Avvertenze e indicazioni per la redazione della tesi di laurea
Una tesi è un esercizio di scrittura di un saggio accademico, su un oggetto d'indagine concreto e circoscritto.Breve, la tesi da redigere per
la laurea triennale, di più ampio respiro quella per la laurea magistrale.
Ogni studente ha avuto modo, nel proprio corso di studio, di leggere e studiare saggi e libri di musicologia, di
etnomusicologia, di antropologia o di altri ambiti disciplinari. La tesi di
laurea non deve avere un’impostazione diversa: il tono e le argomentazioni non
sono quelli della narrativa, e neanche giornalistici. Occorre argomentare
compiutamente e rigorosamente, e documentare tutto quel che si scrive,
utilizzando le note a pie’ di pagina per i rimandi bibliografici. Evitate i
personalismi inutili (“mi ha molto interessato...”; “mi ha affascinato...”),
anche mascherati (“è affascinante...”).
In primo luogo occorre individuare un
argomento adatto a una trattazione scientifica, iniziare a indagarlo, leggere
la letteratura esistente sull’argomento. Per avere contezza di come si
individua e si tratta un argomento circoscritto si può fare riferimento a saggi
pubblicati sulle riviste di etnomusicologia o di altro settore: Culture
musicali, Ethnomusicology, Il Saggiatore Musicale, The Galpin Society Journal, etc. Dopo si può proporre l’argomento
di tesi al docente. Accludendo una bibliografia (e specificando quali avete già
letto, tra i testi elencati, e quali ritenete utile consultare) e un progetto
di lavoro o una proposta di indice.
Per tesi che comportano un lavoro di ricerca sul campo: il candidato eviti di scrivere che la sua ricerca si fonda sull'osservazione partecipante o simili notazioni, divenute inutile topos di ogni inchiesta etnografica, piccola o grande, più o meno riuscita. La tesi si fonda su un'inchiesta sul campo, punto e basta. Se non pertinenti e indispensabili vanno evitate anche ossevazioni "di metodo" sul "posizionamento dell'etnologo", la "relazione di ricerca" etc. Argomento essenziale del lavoro deve essere l'oggetto specifico dell'attenzione del ricercatore (si tratti di un repertorio, uno strumento musicale, il ruolo della musica in un contesto rituale o altro), non il rapporto che ha reso possibile la ricerca.
Non saranno accettate tesi aventi per
argomento concetti vaghi o troppo ampi (“l’improvvisazione”, “la musica e
l’estasi”, “la musica dell’India del Nord”), confronti tra oggetti diversi e
sui quali non si ha ampia competenza (“l’improvvisazione nella musica barocca e
nel jazz”, “il blues e la musica africana”). E, soprattutto per la laurea
triennale, vanno evitati argomenti che non siano di stretta pertinenza
etnomusicologica (come “la storia della banda del mio paese” o “la techno
trance”).
Quanto più un argomento è circoscritto
tanto più è facile scrivere una tesi: va bene, ad esempio, “analisi dei modelli
melodici degli holler
registrati da Alan Lomax nei penitenziari americani dal ... al ...”, o
“rapporto tra testo poetico e formule melodiche negli stornelli a Saponara (ME)”, non “il
blues delle origini” o “il canto a stornello in Sicilia”.
L’argomento della tesi va concordato,
indicativamente, almeno sei mesi prima della sessione di laurea per le tesi
triennali, dodici mesi per le tesi magistrali. Si devono presentare al relatore
( e al correlatore, per le tesi magistrali) con congruo anticipo le varie parti
della tesi con regolarità, dall’inizio del lavoro di redazione fino al suo
compimento. Il lavoro finito va consegnato al relatore (e al correlatore, per
le tesi magistrali) almeno un mese prima dell’inizio della sessione di laurea.
