio assistito, e di certo oggi si dedica più tempo al paziente rispetto al passato, ma sappiamo che la motivazione non scaturisce solo dal disagio patito al momento -quante terapie vengono dai pazienti improvvidamente sospese ai primi cenni di miglioramento!-, bensì anche dall’autorevolezza e dalla leadership che il medico sviluppa in un preciso istante. E autorevolezza e leadership sono direttamente correlati alla capacità di ascolto, è indubbio. Rappresentano le chiavi giuste che consentono di essere a propria volta ascoltati.

È un vero e proprio dovere del medico perseguire autorevolezza e leadership, quando la laurea non basta più: faccio riferimento, ad esempio, alla capacità di far seguire alle persone tutte quelle terapie che non modificano i sintomi ma incidono sul decorso delle patologie croniche; ovvero, a quelle situazioni in cui l’assistito sia immotivatamente desideroso di sottoporsi ad analisi o a trattamenti tecnologicamente avanzati -e costosi-. La tecnologia, astrusa ai più, ha offerto una comprensibile sponda a chi pensa di tutelare in tal modo il proprio prestigio professionale, completando il distacco con cui diversi operatori sanitari approcciano i bisogni delle persone ricoverate, magari per un banale day hospital.

Sono partito dai luoghi comuni e dalle abitudini: ebbene, il tempo che manca, le sempre più numerose incombenze lavorative, la necessità del medico di interagire attraverso strumenti tecnologici, l’affidamento ad analisi sempre più sofisticate, l’occhio costante ai periodi complessivi di permanenza del paziente in ospedale e ai costi fanno dire all’operatore sanitario che oggi proprio non ce n’è per nessuno, men che meno per quel cittadino pseudo-informato che pretende, in definitiva, umanità. Non è un’arringa contro qualcuno né una difesa incondizionata di chi, per sua sfortuna, non è in buona salute; però mi sovviene un’analogia con i tanti farmacisti che incontro attorno al medesimo tema: c’è folla in farmacia, il cliente è impaziente e a volte è pretenzioso, gli posso dedicare solo due minuti… Cosa fare in questo brevissimo lasso di tempo? Mi verrebbe da dire che uno sguardo riesce anche a far innamorare e che, pertanto, la comunicazione non verbale è addirittura più significativa -e non di poco- di quella verbale. Allora la questione si sposta non sugli aspetti quantitativi della comunicazione, sul tempo a disposizione, sul cosa raccontare, bensì sul come dire bene ciò che è necessario dire.

Chiediamoci come comunicare efficacemente nel lasso di tempo di due minuti di visita. Con la stessa efficacia di una brava commessa al banco -negozio, farmacia, ecc…- che ha la fila dietro il cliente che sta servendo. Dimostriamo che siamo interessati a chi è di fronte: non serve più tempo, non serve pazienza, non serve competenza, non servono parole difficili… E rammentiamo: in corsia, almeno, la fila è avanti all’operatore e i soggetti non hanno fretta di andar via. Il cliente può cambiare negozio, se gli va, mentre il paziente -ci sarà pure un motivo perché si chiama così…- sta lì ed è compito del personale sanitario raggiungerlo: ne abbiamo sinceramente voglia? Magari usciamo dal lavoro e andiamo in banca, lamentandoci perché ci fanno sentire dei numeri, mentre con il panettiere sotto casa è un piacere averci a che fare. Cosa cambia? Non certo il tempo della relazione, bensì l’approccio! Il medico e l’infermiere davanti a loro hanno una persona e non una diagnosi o una terapia. Sempre. E se sono ben pagati -i primi- rispetto a tanti altri mestieri è anche per questo ruolo, difficile ma necessario. Meno chimica, nei test d’ingresso alle scuole di medicina, e più capacità relazionali…

COME CI SI SENTE A STARE CON ME

Le persone si dimenticheranno ciò che hai detto e ciò che hai fatto, ma non si dimenticheranno mai come le hai fatte sentire (Maya Angelou). Ecco, dovremmo sempre porci una domanda essenziale: “Come ci si sente a stare con me?”. Vale al lavoro e vale in famiglia, qualsiasi ruolo sociale ricopriamo. E l’affidabilità, una delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano, non si basa esclusivamente sulla conoscenza ma su un assunto estremamente semplice che risponde ad un altro interrogativo fondamentale: “Posso contare su di te?”. Il cittadino-paziente vuole vivere, vivere bene, e purtroppo esprime questo bisogno in forme sempre più “aggressive”, tanto da far impennare i contenziosi e accampare la richiesta di immortalità al medico. Questo fenomeno ha generato la cosiddetta “medicina difensiva”, una vera e propria degenerazione del sistema per cui vengono effettuati esami al solo scopo di autotutela legale.

