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Stefano Besoli

Professore ordinario

Dipartimento di Filosofia

Settore scientifico disciplinare: M-FIL/01 FILOSOFIA TEORETICA

Contenuti utili

Argomenti trattati nella terza settimana del corso di Filosofia teoretica (16-18 febbraio)

1) L’uso del termine sensazione fatto da Locke, unitamente agli esempi di idee sensibili di cui egli si serve [Locke parla dell’idea del giallo, del bianco, del caldo, del freddo, del morbido, del duro dell’amaro, del dolce, ovvero di idee di qualità sensibili] non ci devono ingannare circa la portata e il raggio di azione da lui assegnato a questa fonte delle idee. Le idee di sensazione in precedenza menzionate non sono per Locke più immediate di quelle idee di spazio, di estensione, di quiete (riposo) e di movimento, che egli ritiene esserci direttamente fornite da più sensi (essenzialmente dalla vista e dal tatto). Nel contempo anche l’esistenza e l’unità sono idee che vengono suggerite all’intelletto da ogni oggetto esterno, così come da ogni idea interna, ovvero tanto dalla sensazione come dalla riflessione. Infatti, quando ci sono idee nel nostro spirito, noi crediamo che esse ci siano effettivamente, allo stesso modo in cui crediamo che ci siano effettivamente le cose fuori di noi: vale a dire che esse abbiano un’effettiva esistenza. Inoltre, tutto ciò che possiamo considerare come una cosa sola, che si tratti di un essere reale o di un’idea, suggerisce all’intelletto l’idea di unità. Tutto questo serve a mostrare come Locke sia lungi dal professare di derivare tutte le nostre idee dai dati della sensazione, così come li concepiamo nel senso moderno del termine.
2) Questi dati originali dell’esperienza non devono essere identificati con delle mere modificazioni soggettive o come apprensioni di un contenuto logico separato dalla realtà. Essi infatti sono considerati da Locke come rivelazioni o apparizioni alla mente di esistenze reali. E cioè, le idee di sensazione sono idee di qualità di cose materiali, mentre le idee di riflessione sono – similmente – idee delle operazioni della nostra mente. Se ci volgiamo dalla natura delle nostre idee semplici alle condizioni della loro ricezione, noi troviamo che esse sono dipendenti, in primo luogo, dall’affezione dei nostri organi corporei da parte delle cose esterne. Come la maggior parte dei suoi contemporanei, Locke applica a volte il termine sensazione a tale affezione corporea. Ad es. Locke ci dice che «quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, trasmettono allo spirito molte percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui nostri sensi» (p. 134). In tal modo veniamo ad avere le idee di ciò che chiamiamo qualità sensibili. E quando si dice che i sensi trasmettono tali percezioni allo spirito, s’intende che «dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni» (ibid.). Questa è in Locke la definizione della fonte della maggior parte delle idee che giungono all’intelletto: e cioè della sensazione.
3) Non si deve però pensare che sulla base di questa versione della sensazione ci sia, da parte di Locke, una tendenza a identificare il processo fisico e lo stato di coscienza – aspetti che sono invece nettamente distinti sia da Locke che da Cartesio. Lo schema in cui la sensazione si manifesta in Locke è all’incirca il seguente: nel mondo naturale vi sono oggetti fisici composti da un numero molto grande di corpuscoli. Questi hanno effetto sui nostri organi di senso, attraverso emanazioni che colpiscono tali organi. Quest’affezione viene poi trasmessa al cervello, che a sua volta ha effetti sulla mente. L’insieme della concezione lockeana si basa su tre assunzioni, che non vengono peraltro mai provate (o anche solo esplicitate) nel corso del Saggio. 1) La prima è che esistono oggetti fisici, il che si traduce nell’assunzione di un punto di vista sostanzialmente realistico. 2) La seconda consiste nel sostenere che il cervello, subendo degli effetti, ha a sua volta effetti sulla mente, il che si traduce in una teoria interazionista dei rapporti mente-corpo. 3) La terza consiste nel fatto che la percezione è determinata causalmente dall’azione di oggetti fisici sulla mente attraverso il cervello. Ma anche se la teoria che fa da sfondo al concetto di sensazione lockeano è di questo tipo (vale a dire, comporta una sorta di stimolazione meccanica), occorre ancora una volta ricordare che Locke non nutre alcun interesse per le speculazioni riguardanti i correlati della sensazione come tali, e proprio per questo egli evita di imbattersi in tale tema, giacché l’unica cosa che gli interessa affrontare, nel secondo libro del Saggio ,è stabilire la sua posizione empirista circa l’origine delle idee, operandone una classificazione che mostri come tutte derivino, da ultimo, dall’esperienza.