Il
testo va scritto in carattere tondo (cioè quello normale). Il carattere corsivo si usa: per i titoli (di opere
letterarie, di opere musicali, di opere cinematografiche, di opere pittoriche,
etc.); per le parole straniere (esclusi i nomi propri di persona, istituzione,
etc.) che non siano entrate stabilmente nel vocabolario italiano: davul, lautar, etc. (ma non per computer, jazz, il
boom economico, etc.); per singole parole o per un gruppo di parole a cui si
vuole dare particolare rilievo, perché si tratta di un tecnicismo, specialmente
la prima volta che lo si usa, o perché si vuole attribuire alla parola una sottolineatura
enfatica (“si prega di inviare subito una risposta”: uso da frequentare il meno possibile). Le
parole straniere in un testo italiano restano invariate al plurale: il lautar i lautar; la performance le performance. Il grassetto si usa per i titoli dei capitoli. Il sottolineato
non si usa mai.
Le
virgolette NON vanno utilizzate per mettere in evidenza, per dare enfasi (come
in: è “severamente” vietato). Si usano per le citazioni, cioè per riportare
testualmente parole o frasi scritte o dette da altri. Possono essere usate per
introdurre una definizione (- si chiama “piffero” l’oboe popolare... - , o -
userò la parola “piffero” per definire l’oboe popolare..., o ancora - secondo
Febo Guizzi (GUIZZI 2002: 209) sull’appennino pavese la parola “piffero”
designa l’oboe popolare... - etc.). Le virgolette possono essere usate anche
(con molta parsimonia) se si usa una parola in senso metaforico (ad es. il
“colore” del suono).
Esistono
virgolette «basse» e virgolette “alte”. Si può scegliere se usare solo le
prime, solo le seconde o entrambe (ad esempio le basse per le citazioni e le
alte per le virgolette contenute nel testo citato, o viceversa); è importante
scegliere un criterio e utilizzarlo in modo sistematico e coerente.
Si
chiama citazione
l’uso di parole o frasi dette o scritte da altri, importate all’interno del
proprio testo. Le citazioni vanno evidenziate graficamente e attribuite in
maniera esplicita al loro vero autore. Se si tratta di una citazione breve
(entro le tre righe), può essere contenuta all’interno del testo principale,
racchiusa fra virgolette; se la citazione è più lunga, va isolata dal testo
principale, andando a capo e
utilizzando un corpo di testo ridotto (eventualmente con interlinea più
compatta: 1 anziché 1,5) e una maggiore indentazione. Ad esempio: Si legge in
GUIZZI 2002: 209:
In un’area ristretta dell’Appennino settentrionale, detta
delle “Quattro Provincie” [...] è in uso un oboe popolare, noto [...] col nome
di “piffero”, in lingua o con alcune varianti dialettali
Se si intende sopprimere una parte di
testo per brevità, l’espunzione va indicata con tre puntini racchiusi fra
parentesi quadre (vedi sopra). La citazione deve essere testuale, cioè precisa
e fedele all’originale in ogni sua parte. Ogni correzione del testo originale,
ogni aggiunta esplicativa va racchiusa fra parentesi quadre. Per dar conto
esattamente della provenienza della citazione si usa una nota a pie’ di pagina.
Nella nota sarà indicato l’autore del testo citato e l’indicazione
bibliografica del libro o dell’articolo da cui il testo è tratto, comprensivo
del numero o dei numeri di pagina: GUIZZI 2002: 209 in nota rimanda alla
bibliografia, ove l’indicazione bibliografica completa sarà:
GUIZZI,
Febo
2002 Gli
strumenti della musica popolare in Italia, Lucca, LIM.
Ogni
informazione che non provenga dall’osservazione diretta va riferita, in nota,
alla fonte da cui la si è presa. Le fonti vanno verificate e valutate
criticamente: ad esempio se io, nel mio libro sulle musiche suonate dai rom del
Kosovo, faccio riferimento a una tradizione musicale in uso nel XXXV sec. a.C.
presso i Sumeri, non è corretto citare esclusivamente il mio libro, nel quale
ho fatto riferimento ai lavori di altri studiosi, che a loro volta hanno
trovato, trascritto, tradotto, interpretato la documentazione archeologica.
