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Carlo Berti

Associate Professor

Department of Legal Studies

Academic discipline: IUS/01 Private Law

Useful contents

Dispensa studenti lezioni secondo semestre


UNIVERSITA' DI BOLOGNA

SCUOLA DI GIURISPRUDENZA
Corso di laurea magistrale in
Giurisprudenza


Appunti del Corso di
Diritto Civile
Lezioni prof. Carlo BERTI
Secondo Semestre

Lezioni:
1° lezione: L’autonomia contrattuale e il sindacato giudiziale

2° lezione: Le clausole abusive nel Codice del Consumo

3° lezione: L. 192/1998 e D. Lgs. 231/2002

4° lezione: RICONDUZIONE A EQUITA’ DEL RAPPORTO CONTRATTUALE, provvedimento cautelare
5° lezione: clausola ururaria

6°lezione: clausola vessatoria

7° lezione: POTERE INTEGRATIVO DEL GIUDICE NELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE
8° lezione: clausola di mero gradimento













25 febbraio 2015 - 1° lezione: L’autonomia contrattuale e il sindacato giudiziale

Il contratto valorizza l’autonomia contrattuale come sintesi di più dichiarazioni di volontà (ex. artt. 1372 e ss. del Codice Civile). Tuttavia, tale autonomia delle parti non ha carattere assoluto, poiché come dispone l’art. 1374 del Codice Civile, rubricato “Integrazione del contratto”, “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”.
In rapporto all’autonomia contrattuale, il sindacato giudiziale deve essere sollevato da un’espressa richiesta di una delle parti, in virtù del principio dispositivo, cui il giudice deve conformarsi.
La giurisprudenza distingue tra sindacato giudiziale d’ufficio e sindacato giudiziale orientato. Nel sindacato giudiziale d’ufficio, il giudice esercita un potere imperativo a tutela di interessi che preesistono al contratto e dispone d’ufficio in tema di nullità, mentre nel sindacato giudiziale “orientato”, il giudice esercita un potere dispositivo a tutela di interessi disponibili dalle parti e dispone su richiesta delle stesse. Il sindacato giudiziale orientato si definisce tale perché si colloca all’interno dei binari espressi dalla domanda formulata da una delle parti; in caso contrario, il sindacato sarebbe incorretto.
In questo caso, il giudice può pronunciarsi - su richiesta delle parti - in tema di nullità, annullabilità e risoluzione del contratto. Alla luce di quanto appena detto, si potrebbe affermare che il sindacato giudiziale orientato non manifesti il potere espressivo del giudice; ciò è parzialmente corretto: infatti, la nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice e ciò significa che il giudice può sancire la nullità anche in assenza di un’espressa domanda.
L’oggetto del sindacato giudiziale si costituisce di due elementi: il profilo normativo e il profilo sostanziale. Il profilo normativo attiene alla prestazione ossia all’oggetto del contratto: ciò si colloca all’interno di una tradizione giuridica che consente al giudice di esprimere il sindacato giudiziale in merito alla validità e in conformità del dato normativo attraverso un parametro oggettivo (sindacato normativo). Diversamente, il profilo sostanziale attiene all’adeguatezza e congruità della prestazione contrattuale (sindacato sostanziale).
Quando un contraente ha volontariamente assunto una prestazione sperequata non può rifiutarsi di adempiere, né sostenendo che il contratto è nullo, né giustificando il rifiuto ad adempiere, poiché se la prestazione viene dedotta da una clausola valida, essa può essere validamente richiesta. Tuttavia, la prestazione “iniqua di per sé” è giuridicamente irrilevante, perché è precluso al giudice sindacare sulla congruità della prestazione, in quanto il contratto è espressione dell’autonomia contrattuale. Il contenuto può esprimere un contenuto positivo o negativo, ma se una parte contrattuale si impegna nell’esecuzione del contratto, la prestazione è esigibile, salvo in caso di vizi espressamente previsti dalla legge. La prestazione sperequata non sarà, quindi, più esigibile nel caso in cui l’iniquità sia espressiva di una situazione critica o di particolare bisogno.
Il sindacato giudiziale è ammesso in caso di riduzione della penale, ai sensi dell’art. 1384 del Codice Civile, il quale dispone quanto segue: “la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo avuto sempre riguardo all’interesse, che il creditore aveva all’adempimento”.
In questo caso, il giudice non ha un potere invalidante ma equitativo: ossia il giudice non può espungere o aumentare il contenuto della clausola penale prevista dalle parti, ma può solo diminuirla con un intervento creativo d’integrazione dell’atto, sostituendosi al creditore e creando una nuova previsione negoziale.
La penale è una clausola negoziale accessoria che le parti hanno inserito nell’atto contrattuale. La giurisprudenza precedente al 2005 sosteneva che il contenuto della penale era liberamente determinabile dalle parti, con la conseguente facoltà di richiederne la riduzione in sede giudiziale. Successivamente, la Corte di Cassazione Civile, a sezioni unite, con la sentenza 18128 del 13 settembre 2005 ha modificato tale orientamento sulla base di un diverso approccio, che tiene conto anche di nuove norme di disciplina in tema di clausole abusive, nel contratto tra produttore e consumatore, sostenendo che la clausola penale manifestamente eccessiva può essere disposta anche dal giudice d’ufficio.
La Cassazione ha dato un’interpretazione unica e risolutiva del conflitto: in primo luogo ha stabilito che la disciplina prevista dall’art. 1384 del Codice Civile vada a vantaggio di una delle due parti e, in secondo luogo, che il Codice preveda anche la nullità relativa. La Corte precisa che l’intervento del giudice, nella riduzione della penale, deve consistere in un’azione correttiva sotto il profilo causale: ossia, a prescindere dall’impossibilità del giudice di sostituirsi alle parti, deve affermarsi che le parti sono libere di concludere un contratto, pur che perseguano un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Secondo la Cassazione, la valutazione di meritevolezza di tutela deve essere stabilita dal giudice in modo imprescindibile, quindi il potere di ridurre la penale si pone come un limite all’autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un interesse generale. Ne discende quindi che, qualora l’interesse non fosse meritevole di tutela, il contratto sarebbe da ritenersi senza causa, perché privo di un requisito essenziale (vizio genetico).
L’assenza di meritevolezza di tutela può essere sopravvenuta sia in caso di inadempimento parziale, sia in caso di clausola manifestamente eccessiva (vizio sopravvenuto), quindi è più idoneo un potere correttivo del giudice a tutela dell’interesse pubblicistico.
Nel Codice Civile, i poteri correttivi riconosciuti in capo al giudice sono eccezionali, con la conseguenza che l’art. 1384 è una norma speciale, insuscettibile di interpretazione analogica.