In verità, un paziente che giunge in un reparto d’ospedale, ancor prima di affrontare la malattia -salvo i casi più gravi-, ha bisogno di soddisfare le prime necessità -riposare, mangiare, pulirsi- in un contesto di cui deve ancora prendere confidenza; per di più, è seguito dai parenti desiderosi di notizie e di informazioni e, mentre l’allettato si affida al personale presente in corsia, i familiari sembrano sgaiattolare ovunque…

Sempre con la mia giovane testimone in terra di Francia sopra citata, ho scoperto un altro aspetto che differenzierebbe le relazioni tra medici e cittadini-pazienti: il rispetto dei Francesi per la figura del medico e per le strutture sanitarie sembra essere più elevato che in Italia. Opinabile? Se ciò fosse vero, però, ne trarrei una conseguenza diretta: accrescere la disponibilità verso gli ammalati e i loro familiari, come ho riportato nelle pagine precedenti, aumenta il grado di tolleranza verso i medici e gli infermieri. A ben pensarci, se un estraneo ci ha dato appuntamento sotto casa e sta facendo ritardo, cosa ci induce a pensare? E se il medesimo ritardo riguarda un nostro caro amico? I nostri giudizi migliorerebbero d’incanto: la tolleranza, quindi, previene i cattivi pensieri e attenua i possibili contenziosi in agguato. Utopia? Forse, ma invito tutti a capire il perché della più favorevole reazione al ritardo dell’amico, magari condita da sane preoccupazioni per lui. In realtà, accettiamo bene solo colui che conosciamo bene; e il personale sanitario non sfugge a questa regola…

Ma quali atteggiamenti personali favoriscono una corretta comunicazione? Abbiamo già detto dell’empatia, ma aggiungerei sicuramente la fiducia, la diplomazia, la sicurezza, la stabilità emotiva,… Senza fiducia in chi ci sta di fronte, ad esempio, non ci può essere coerenza tra comunicazione verbale e non verbale: la fiducia nel fatto che il paziente avrà cura di mantenere comportamenti corretti a sostegno della terapia efficace; la fiducia che sia lì ad ascoltare il medico o l’infermiere e a comprendere ciò che per lui è bene o è male. Per una comunicazione efficace la fiducia va donata, non guadagnata.

Debbo calarmi nei panni di quest’ultimo ruolo, quello dell’infermiere, persona in prima linea che immagino subisca in modo davvero significativo tutti i cambiamenti in atto. Ve lo immaginate -e mi riferisco in particolare agli infermieri d’ospedale- quando costui viene chiamato a destra e a manca per un nonnulla? Quando gli viene rivolto uno sguardo interrogativo appena passata la visita del primario, che magari si è confrontato solo con i suoi colleghi? Se la tecnologia complica il linguaggio comprensibile, se l’economia velocizza i rapporti umani, se -specie al Sud- il medico “comanda” e l’infermiere è meno consapevole delle proprie competenze, ne possiamo serenamente dedurre che relazioni non sempre positive tra operatori sanitari influiscono sulla relazione col cittadino-paziente? Come difendersi? Fuggire verso i poliambulatori territoriali, rallentare nel lavoro, cercare di variare la routine… ma il burnout per la categoria è sempre in agguato!

Qualche professionista, poi, mi ha fatto cadere l’attenzione sulla cosiddetta medicina di genere: infatti, uomini e donne affrontano in modo diverso il rapporto con il medico; dalla donna è più facile ottenere informazioni e, posso solo immaginare, che da questo punto di vista il mestiere del ginecologo sia più semplice di quello dell’urologo. Me lo ha fatto notare anche un’amica ostetrica, quando sottolinea il completo affidamento della partoriente a tale operatore, piuttosto che al ginecologo di turno. In generale, nel dialogo più “ricco” con una donna il medico rileva un atteggiamento di maggiore precisione, senza dare alcunché di scontato. Pare anche che la donna sia alquanto più rispettosa delle terapie da seguire, al confronto degli uomini. Differenti, poi, sono le somatizzazioni -gli uomini più orientati al sistema cardiovascolare, le donne più al ventre-, e questo può avere una qualche incidenza sule relazioni conseguenti.