Dunque va scritto in nota che l’informazione riportata si fonda su un’immagine
raffigurata sul bassorilievo xx, che si trova nel Museo xy, di cui dà notizia
TIZIO 1896: 22-23, poi più ampiamente analizzata in CAIO 1964: 121. E si può
aggiungere, magari, “si veda anche SEMPRONIO 1981: 56-59, ove si mette in
relazione quest’immagine con i testi di lamentazione funebre... etc. Cit. in
STAITI 2012: 34-38.” Si riporta cioè la fonte originale, il riferimento ai
testi in cui è studiata, il testo da cui si è presa l’informazione e attraverso
il quale si è ricostruita la vicenda. Gli scritti, anche quelli di autori noti,
non sono tutti uguali, e vanno sempre valutati con rigore critico (avvertenza
tanto più importante oggi, quando on-line si trovano tante informazioni di
diversa attendibilità, spesso illegittimamente ricavate da altri testi). Non va
mai menzionato – se non avvertendo dell’esistenza del problema, se
l’informazione appare importante – nessun testo che non riporti le proprie
fonti. Se il mio testo sul Kosovo riferisce dell’esistenza di tradizioni
musicali sumere senza che sia indicata la fonte e la bibliografia da cui ho
ricavato quest’informazione, il mio testo è inattendibile e non va citato. Se
proprio è necessario si potrà scrivere, in nota: “Nico Staiti (in STAITI 2012:
1048-1050) riferisce che i sumeri suonavano la chitarra elettrica, ma non
segnala la fonte da cui ha ricavato quest’informazione”.
In
bibliografia il riferimento a libri e ad articoli editi va effettuato con
precisione, adeguandosi a norme precise, che possono comunque variare secondo
l’uso di diverse nazioni e singoli editori e secondo l’inclinazione personale.
Qualunque sia il criterio prescelto, è essenziale che venga mantenuto
coerentemente per tutta la tesi. Quello da me preferito (che è quello più
frequentemente adottato soprattutto nei paesi di lingua inglese) è il seguente:
Autori
in ordine alfabetico; tra le opere di un unico autore ordine cronologico (se
due titoli sono stati pubblicati nello stesso anno si possono distinguere nei
seguenti modi: 1997b oppure 1997/2):
STAITI,
Nico
1997
“Marriage Ceremonies in a Roma
Community”, in Music and Anthropology, 2.
1997b Angeli e pastori. L’immagine musicale della
Natività e le musiche pastorali natalizie, prefazione di Tilman Seebass, Bologna, Ut Orpheus.
2002 Le metamorfosi di santa Cecilia. L’immagine
e la musica, Lucca, LIM.
Cognome
del primo autore in MAIUSCOLO o Maiuscoletto,
seguito da virgola e Nome, con iniziale maiuscola. Nel caso di due o più autori
il nome del secondo (e del terzo, se presente: precede il cognome:
STAITI, Nico e Gianni BERENGO GARDIN
1997 Zingari a Palermo: Herdelesi e S. Rosalia, Roma, Peliti.
Se
gli autori sono più di tre si indicano cognome e nome del primo, virgola, “e
altri”:
GUIZZI,
Febo e altri
2006 Pifferi e tamburi. Musiche e suoni del
carnevale di Ivrea,
Lucca, LIM.
Citazione
di un libro: anno, titolo (in corsivo), luogo, editore (l’indicazione fra parentesi della collana
editoriale di appartenenza, col numero progressivo all’interno della collana, è
facoltativa). Se si tratta di un’opera la cui edizione originale è in una
lingua diversa da quella del libro citato, lo si indica tra parentesi:
GEERTZ, Clifford
1988 Interpretazione
di culture, Bologna, Il
Mulino (trad. it. di The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973).