4 marzo 2015 – 2° lezione: Le clausole abusive nel Codice del Consumo

L’intervento del giudice, finalizzato alla riduzione della penale, prescinde dalla richiesta delle parti, quindi è un sindacato giudiziale sul merito del contratto.
Il contratto consta di due profili: il profilo formale, oggettivo e sostanziale - ossia i requisiti essenziali del contratto - e il profilo normativo, che attiene al contenuto accessorio del contratto.
Il sindacato giudiziale sul contenuto della clausola penale ex art. 1384 c.c., non ha un effetto invalidante ma un effetto di mera adeguatezza, espressione del potere di equità del giudice.
Il D. Lgs. del 6 settembre 2005, n° 206 o "Codice del Consumo" è una normativa settoriale e di carattere protettivo a tutela del contraente più debole, ossia il consumatore. In questo caso l’intervento giudiziale può essere finalizzato a un effetto invalidante o di adeguatezza delle clausole contrattuali secondo equità. Questo approccio pone una serie di problemi, in particolare su quale elemento dell’autonomia contrattuale possa intervenire il sindacato giudiziale e in che modo sia consentito l’intervento del giudice. La disciplina è sviluppata dagli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo, che risolvono questa problematica con riferimento al rapporto tra professionista e consumatore.
L’art. 33, comma 1, dispone che nel contratto tra professionista e consumatore si considerano clausole vessatorie quelle che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi del contratto, nonostante la buona fede. Il concetto di squilibrio, a cui fa riferimento l’art. 33 del Codice del Consumo, non fa riferimento all’oggetto del contratto in generale, ma alle norme contrattuali autonome che sono contenute nel contratto.
L’art. 34, comma 2, stabilisce che la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’oggetto del contratto, né all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile.
Il sindacato di adeguatezza e congruità consente al giudice di intervenire nell’atto di autonomia contrattuale tanto sull’aspetto regolamentare, quanto sull’aspetto oggettuale.
È fondamentale la distinzione tra cosa attenga al profilo regolamentare del contratto e cosa invece attenga a quello sostanziale. Ad esempio:
1. Se un soggetto conclude un contratto con la Banca per avere in locazione una cassetta di sicurezza di valore non superiore a 100,00 euro e mette nella cassetta di sicurezza beni di valore superiore all’importo pattuito, egli viola l’aspetto oggettuale del contratto ed esonera da responsabilità la Banca.
2. Se un soggetto conclude un contratto di mutuo con la Banca, pattuendo un tasso di interesse iniquo, che costituisce l’oggetto del contratto, il giudice può intervenire sull’aspetto oggettuale del contratto solo quando, conclamata l’iniquità, la determinazione dell’oggetto medesimo o l’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi siano individuati in modo poco chiaro e comprensibile.
Il sindacato di adeguatezza si esercita con rimedi di natura invalidante, ex art. 1418 c.c., e con rimedi di riequilibrio, ai sensi dell’art. 1384 c.c.
L’art. 1384 consente al giudice di sindacare la riduzione equa della penale ma nulla vieta di applicare le norme in tema di Codice del Consumo, qualora il contratto sia concluso tra professionista e consumatore; ciò in virtù dell’art. 1418 del c.c., che stabilisce la nullità del contratto se contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Infatti, l’art. 36, comma 1, del D. Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) stabilisce che le clausole ancillari vessatorie, ex artt. 33 e 34, sono nulle; pertanto le clausole accessorie nulle non invalidano il contratto.
La penale manifestamente eccessiva, ex art. 1384 c.c., può essere ridotta sempre in sede giudiziale da parte del giudice con un effetto di adeguatezza secondo equità. Quando la penale manifestamente eccessiva è parte di un contratto tra professionista e consumatore, il giudice dopo aver accertato lo squilibrio ingiustificato generato dalla clausola abusiva, ha il solo rimedio di dichiarare nulle tali clausole contrattuali. In quest’ultimo caso, se il professionista riesce a giustificare la non manifesta eccessività della clausola penale, come frutto di un accordo negoziale tra le parti ovvero il giudice non riesce a dimostrare il significativo squilibrio della clausola vessatoria, non è ammessa la nullità o l’effetto invalidante della clausola abusiva.
L’oggetto del contratto, se è chiaro e comprensibile, non sarà sottoposto a sindacato invalidante da parte del giudice, ex art. 34, comma 2 del Codice del Consumo.
Il Codice Civile favorisce l’autonomia contrattuale e prevede che anche se l’oggetto del contratto è oscuro, il contratto non sia automaticamente nullo; mentre, nel Codice del Consumo, la trasparenza e la chiarezza del contratto sono norme imperative e, secondo questa interpretazione, il contratto tra professionista e consumatore con oggetto oscuro può considerarsi automaticamente nullo per violazione di norma imperativa, ai sensi dell’art. 34 Codice del Consumo.