Come detto poc’anzi, con l’ostetrica si entra più rapidamente in intimità rispetto alla figura del ginecologo, e il ricordo resta a vita. La medesima cosa avviene per l’anestesista e il chirurgo riguardo gli interventi operatori: non si possono rammentare dei loro numerosi pazienti, ma lasciano un ricordo indelebile in essi. Mi hanno comunque segnalato una certa differenza nel rapporto che si costruisce al Nord rispetto al Sud, dove il ruolo del medico ha un maggior peso e l’ostetrica si trova ad essere meno ascoltata e ricordata. Più in generale credo che, in quel delicato ruolo dove la natura è bene che faccia il suo corso, talvolta ascoltare sia più importante che fare! Occorre cioè intervenire solo quando necessario e relazionarsi attraverso un’attività informativa, illustrando impersonalmente vantaggi e svantaggi di un comportamento, di una tipologia d’intervento, piuttosto che mantenere un atteggiamento prodigo di consigli personali. Intendo dire che lo spiegare modalità e tecniche del parto è un approccio più utile del simpatizzare con la partoriente; quest’ultimo è uno stile a volte ambiguo e, comunque, molto diverso dall’empatia, così pervasivo da far sentire l’operatore sanitario in diritto-dovere di sostituirsi nel processo decisionale alla futura mamma per consigliarla -solo apparentemente- al meglio. Insomma, da: “Io farei così…” a: “La tecnica X si differenzia dalla Y in quanto…”. Bisogna puntare all’empowerment della donna, accrescerne la consapevolezza per aiutarla a tirare fuori ciò che lei stessa ha già in sé, mettendo attenzione ai suoi bisogni più arcaici e profondi.

Al Nord permane un maggior egualitarismo tra i sessi e la donna non solo tende ad una maggiore informazione, ma diventa “resistente” ai consigli sanitari proprio a causa di questa sua consapevolezza di poter essere controllore di se stessa. Al Sud, viceversa, si registra ancora un residuo di “venerazione” verso il “professore” -sono spesso così definiti molti medici, soprattutto anziani, dai ceti culturalmente meno elevati, a prescindere dal mestiere effettivamente svolto-; e di questo ne sono testimone personale.

Differenze tra professioni sanitarie, differenze di genere, differenze geografiche… Più in generale mi viene spesso posta la domanda su come stabilire una corretta/efficace comunicazione. Per quanto mi riguarda, sostengo sempre l’idea di sostituire nei nostri dialoghi un’affermazione con una domanda. Un punto esclamativo con un punto interrogativo. Ma, come fare domande? Non di certo stiamo parlando di dati quantitativi -peso, età,…-, se il paziente sia o meno un fumatore. Si tratterebbe di domande “chiuse”, che non aiuterebbero l’interlocutore a raccontarsi e tutto il dialogo si tramuterebbe in una sorta di interrogatorio fatto di risposte ridotte all’essenziale: “si”, “no”, riscontri numerici per la racconta di informazioni e di dati, pur necessari. Invito tutti, invece, a utilizzare termini del tipo “perché…?”, “quando…?”, “come…?”, “cosa…?”, “dove…?”, “chi…?”: ciascuno potrà così riscontrare quanta voglia ha la gente di essere ascoltata. L’ascolto è merce rara; l’ascolto ci rende benvenuti ovunque. E non dimentichiamo di fare sentire una sincera vicinanza a chi soffre: è diverso parlare di fianco all’allettato piuttosto che ai suoi piedi… Chiudo con un interrogativo: sporgersi verso costui, o tenergli la mano, ha mai fatto del male a qualcuno?

TIRIAMO LE SOMME

Cerco, in conclusione, di addivenire a pochi ma chiari assunti:

  1. competenze e deontologia non sono sufficienti: al giorno d’oggi imparare a fare il medico o, più in generale, l’operatore sanitario, nel mentre c’è da affrontare le accresciute istanze e necessità d’informazione dei cittadini-pazienti, significa migliorare assiduamente le proprie capacità relazionali;
  2. lo scarso tempo a disposizione rispetto alle incombenze, o altri luoghi comuni, non giustificano l’assenza di empatia. I nostri atteggiamenti sono plasmabili ed è giustificativo parlare di “carattere”: “Io sono fatto così…”, “La mia esperienza mi dice…” rappresentano delle autentiche trappole di rigidità comportamentale in cui ci ingabbiamo da soli;
  3. l’approccio al cittadino-paziente si impara già da studenti nelle aule e nei reparti universitari, grazie a professori aperti e sensibili, oltre che capaci. La tecnologia e le innovazioni scientifiche non sono dei sostituti della buona comunicazione interpersonale;
  4. le modalità di comunicazione non verbale -postura, sguardo- e paraverbale -tono di voce, pause-, che danno significato alle parole, sono decisamente più importanti della comunicazione verbale -ciò che si dice-. Le domande aperte sono decisive in qualsiasi colloquio cha abbia valore;
  5. migliorarsi nell’arte della comunicazione significa prendersi indubbiamente cura di se stessi e della propria serenità d’animo, stimolare la gratitudine del soggetto allettato e, più in generale, del paziente attraverso un sincero interesse nei suoi confronti in quanto persona e, conseguentemente, incrementare il grado di motivazione con cui si affronta l’impegno professionale quotidiano. E scusate se è poco.

Comunicare bene è come il respirare correttamente; se associassimo l’espirazione al parlare e l’inspirazione all’ascoltare, non avremmo dubbi: per non andare in affanno dobbiamo equilibrare la parola proferita con l’ascolto, che va ben oltre il sentire perché è anche manifestazione della volontà di osservazione. Buona comunicazione a tutti!