Citazione
di un capitolo all’interno di un libro collettivo: Autore, anno “titolo del
capitolo tra virgolette”, in titolo del libro in corsivo, curatore, luogo, editore, anno: numeri
di pagina del capitolo citato:
STAITI,
Nico
2007 “Etnomusicologia,
iconografia, fotografia”, in Prospettive di iconografia musicale, a cura di Nicoletta Guidobaldi, Milano,
Mimesis: 223-260.
Se
la bibliografia contiene due o più saggi racchiusi in un unico volume
miscellaneo si può anche adottare il criterio seguente:
STAITI,
Nico
2007 “Etnomusicologia,
iconografia, fotografia”, in GUIDOBALDI 2007: 223-260.
Il
che comporta la necessità di includere nella bibliografia anche:
GUIDOBALDI,
Nicoletta
2007 (a cura
di) Prospettive di iconografia
musicale, Milano,
Mimesis: 223-260.
Citazione
di un saggio all’interno di una rivista: Autore, anno “titolo tra virgolette”,
in titolo della rivista in corsivo,
annata progressiva della rivista in numero romano, fascicolo specifico della
annata indicata, mese o stagione di riferimento: pagine che contengono
l’articolo:
STAITI,
Nico
2000
“Gli
zingari in Italia: cultura e musica”, in Africa e Mediterraneo, XXXI-XXXII, giugno: 14-29.
Il
titolo va riportato così come compare sul frontespizio (non sulla copertina!):
rispettando forma e successione di titolo, eventuali sottotitoli,
punteggiatura, maiuscole.
La
tesi va scritta in italiano: il che vuol dire che ogni frase deve essere
grammaticalmente e sintatticamente corretta e deve avere un senso compiuto. E
che la punteggiatura va usata correttamente (tra l’altro, la virgola NON sta
MAI tra il soggetto e il predicato, né tra predicato e complemento oggetto. Ad esempio è sbagliato “la tradizione del triplo clarinetto denominato launeddas, è tuttora presente nel Campidano, in Sardegna”: dopo ”launeddas” non va la virgola. Questo errore è frequente soprattutto in frasi costruite come quella utilizzata qui ad esempio, perché ” denominato launeddas” ha un vago sapore di inciso (cioè di una frase indipendente o di un enunciato, un sintagma incastonati all'interno della frase principale) ma non lo è. Se lo si vuol rendere un inciso occorre trasformare la frase. Ad esempio: ”le launeddas, che sono un triplo clarinetto a imboccatura diretta, sono tuttora presenti nel Campidano.”
Un buon criterio per decidere dove mettere
le virgole è il seguente: le virgole si usano per marcare gli incisi, prima di un’apposizione (”è tuttora presente nel Campidano, in Sardegna”), nelle frasi coordinate senza l’uso di una congiunzione, eventualmente nelle elencazioni ed enumerazioni. Più in
generale, le virgole è meglio usarle soltanto dove sono indispensabili).
Non abusare dei punti esclamativi con valore enfatico: il che vuol dire, in buona sostanza, non usarli (quasi) mai.
Ricordarsi
che esiste anche il “punto e virgola”, che ha una funzione di interruzione, ma senza il senso di chiusura di argomento che dà il punto fermo. E, a questo proposito, dimenticate quel che spesso si dice (e talvolta si insegna): cioè che la punteggiatura ha la funzione di indicare le pause nel discorso: brevi le virgole, lunghette i punti e virgola, lunghe i punti. La punteggiatura ha funzione di articolazione logico/sintattica. Per approfondimenti si rinvia a Francesca SERAFINI, Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura, Bari, Laterza, 2014, che è un manualetto agile e divertente. Si può leggere anche Bice MORTARA GARAVELLI, Prontuario di punteggiatura, Bari, Laterza, 2003. Con un’avvertenza: questi sono testi generali, che non si riferiscono specificamente alla saggistica, la quale ha proprie regole e codici aggiunti (nel modo di usare le parentesi, tonde e quadre, l’uso del maiuscolo e del maiuscoletto, le note a pie’ di pagina, etc.).