18 marzo 2015 - 3° lezione: L. 192/1998 e D. Lgs. 231/2002

La L. 192/1998 introduce nell’ordinamento una nuova figura contrattuale, ovvero il contratto di subfornitura, definito all’art. 1:
1. Con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente.

Si tratta di una legge settoriale con un regime protettivo a tutela del contraente debole, che riconosce alcune garanzie a favore del subfornitore.
L’art. 9 della legge evoca contenuti negoziali già affrontati nel Codice del Consumo, ossia la norma relativa al significativo squilibrio riferito a un rapporto esistente tra professionista e consumatore: ma in questo caso siamo di fronte a un rapporto contrattuale tra imprenditori, per cui non è vietata la dipendenza economica ma ne viene stigmatizzato l’abuso.
La dipendenza economica viene trattata e valorizzata nel Codice Civile con riferimento alle norme sulla rescissione contrattuale; in tutti gli altri casi, il profilo della dipendenza economica è irrilevante nella disciplina contrattuale, che invece si basa sul principio liberale dell’autonomia contrattuale.
L’art. 9 regola un’ipotesi di comportamento non espresso dal nostro Codice Civile, che si aggiunge ai doveri di comportamento previsti dalla disciplina codicistica. Il concetto di abuso di dipendenza economica evoca un connesso abuso del diritto e una violazione della buona fede contrattuale. La categoria dell’abuso del diritto non è disciplinata dal Codice Civile, poiché secondo il legislatore rientrava già nella violazione della buona fede: la scelta di valorizzare la buona fede rispetto all’abuso del diritto si giustifica con il fatto che la buona fede è un dovere di comportamento alla base di qualsiasi rapporto obbligatorio, mentre l’abuso del diritto è un comportamento antigiuridico che si basa sull’astrattezza del diritto soggettivo.
La buona fede impone l’esistenza di un rapporto obbligatorio, scelta motivata dal legislatore nella logica di valorizzare il profilo causale, mentre l’abuso del diritto presuppone una titolarità del diritto ma non l’esistenza di un rapporto obbligatorio.
L’art. 9 evoca un controllo giudiziale in presenza di un comportamento che si caratterizza per l’abuso del diritto: tali comportamenti vietati possono considerarsi una violazione della buona fede se alla base sussiste un rapporto obbligatorio.
L’art. 9 della legge 192/1998 sancisce la nullità, “il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica è nullo”: il rimedio non è di carattere meramente inibitorio, ma invalidante. Questo rimedio rende la disciplina protettiva: le conseguenze della nullità, con riferimento al rapporto tra giudice e autonomia contrattuale, comportano un sindacato sulle iniquità del rapporto economico.
Questa norma lega alla dipendenza economica l’autonomia contrattuale, consentendo quindi un sindacato giudiziale non solo in tema di invalidità di fatto, ma anche in tema di iniquità/abusività del rapporto economico (aspetto significativo di questa disciplina). Se l’abuso di dipendenza economica si traduce in una previsione negoziale, tale previsione è oggetto di sindacato di nullità d’ufficio da parte del giudice: le novità di questa disciplina sono che il sindacato è orientato alla nullità di un determinato comportamento in un rapporto negoziale e orienta le scelte imprenditoriali. Il giudice può quindi imporre all’imprenditore sia di astenersi - invalidando il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di dipendenza economica (contenuto omissivo) -, sia di proporre condizioni contrattuali non inique secondo buona fede - intesa come obbligo imperativo e attuativo -.
In caso di rapporto sperequato di dipendenza economica si può ricorrere quindi alla categoria generale della buona fede - ispirata al principio di solidarietà e cooperazione - perché siamo di fatto di fronte a un rapporto obbligatorio; in questo caso si giustifica un intervento del giudice attivo o performativo, che investe le parti del dovere di rivedere le condizioni contrattuali.
Tuttavia, sorgono dei problemi di tipo interpretativo/applicativo tra la L. 192/1998 intesa come legge settoriale - concernente il rapporto di subfornitura - e l’art. 9 avente invece portata generale. L’interpretazione prevalente è volta ad estendere l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 9 a tutte le relazioni imprenditoriali.
Il decreto legislativo n. 231/2002, in attuazione di una direttiva comunitaria, disciplina la lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il concetto di “transazione commerciale” è definito all’art. 2, comma 1 lett. A): “sono i contratti, comunque denominati, tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi, contro il pagamento di un prezzo”.
La disciplina del D. Lgs. n. 231/2002 comporta un equilibrio creditorio, giacché da un lato pone delle garanzie e tutele a vantaggio dell’imprenditore, imponendo al debitore un pagamento tempestivo; dall’altro stabilisce delle tutele a favore del debitore che consistono nel non rendere questo rapporto eccessivamente squilibrato o ingiustificatamente iniquo.
Per soddisfare questa esigenza, il comma 1 dell’art. 7 del decreto del 2002 introduce il concetto di inquità:
Le clausole relative al termine di pagamento al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore. Si applicano gli artt. 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile.

In questo caso il significativo squilibrio valorizza il piano creditorio, prevedendo che se la clausola relativa al termine di pagamento è iniqua e in danno al creditore, essa è nulla. Il regime di nullità introdotto da questa disciplina è un regime di carattere protettivo a favore della parte creditoria: in particolare, il concetto di grave iniquità è definito come grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza (ex art. 7, comma 2).
L’art. 7, comma 3 dispone “si considera gravemente iniqua la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora e non è ammessa la prova contraria”: in questo caso il giudice può intervenire d’ufficio attuando un intervenendo invalidante di carattere creativo. Infatti, l’intervento correttivo del giudice si realizza attraverso il ricorso agli articoli 1339 - in tema di inserzione automatica di clausole - e 1419, secondo comma - in tema di nullità parziale-, del codice civile. L’art. 1339 c.c. stabilisce che le clausole imposte dalla legge sono di diritto inserite nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti. L’art. 1419 comma 2 c.c. stabilisce che la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle siano sostituite di diritto da norme imperative.
La prima disciplina consente un riequilibrio negoziale a favore del soggetto debole che subisce l’abuso di dipendenza economica, mentre la seconda disciplina consente un riequilibrio negoziale a favore delle aspettative di tutela della parte creditoria, ma entrambe sono finalizzate al riequilibrio contrattuale.