Più
le frasi sono brevi, meno si rischia di sbagliare. Il punto e il punto e
virgola hanno la funzione di spezzare le frasi, in modo più o meno marcato; le
virgole giovano alla loro articolazione interna. Va evitato l’uso di
congiunzioni, virgole, gerundi, per tenere insieme improbabili agglomerati di
parole in un’unica frase. Il gerundio NON va usato con funzione di raccordo tra elementi del discorso se non con cautela e consapevolezza.
“Imparò molte cose studiando molto” è corretto; “la scena rock costituendo uno
dei fenomeni più interessanti diventa quello che sarà uno dei fenomeni più
importanti...” è goffo, rugginoso, maldestro.
L’avverbio
“sicuramente” va usato solo quando è strettamente indispensabile affermare
qualcosa, appunto, con sicurezza. Non occorre scrivere che “Girolamo
Frescobaldi è sicuramente
uno tra i maggiori compositori del primo Seicento”: basta segnalare, ove fosse
necessario ricordarlo, che “Girolamo Frescobaldi è uno tra i maggiori
compositori del primo Seicento”. Se l’affermazione non è certa non la si
formula, o la si formula in modo dubitativo: “sarebbe uno tra i maggiori compositori del Seicento se Cateno
Chiantalafava non oscurasse la sua fama”; o “a detta di Giorgio Fafajanni
Girolamo Frescobaldi è uno tra i maggiori compositori del primo Seicento” [nota
a pie’ di pagina: FAFAJANNI 2050: 128. In bibliografia: FAFAJANNI, Giorgio [a
capo] 2050 [indentazione] “Cateno Chiantalafava grande compositore sconosciuto
del Seicento, più di Monteverdi e Frescobaldi”, in Rivista di musicologia
come la si fa dopo la riforma dell’Università e la soppressione dei
finanziamenti pubblici alla ricerca,
XV, 2: 127-128].
Attenzione
al presente storico, che conduce pressocché inevitabilmente a concordanze
irrisolte e a errori di ogni sorta. I passati, prossimo e soprattutto remoto,
non hanno fatto nulla di male: li si può usare tranquillamente. Quando si legge
qualcosa come “Girolamo Frescobaldi pubblica nel 1637 il suo Primo libro...” prima o poi si incappa quasi
certamente in qualcosa come “fu
uno dei più grandi musicisti...” o “suonava nella chiesa di S. Luigi...”: il
presente storico prima o poi cede il passo al passato e, ineluttabilmente,
all’imperfetto. Generando [uso accettabile del gerundio con funzione di
collegamento] pasticci di ogni sorta.
E,
già che ci siamo: le cose si fanno, si stanno per fare, si faranno. Non si
“vanno a fare”. Dunque, ad esempio, non “andiamo a descrivere”, ma,
semplicemente, “descriviamo”. Ancora: un “excursus” è una digressione, una parentesi
nel discorso principale, non un riassunto, uno sguardo panoramico, una
premessa.
I
segni di punteggiatura (comprese le parentesi e le virgolette di vario genere) in italiano si attaccano alla parola precedente senza spazio intermedio. Prima e dopo
l’apostrofo indicante elisione non inserire spazio (“l’albero”).
Nelle
trascrizioni delle interviste i puntini di sospensione vanno usati con
parsimonia. Ove ci può stare un altro segno di punteggiatura, lo si usa. I
puntini di sospensione si usano solo per segnalare una frase incompiuta,
un’assenza rilevante sul piano sintattico. Sempre in numero di tre. Naturalmente se invece segnalano la soppressione di una
parte del testo vanno tra parentesi quadre, come nelle citazioni.