Lezione n.4 – 25/03/2015
RICONDUZIONE A EQUITA’ DEL RAPPORTO CONTRATTUALE – PROVVEDIMENTO CAUTELARE

I provvedimenti cautelari sono provvedimenti giurisdizionali diretti a garantire l’effettività della tutela dichiarativa in quanto volti ad evitare che la durata del processo civile di cognizione possa arrecare un pregiudizio all’attore titolare del diritto soggettivo bisognoso di tutela.Il provvedimento cautelare è uno degli strumenti che possono essere utilizzati dal giudice per ricondurre a equità il rapporto contrattuale.
Il giudice crea il provvedimento in relazione alla possibilità della pretesa di poter essere cautelata; il procedimento ha natura provvisoria e temporanea e non tutto ciò che può essere adottato tramite sentenza può anche essere adottato tramite cautelare.
Per garantire l’ammissibilità del rimedio cautelare è necessaria una valutazione astratta – quindi non attinente al merito - condotta dal giudice ex antecirca l’esistenza delle condizioni dell’azione; la domanda si ritiene inammissibile quando ha ad oggetto una prestazione impossibile (il petitum è impossibile).
I casi in cui il giudice può intervenire ponendo in essere un sindacato di adeguatezza possono risultare particolarmente complicati sotto il profilo sostanziale, a causa del loro carattere integrativo volto a modificare le condizioni contrattuali originarie.
Di norma l’intervento del giudice incide sulle clausole vessatorie e accessorie che non attengono direttamente all’oggetto del contratto o qualora riscontri ambiguità nella determinazione dell’oggetto stesso. Nei casi in cui il sindacato debba riguardare anche la causa, il giudice ha la facoltà di rinegoziare le condizioni contrattuali modificando il contenuto delle prestazioni originariamente pattuite.
Per quanto attiene ilprofilo formale, la rinegoziazione presuppone la necessità di un nuovo consenso manifestato dalle parti; a tal fine può valere come titolo un accordo o un obbligo a contrarre.

Le fonti dell’obbligo di rinegoziare per ricondurre a equità il contratto sono:
• Volontà delle parti: una parte manifesta l’esigenza di rinegoziare il contratto per ragioni irrilevanti per il diritto. Nel caso in cui l’altra parte non accetti si prospetta il caso di abuso di dipendenza economica;
• Sopravvenienze di carattere imprevedibile (es. contratto diventato eccessivamente oneroso): la parte che trarrebbe vantaggio dalla nuova circostanza si offre o accetta di risolvere o rinegoziare il contratto. L’eccessiva onerosità sopravvenuta è un vizio che attiene alla causa.
Altri casi in cui il contratto è suscettibile di rinegoziazione (solo in presenza di un titolo che lo giustifichi) sono:
i. obbligo a contrarre del monopolista (art. 2597 cc): l’obbligo deve avere un contenuto autosufficiente e una sua specificità e riguardare il bene oggetto del monopolio;
ii. obbligo a contrarre per contratto (art. 2932 cc: esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto): il presupposto è un contratto preliminare dotato di tutti i requisiti. Nel caso di inadempimento dell'obbligo di stipulare (entro il termine previsto) la legge prevede che il contraente non inadempiente possa domandare al giudice l'emissione di una pronunzia che tenga luogo del contratto non concluso;
iii. abuso di diritto;
iv. violazione del dovere di buona fede: tale dovere è diventato il rimedio di qualsiasi pretesa che non possa avere un titolo diverso.

Trib. Bari, ord. 14.06.2011, Pres. Scoditti
L’ordinanza di seguito allegata prende in esame la problematica della revisione del contratto, ponendo l’attenzione sul tema dell’obbligo di adeguamento e rinegoziazione di questo, qualora emerga un problema di adeguamento delle clausole contrattuali generato da un mutamento rilevante della situazione di fatto originaria.
L’intervento del giudice volto ala revisione del contratto si sostanzia in una valutazionedelle circostanze di fatto e delle condotte rilevanti alla luce di criteri di correttezza e buona fede, così come espressi negli artt. 1366 e 1375 c.c, all’equità integrativa (art. 1374 c.c.) e a doveri improntati all’art.2 della Cost.

Nel caso in esame, a seguito del cambiamento di circostanze imprevedibili che condizionano le modalità di erogazione di un mutuo, la banca rifiuta di rinegoziare le clausole originarie del contratto.
Il ricorrente, tramite domanda cautelare, chiede la tutela in forma specifica del suo diritto e in particolarel’ordine, rivolto alla banca,di perfezionare ed effettuare l’erogazione del saldo; quest’ultima eccepisce l’inammissibilità del ricorso che ha ad oggetto unfacere infungibile.


Tuttavia, dall’art. 614 bis c.p.c (attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare) si desume che gli obblighi di fare infungibile sono suscettibili di esecuzione forzata anche se oggetto di un provvedimento di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.

La domanda del ricorrente viene accolta dal giudice in quanto il rifiuto della banca di adeguare il contratto è contrario alla buona fede che rappresenta qui la fonte legale dell’obbligo di rinegoziare posto in favore del contraente che non sia inadempiente ai propri obblighi.
La rinegoziazione non si configura come un limite all’autonomia privata ma persegue la realizzazione del risultato contrattuale originariamente pattuito dalle parti in modo da garantire la conservazione del negozio che si fonda su una logica cooperativa e relazionale.

“In base alla clausola generale di buona fede sussiste l’obbligo di rinegoziare il contenuto del contratto, in presenza di un mutamento rilevante della situazione di fatto o di diritto, rispetto a quella contemplata dal regolamento originario, potendo il giudice, in caso di inadempimento dell’obbligo, costituire con sentenza gli effetti del contratto modificativo che sarebbe risultato all’esito della rinegoziazione condotta secondo buona fede o, nell’ambito di un procedimento cautelare, condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione cui la parte sarebbe tenuta in forza della rinegoziazione, e corroborare la condanna mediante una penale giudiziale”.

Il provvedimento ha attitudine conservativa, cioè conserva il contratto alle condizioni originariamente pattuite e garantisce la permanenza della medesima causa che aveva costituito la ragione della negoziazione. Il contenuto dell’obbligo a contrarre deve avere carattere autosufficiente – un titolo che ne giustifichi l’esistenza – e, qualora consista in un ordine di rinegoziare, la difficoltà di dare esecuzione a questo ordine non lo rende inammissibile ma solamente difficilmente eseguibile.
Infine, il provvedimento cautelare non ha un contenuto costitutivo poiché la tutela d’urgenza non è orientata alla costituzione di un rapporto giuridico – solo la sentenza può produrre gli effetti di un contratto non concluso – ma all’esecuzione coattiva dell’obbligo di adeguamento.
Alla parte inadempiente, che non dà esecuzione al provvedimento cautelare, puòessere applicata la penale (sanzione pecuniaria, indiretta) ex. art. 614 bis c.p.c. (nel dispositivo va fissata la somma per il ritardo nell’esecuzione del provvedimento e le spese seguono il criterio della soccombenza).

Il rimedio posto dall’art. 2932 c.c.(esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto) consiste in una esecuzione in forma specifica (in vito domino) esperibile in presenza sia di un obbligo negoziale che di un obbligo di fonte legale, con la sola differenza che per quest’ultimo il criterio dirimente risiede nella possibilità giuridica e materiale del provvedimento giudiziale..

P.Q.M
Visti gli artt. 614 bis, 669 octies e 700 c.p.c. ;
“ordina a Banco di Napoli s.p.a. di corrispondere a masseria Cervarolo s.r.l. l’importo a saldo del contratto di mutuo di cui al ricorso nel termine di giorni quindici dalla comunicazione della presente ordinanza, con la facoltà, avvenendo l’erogazione successivamente alla prima scadenza di ammortamento, di trattenere la quota di capitale teorica scaduta dall’erogazione a farsi procedendo al ricalcolo in riduzione dell’agevolazione in conto interessi – spettante a titolo definitivo – sulla base degli importi e delle date di effettiva erogazione; fissa per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento la somma dovuta dall’obbligato della misura di euro1.000,00 al giorno”.



Lezione n 5 . – 1/ 04/2015 CLAUSOLA USURARIA

Ai fini dell'applicazione dell'art. 644 c.p., che contempla il delitto di usura, e dell'art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori.
Se sono dovuti interessi usurari, la clausola è nulla e viene sostituita automaticamente dalla disciplina legale. Si tratta di nullità:
• relativa: quando la clausola è posta nell’interesse e a vantaggio di una sola delle parti (nel contratto di mutuo, la clausola usuraria, se prevista, viene sostituita di diritto ex art. 1815 c.c.e il contratto diventa a titolo gratuito, non essendo dovuti interessi);
• parziale: non coinvolge l’intero contratto ma solo la singola clausola usuraria;

Si incorre in nullità sopravvenuta qualora il tasso di interesse diventi usurario dopo la conclusione del contratto; in caso di iniquità intervenuta in un momento successivo si può validamente esperire il rimedio della nullità o di eccessiva onerosità sopravvenuta (no rescissione).

L’Art. 1194 c.c. sancisce la regola generale in base alla quale il pagamento si deve imputare in un primo momento agli interessi e successivamente al capitale poiché, in caso contrario, si incorrerebbe nell’estinzione della maturazione degli interessi stessi.
La presenza di una clausola usuraria determina di per sé uno squilibrio contrattuale che è diretta conseguenza dello stato di bisogno in cui versa una delle parti al momento della conclusione del contratto (art. 1447 c.c.).
La valutazione sulla usurarietà è rapportata a un paradigma di carattere normativo mentre il vaglio sull’iniquità attiene ad una valutazione in concreto, che tiene in considerazione la natura del contratto, delle parti e del finanziamento erogato.

Rimedi:
-invalidante generale: l’art. 1448 c.c. prevede un’azione generale di rescissione nei casi in cui la sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra dipenda dallo stato di bisogno in cui versa una parte e della quale l’altra abbia approfittato.
-invalidante relativo: se prevista, la clausola ritenuta usuraria viene sostituita di diritto ex art. 1815 c.c.
-risolutorio: in caso di eccessiva onerosità sopravvenuta (fattore straordinario e imprevedibile) o di violazione del dovere di buona fede.


Sentenza n. 350/2013 - Cassazione civile sez. n.1
Nel caso di specie (mutuo per l’acquisto della prima casa) il ricorrente si era limitato ad invocare la natura usuraria degli interessi pattuiti senza indicarne le ragioni in fatto e in diritto.
La presenza di una clausola usuraria determina una nullità relativa, che come tale può essere rilevata d’ufficio solo se prospettata e argomentata dalla parte.


Lezione n. 6 – 08/04/2015 CLAUSOLE VESSATORIE

Art. 33 ss. Codice del consumo ? introduce una nuova figura di nullità in presenza di una clausola che provochi un eccessivo squilibrio tra consumatore e professionista (nullità relativa e rilevabile d’ufficio).
La disciplina del codice del consumo si estende a tutti i tipi di contratto tra professionista e consumatore.
Nel caso in cui ci si riferisca a un contratto stipulato tra professionista e consumatore che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto (art. 33 c. consumo).