Il
richiamo numerico alla nota a piè di pagina solitamente segue il segno di
punteggiatura, anziché interporsi fra questo e la parola precedente. Ma vi per le norme editoriali di alcune riviste il richiamo alla nota precede il segno di punteggiatura. Sono scelte: l'importante è adottare un criterio e seguire sempre il medesimo.
Secoli,
epoche storiche, correnti estetiche, note musicali richiedono la maiuscola
(“l’Ottocento”, “il Rinascimento”, “l’Espressionismo”, “il Sol”).
Attenzione
agli accenti in fine di parola. Molti monosillabi hanno nella lingua italiana
una doppia grafia (con o senza accento), nel caso in cui sia necessario eliminare
un’ambiguità:
-
“da” (preposizione), “dà” (verbo “dare”, presente indicativo), ma “do” senza
accento,
perché
non c’è ambiguità con altre parole (la nota musicale Do non interferisce,
dovendo
essere
scritta con l’iniziale maiuscola);
-
“si” (pronome riflessivo), “sì” (avverbio affermativo), ma “no” senza accento,
mancando ambiguità con altre parole;
-
“se” (congiunzione), “sé” (pronome personale): “se stessi studiando”, “lo fece da sé".
-
“ne” (avverbio e pronome), “né” (congiunzione): “se ne andò”, “né tu né io”.
Per
altri monosillabi entra invece in gioco l’apostrofo, che indica l'elisione o l’apocope
(caduta di lettera finale), frequente nelle forme verbali imperative: “va bene”
(presente indicativo),
“va’
via” (presente imperativo, abbreviazione di “vai via”); “sta ritto da solo” (indicativo), “sta’
ritto!” (imperativo), etc. "Qual è" non comporta l'apostrofo, perché non si tratta di elisione ma di troncamento. Lo stesso vale per ogni pronome indefinito: ad esempio, "nessun altro" e non "nessun'altro".
La
e può avere l’accento grave (è) o l’ accento acuto (é). Il loro impiego non è intercambiabile:
si usa l’accento acuto per quasi tutte le parole italiane (perché, sé, né, viceré,),
tranne “è” (verbo essere) e suoi composti: “cioè”, esclamazioni come “ahimè”, e
alcuni nomi derivati dal francese (“lacchè”), dall’ebraico (Mosè) o da altri
idiomi stranieri (caffè, etc.).
Attenzione
alla differenza tra accento e apostrofo: “ne prendo un pò” è sbagliato: sta per
“poco”, dunque la grafia corretta è po’, con l’apostrofo.
La
“d” eufonica si aggiunge alle congiunzioni e preposizioni “a”, “e”, “o” solo se
la parola che segue inizia con la medesima vocale: “a Empoli” e “a Como”, ma
“ad Ancona”, o “ed eccezionalmente”.
Per
ogni dubbio relativo all'ortografia si può consultare il DOP, Dizionario di ortografia e pronuncia di Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini e
Piero Fiorelli (Torino, ERI, 1969, con varie edizioni successive), oggi disponibile
anche online nella
versione più aggiornata (www.dizionario.rai.it).
Invento
un paio di frasi che danno conto di alcuni errori comuni:
“Il
TCSBOS (Teatro e Centro Sociale Bolognese Occupato Statale), nasce nel 1850 per
opera del Maestro Direttore Luigi Fafajanni. Essendo dedicato al già Direttore
e Maestro prima di lui Giorgio Chiantalafava scomparso nel 2015, che ne aveva
diretto le scene dal 1315 al 1212, fu intestato al di lui nome. Egli era stato,
uno dei protagonisti...”