La clausola, nonostante determini un eccesivo squilibrio, si ritiene valida se è stata oggetto di:

- approvazione per iscritto: la disciplina sulle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti stabilisce che tali condizioni sono efficaci nei confronti dell'altro, solo se al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l'ordinaria diligenza (art. 1341 c.c.). In ogni caso, le clausole vessatorie non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto (altrimenti manca un requisito di forma e l’adesione è inefficace).

-trattativa individuale: le clausole vessatorie ex art. 33 c. consumo non possono essere oggetto di sindacato di vessatorietà se sono state approvate tramite trattativa individuale.
L’art. 33 c. consumo:
• Comma 1: si “considerano” vessatorie: si “considerano” introduce un regime probatorio ordinario a carico del consumatore che deve dimostrare che tale clausola genera un significativo squilibrio; sindacato di squilibrio normativo in cui la valutazione è in chiave oggettiva nonostante la buona fede e gli intendimenti delle parti;
• Comma 2: si “presumono” vessatorie fino a prova contraria: presunzione che giova al consumatore perché è il professionista che deve dimostrare che la clausola non genera squilibrio o che introduce le eccezioni; la presunzione è di carattere relativo nel senso che può sempre essere vinta dal professionista.
Quando si ha presunzione relativa il professionista può provare che:
- la clausola non genera squilibrio significativo;
- la clausola, pur generando un significativo squilibrio, è stata oggetto di trattativa individuale;
- la clausola risponde alla necessità di conformarsi a una convenzione internazionale o norma imperativa

L’art. 36 del codice del consumo invece introduce una presunzione assoluta elencando, al comma 2, i casi in cui il contenuto della clausola è oggettivamente vessatorio o iniquo.
Il sindacato di inadeguatezza deve essere condotto dal giudice in concreto (art. 34 c. consumo): la vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende. In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l'interpretazione più favorevole al consumatore. La dipendenza negoziale è condizione necessaria per accertare l’abusività o vessatorietà di una clausola.
Fasi della valutazione da parte del giudice:
i. giudizio di vessatorietà (valutazione sulla nullità);
ii. valutazione circa l’utilità o meno della eliminazione della clausola dal contratto;
iii. valutazione sugli interessi
Le clausole considerate vessatorie sono inefficaci, mentre il contratto rimane efficace per la restante parte.
Se il prezzo è espresso in moneta chiara e comprensibile tenendo conto di tutte le sue componenti, la clausola che ne contiene la determinazione non può essere soggetta a sindacato; qualora sia espresso in maniera poco chiara e poco comprensibile è consentito il sindacato di iniquità o, laddove sia oscuro, il contratto si considera nullo per indeterminatezza dell’oggetto.
Anche se l’oscurità può essere vinta, ciò non impedisce al giudice di esprimere un sindacato di iniquità sull’oggetto stesso.

Sentenza n. 63331/15 – Cassazione civile, sez. n.6
La pronuncia del giudice ha ad oggetto una clausola contrattuale che prevede competenza territoriale diversa da quella del luogo dove il consumatore risiede. Nel caso di clausola che stabilisce il foro competente davanti al giudice in cui ha sede l’azienda, il giudice deve compiere una valutazione sulla nullità e sull’esistenza di un interesse.

Dalla sentenza si evince che qualora non ci sia corrispondenza tra domicilio (centro degli interessi economici) e residenza effettiva/sostanziale (dimora abituale), si debba far riferimento alla seconda.
Inoltre, l’art. 33 del codice del consumo, in tema di controversie tra consumatore e professionista, va interpretato alla luce della constatazione che la residenza del consumatore è quella che lo stesso ha al momento della domanda (instaurazione del giudizio) e non nel momento della conclusione del contratto.





Lezione n 7 - 15/04/15 POTERE INTEGRATIVO DEL GIUDICE NELL’AUTONOMIA CONTRATTUALE

Il Potere del giudice e' di carattere integrativo rispetto all'autonomia delle parti, generalmente attraverso l’equità, orientata a ricondurre a una negoziazione equitativa il profilo normativo.
In questo caso il sindacato equitativo e' in riferimento all'oggetto per cui, invece che sindacato equitativo, e' un sindacato che consente di stabilire l'oggetto del contratto.
La questione affrontata riguarda un contratto di appalto dove il prezzo non è indicato in maniera specifica. Il Criterio tipico previsto per la determinazione del prezzo del contratto di appalto è regolato da art 1657 cc.

1657. Determinazione del corrispettivo. Se le parti non hanno determinato la misura del corrispettivo né hanno stabilito il modo di determinarla, essa è calcolata con riferimento alle tariffe esistenti o agli usi; in mancanza, è determinata dal giudice.

Se le parti hanno stabilito il prezzo è lasciato quello da loro stabilito, altrimenti si applicano usi e tariffe. In extremis lo stabilisce il giudice, ma non in modo equitativo, viene calcolata con riferimento alle tariffe o agli usi, in mancanza di determinatezza o determinabilita' totale del prezzo. Si valorizza il profilo istituzionale dell'oggetto che è determinato quando stabilito dalle parti, determinabile quando possa essere stabilito sulla base di usi contrattuali/tariffe. Il prezzo non concorre all'individuazione dell'oggetto.
Tutti i contratti che abbiano per oggetto un facere sono contratti nei quali il giudice ha poteri discrezionali nel determinare il prezzo in quanto non ci sono regole alle quali fare riferimento. La determinazione del prezzo fatta dal giudice e' difficilmente sindacabile se non ci sono regole univoche alle quali fare riferimento. Se ci si riferisce all'equità, questa deve essere ragionevole, qui invece non viene citata nemmeno l'equità, così da rendere ancora più insindacabile la decisione del giudice . L'articolo 1657cc configura una disciplina di carattere eccezionale in quanto deroga ad un principio generale (1346cc). Anche nella compravendita, se il prezzo non è stabilito, si può fare riferimento per i beni che vengono venduti al prezzo generalmente praticato. Spesso il problema sorge perché non si sa se applicare la disciplina dell'articolo 1657cc oppure altra disciplina.

Ad esempio nel caso di contratto di appalto dove è cambiato in parte l'oggetto convenuto originario, nel caso in cui sorga l'esigenza di realizzare opere non determinate nel contratto di partenza ,la disciplina quale è? Se è opera nuova il giudice può stabilire il prezzo sulla base dell'articolo 1657cc , altrimenti, se l'opera è variazione di quella originale, si fa riferimento all'articolo 1661 cc, purché la variazione non superi il sesto del prezzo originariamente convenuto. Se la variazione e' superiore al sesto allora l'appaltatore può rifiutarsi di eseguire l'opera. Se però non si rifiuta di eseguire l'opera, quest’ultima deve essere pagata o no? E se pagata , come si determina il prezzo? Il committente ha interesse a giustificare che tutte le varianti vengano ricondotte nell'ambito dell'originario contratto,mentre l'appaltatore ha interesse a rendere quella variazione oggetto di un nuovo contratto. È rilevante stabilire se l'opera in più è oggetto di un contratto diverso (e quindi di una nuova disciplina ), oppure dello stesso contratto con la stessa disciplina.
Possono sorgere problemi in relazione all'individuazione di un nuovo contratto nel caso in cui la variazione superi il sesto.
Dato che il prezzo non è oggetto del contratto può anche non essere stabilito e non necessitare del consenso delle parti, per cui è sempre sindacabile così come l'opera dell'appaltatore. La conflittualità nel contratto di appalto è dovuta proprio a queste circostanze, cioè al fatto che il prezzo non è stabilito per cui alla fine ci possono essere contestazioni. L'esigenza dell'articolo 1657 cc e' quella di evitare un ingiustificato arricchimento del committente, se il committente rifiuta di pagare l'opera ,sostenendo egli che non era oggetto del contratto. Ma il contratto di appalto non consente l'azione di ingiustificato arricchimento perché deve essere messa in atto come azione generale e sussidiaria solo quando il contratto venga dichiarato nullo. Ma qui il contratto e' valido.

La sentenza della Cassazione numero 19413/2014
Il caso in esame riguarda un contratto di appalto dove le modalità di determinazione del prezzo risultano dubbie.
Inizialmente la Corte di appello di Venezia non aveva consentito l'ingresso di elementi richiesti dalle parti per la pattuizione del prezzo.
Le parti non avevano adottato le modalità previste all'interno del contratto per la determinazione del corrispettivo, cioè la misurazione del medesimo in contraddittorio. Allora ,visto che il prezzo non è stato stabilito in contraddittorio, l'articolo 1657cc non può essere applicato, attribuendo così al giudice la possibilità di procedere alla determinazione del prezzo. Il giudice può stabilire il prezzo nel caso in cui le parti non l'abbiano stabilito, viceversa ,se l'hanno stabilito, non può intervenire. Dire "il prezzo verrà stabilito in contraddittorio" significa enunciare una modalità successiva di determinazione del corrispettivo, ma poiché le parti non hanno seguito il criterio, allora il prezzo non è determinato, né determinabile attualmente. Questo giustifica l'intervento del giudice.
Il giudice, se accerta che non esiste il prezzo determinato e non esiste un criterio per stabilire il prezzo che non è determinato nè determinabile, in questo caso nomina un consulente tecnico d'ufficio che è un mezzo di prova, l'unico che gli consenta di determinare il prezzo.( In realtà, in generale, si ritiene che il consulente tecnico d'ufficio non sia un mezzo di prova ma uno strumento del giudice per eseguire un accertamento.)
Qui c'è una chiara eccezione al generale principio per cui sono le parti a dover fornire la prova.
Quindi la Cassazione stabilisce che il prezzo viene determinato dal giudice sulla base della consulenza tecnica d'ufficio.
Ma a chi deve essere imputata la responsabilità della mancata avverazione del contraddittorio? Il soggetto che viola la causa incorre in una responsabilità contrattuale per inadempimento, a meno che la clausola sia nulla.
In questo caso il sindacato giudiziale che spetta al giudice non è di equità, non è finalizzato a ricondurre a equità il rapporto o a riequilibrare il rapporto contrattuale. È un sindacato finalizzato a colmare la lacuna contrattuale per consentire all'autonomia delle parti di trovare la piena esplicazione. Si tratta quindi di un sindacato orientato alla convalida del contratto che altrimenti non sarebbe valido.

In conclusione, ci sono tre categorie di interventi che il giudice può esercitare d'ufficio non condizionati alla richiesta delle parti:

1. potere invalidante (nullità che può essere rilevata d'ufficio dal giudice) se la clausola e' contraria a norma di carattere imperativo

2. Potere di riequilibrio del rapporto contrattuale (codice del consumo, rinegoziazione del rapporto contrattuale, abuso di dipendenza economica, nullità clausole inique/vessatorie) valutazione di natura protettiva per tutelare la parte danneggiata dal rapporto contrattuale

3. Potere integrativo, generalmente attinente al profilo regolamentare, alle clausole normative del rapporto contrattuale, il giudice interviene sulle clausole che disciplinano il rapporto e impone alle parti obblighi che inizialmente non erano stati imposti. In alcuni casi il potere integrativo attiene all'oggetto del contratto. ci sono vari casi: disciplina delle clausole abusive, quando l'oggetto è oscuro. È un Potere del giudice di carattere creativo e non invalidante.