Tra
l’altro, avete mai sentito dire a qualcuno – o letto sulle pagine scritte da
qualcuno che sa scrivere – “essi”, e soprattutto “egli”? “Giovannino non sapeva
scrivere: egli infatti usava egli a ogni pie’ sospinto” funziona anche così:
“Giovannino non sapeva scrivere: usava egli a ogni pie’ sospinto”. L’uso dei
due punti consente anche di evitare “infatti” (che in una scrittura
rudimentale, come il gerundio, le congiunzioni e alcune virgole mal poste serve
da cattivo collante). E va bene anche se invece dei due punti ci sta il punto:
“Giovannino non sapeva scrivere. Usava egli a ogni pie’ sospinto”.
Consiglio di usare con estrema parsimonia
“come” per dire “quale” o “quali”, “tra i quali”, “ad esempio”: è brutto ed
equivoco “la musica di clarinettisti come Benny Goodman” giacché può non voler dire,
nelle intenzioni dello scrivente, “la musica di musicisti il cui stile è simile
a (o discende da) quello di”, “che suonano come” Benny Goodman, ma di quei
clarinettisti di cui Goodman è tra i più rilevanti esempi, o altrettanto noti.
Evitate di usare le preposizioni articolate "al", "alla", "allo", "ai", agli", "alle" per segnalare quale strumento suona qualcuno di cui riferite: "ed ecco il clarinettista Benny Goodman accompagnato da Teddy Wilson al pianoforte e Gene Krupa alla batteria" va bene, appunto, per la presentazione di uno spettacolo, altrimenti Benny Goodman suona il clarinetto, non "al" clarinetto. O suona Flying home " "col"clarinetto, non "al" clarinetto.
E, già che ci siamo: una partitura è l'insieme delle parti in una composizione a più voci; uno spartito è la parte di un singolo strumento estratta dalla partitura. Una pagina di musica (e tanto più una trascrizione musicale) non è né una partitura né uno spartito.
Uno stile semplice, si diceva
sopra (a proposito: ogni riferimento ad altri luoghi del testo è periglioso e
induce confusione: meglio evitare, ove possibile, “come già detto”, “si diceva”
o, ben peggio, “come affermato nelle pagine successive”) permette di accorgersi
dei propri errori, a volte celati dai percorsi tortuosi di frasi troppo
aggrovigliate. Se si scrive, ad esempio (invento ancora) “gli spazi destinati
alle prove sono attualmente più numerosi che in passato, permettendo ai giovani
– e ai meno giovani musicisti in erba che vogliono imparare le tecniche del
suonare assieme - di potersi cimentare con gli altri” si cela dietro un lungo e
improbabile inciso un insensato e inutile “permettere [...] di potere”.
L’arzigogolo macchinoso e curvilineo cela pure di un difetto di logica: non
sono “gli spazi” che permettono, ma eventualmente le persone, le istituzioni,
le associazioni che li hanno creati (poi gli “spazi” sono per lo più stanze,
cantine, club o altro. “Spazio”, “contenitore”, “realtà”, “contesto” e simili
vuote e generiche definizioni vanno evitate). Sforzarsi di scrivere in modo
corretto e scorrevole aiuta a meglio riflettere sugli oggetti della propria
indagine, ad accorgersi delle incongruenze, della mancanza di logica, delle
necessità di approfondimento e di aggiustamento della prospettiva.
Ancora sulla scorrevolezza del testo: “La band mutò poi nome in ‘Carminello Fafajanni e le sue
Catene’ dopo l’inserimento del panamense Cateno Chiantalafava detto Catenina
(clarinetto)” contiene sia “poi” che “dopo”, cioè una ripetizione, ed è
inutilmente involuto: assai meglio, e con poca fatica: “dopo l’inserimento del
clarinettista panamense Cateno Chiantalafava detto Catenina il gruppo prese il
nome di ‘Carminello Fafajanni e le sue Catene’”. Con un po’ di attenzione e di
applicazione si riesce a trasformare un testo impresentabile in una tesi
decente.
Queste
note riprendono in parte quelle scritte e pubblicate sul proprio sito docente
dal collega Marco Beghelli.