Lezione n8 - 22/04/15 CLAUSOLA DI MERO GRADIMENTO

Alcune volte il giudice interviene esercitando un intervento di carattere autoritativo, eteronomo, quando dichiara nulla la clausola o quando la elimina perché illegale. Si tratta di un intervento del giudice articolato.
In particolare l’ Articolo 1374 cc individua l’ equità tra le fonti di integrazione del contratto:

?Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità.

Questa equità e' di carattere integrativo, quale è il rapporto rispetto all'altra equità? Il giudizio che il giudice esprime esercitando equità e' basato sull'esigenza di salvaguardare l'equilibrio contrattuale, esigenza avvertita sotto un profilo oggettivo, imperativo. L'esigenza non è di carattere integrativo, ma è primaria,cioè fonda l'atto di autonomia contrattuale, integra in via principale il contenuto contrattuale. L’intervento del giudice non esprime la reale volontà delle parti, ma realizza un interesse di rango pubblicistico. Per l'articolo 1374cc l'equità entra in gioco quando non ci può essere nient'altro che disciplini quel rapporto. Evoca l’intervento del giudice in difetto di leggi che potrebbero specificare altrimenti quel rapporto contrattuale. L'intervento del giudice attiene al profilo di carattere regolamentare. La buona fede è un clausola generale e norma imperativa,perciò prevale sempre sull’equità,che assume cosi carattere residuale.

Sentenza della Cassazione numero 11311 del 2007
Il caso in questione riguarda la validità di una clausola di uno statuto di una società (documento che regolamenta la società). Le clausole di gradimento possono essere inserite nello statuto, sono quelle che condizionano il trasferimento delle quote della società al gradimento dell'organo amministrativo. Quando un socio vuole cedere la partecipazione ad un terzo deve ottenere il gradimento del consiglio di amministrazione. Il gradimento può essere motivato o mero gradimento (immotivato).
Le clausole di gradimento sono previste negli statuti di società dove prevale l'elemento personale, soprattutto nella società a responsabilità limitata e società cooperative (Prevale qui l'elemento personale perché ci sono quote).
Nel caso in cui venga trasferita la quota senza il consenso del consiglio di amministrazione, è valido il trasferimento ma è inopponibile alla società. Infatti il soggetto a cui viene trasferita la quota non può esercitare il diritto di voto. Ci si è posti il problema della validità della clausola di gradimento e soprattutto di mero gradimento.
Nel caso affrontato viene dedotta l'invalidità di una clausola di mero gradimento in una società cooperativa edificatrice. Un socio trasferisce la quota senza consenso del consiglio di amministrazione, quindi questi impugna il provvedimento che nega il trasferimento affermando che la clausola di mero gradimento potrebbe essere nulla. Allo statuto potrebbero essere applicate le regole della nullità, perché la categoria della nullità si estende anche allo statuto in quanto e' un contratto (particolare perché plurilaterale con comunione di scopo). La clausola è espressione di questo contratto per cui anche ad essa potranno essere applicate le consuete categorie di invalidità.

Profili di invalidità nel caso in cui la clausola sia contraria a norme imperative:

1. La condizione per l'efficacia del trasferimento è meramente potestativa.

Art 1355cc : ‘’ Condizione meramente potestativa. È nulla l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell'alienante o, rispettivamente, da quella del debitore.’’
La clausola di mero gradimento subordina il trasferimento della quota al gradimento del consiglio di amministrazione. Questa non è condizione meramente potestativa perché il contratto è valido, non c'è inefficacia. La clausola e' terza rispetto a quel contratto, per cui non può condizionare la validità del medesimo, ma solo l'efficacia dell'atto dispositivo che ,in questo caso, è pienamente efficace.

2. Ipotesi di inesistenza della causa che giustifica la clausola di mero gradimento
In questo caso la clausola realizza un interesse meritevole di tutela, cioè esercitare controllo sulle persone che entrano ed escono dalla società) ,essendo un tipo di controllo essenziale per alcune società, in particolare per quelle di persona, dove la compagine sociale è essenziale . È un controllo che non deve essere oggetto di apprezzamento sotto il profilo causale. Il mero gradimento espresso dal consiglio di amministrazione e' attuazione del rapporto obbligatorio regolato dallo statuto e non deve essere motivato. L'interesse e' quello di mantenere la compagine iniziale.

3. Limitazione della libertà contrattuale (articolo 1322cc e articolo 41 cost, cioè libertà di iniziativa economica privata).
Questo atto non limita la libertà contrattuale del socio. Limiterebbe solo la libertà contrattuale dell'acquirente, il quale non è obbligato a procedere all’acquisto o , se lo fa, si assumerebbe il rischio che dalla quota acquisita non possa esercitare i relativi diritti.
Molto spesso la clausola di gradimento viene sostituita dalla clausola di sterilizzazione con la quale l'acquirente acquista una quota’’sterilizzata’’ dai relativi diritti societari.
Nella fase precontrattuale è tutelato l'affidamento, per questo è meglio non motivare, ma piuttosto essere reticenti. L'attività gestoria , fra cui rientra la possibilità di accettare o no la cessione della quota , non deve essere motivata.

La sentenza della cassazione ricava la validità della clausola valorizzando il profilo del rapporto personale , valorizzato nelle società cooperative dove vige il principio una testa un voto.




LAVORO ESEGUITO DA:

Lezioni 1,2,3:
Eva BORTOLETTO
Selena CORAPI
Sara FARISELLI
Laura GRAMMATICO
Leandra ROMANO

Lezioni 4,5,6:
Carlotta Benini
Giulia Acampora
Chiara Bevilacqua
Martina Bolognesi
Anna Fabbri

Lezioni 7,8:
Chiara De Lorenzi
Carlotta Castellani
Laura Gentili
Giada Bartolini