4) L’esperienza in atto di un’idea di sensazione dev’essere considerata dipendente da un’affezione corporea, anche se l’esistenza di tale idea non è considerata da Locke come interamente determinata da condizioni fisiche. La sensazione, infatti, è per Locke uno dei modi del pensiero, che costituisce l’effettivo ingresso di un’idea qualsiasi nell’intelletto per mezzo dei sensi. Sono però la percezione o il pensiero che accompagnano una qualsiasi impressione fatta sul corpo (sull’organismo) da un oggetto esterno a fornire allo spirito quell’idea distinta che Locke chiama appunto idea di sensazione. Per ammissione dello stesso Locke, la mera ricezione di un’idea semplice implica sempre un’operazione dell’intelletto attraverso cui il contenuto di tale idea viene per così dire notato o percepito. Con molta chiarezza, Locke afferma infatti – nel IX del secondo libro del Saggio (interamente dedicato al tema della percezione come prima facoltà dello spirito esercitata sulle nostre idee) – che talvolta può esserci un impulso sufficiente sull’organo di senso, ma poiché esso non raggiunge l’osservazione dello spirito, tutto ciò non si traduce ancora in una percezione: vale a dire, sebbene il movimento che solitamente produce l’idea del suono giunga all’orecchio, il suono non è udito (cfr. p. 178 sg.). La mancanza di sensazioni, in questo caso, non avviene perché c’è un difetto nell’organo di senso o perché le nostre orecchie sono meno colpite rispetto alle volte in cui si ode effettivamente qualcosa, ma per il fatto che ciò che produce l’idea di sensazione sonora, pur essendo trasmesso dal solito organo, non è avvertito dall’intelletto e non imprime nello spirito alcuna idea. E così non ne segue la sensazione. Il caso che qui Locke ci prospetta riguarda dunque la situazione in cui, pur subendo la medesima alterazione che di solito produce l’idea del suono, il soggetto in questione non avverte le impressioni fatte da corpi sonori sull’organo dell’udito, a causa del fatto che egli ad es. presta la propria attenzione e la propria concentrazione in una direzione differente, inibendo in tal modo il sorgere di un’idea di sensazione, malgrado siano presenti tutte le condizioni fisiche richieste perché ciò avvenga.
5) Questa discontinuità ci testimonia del fatto che Locke ritenesse necessaria, per avere esperienza delle stesse idee semplici della sensazione, una funzione di co-operazione da parte della mente. Da tutto ciò consegue ancor più l’impossibilità di interpretare l’empirismo di Locke come una forma di rigoroso sensismo, intendendo con ciò la concezione secondo cui noi avremmo conoscenza del mondo esterno solo attraverso atti sensoriali. È vero che c’è un luogo nel quarto libro del Saggio in cui Locke dice che noi conosciamo l’esistenza delle cose mediante sensazione, ma ciò è assai diverso dal sostenere che nel sentire afferriamo (conoscitivamente) la piena natura delle cose. Lungi dall’essere la sola conoscenza che abbiamo del mondo esterno, la sensazione – così come viene concepita da Locke nel secondo libro – non ci fornisce alcuna conoscenza di quel mondo, ma ci procura solo i materiali per la conoscenza: in altri termini, essa riempie la mente con le idee (la stiva, per così dire), preparando il lavoro della conoscenza che però giunge dopo [cfr. al riguardo l’immagine dell’intelletto come “camera oscura”: p. 199 sg.]. 
6) L’empirismo di Locke è dunque in gran parte riconducibile alla dottrina secondo cui la mente sarebbe una sorta di tabula rasa o, per meglio dire, di foglio bianco, su cui nulla è stato scritto, essendo perciò all’inizio sprovvisto di ogni carattere. Su di esso vengono ad essere impresse le idee che provengono invariabilmente dall’esperienza. L’essenza dell’empirismo lockeano consiste nel ritenere che alla base della conoscenza umana vi siano i dati ultimi della sensazione e della riflessione. Ciò non deve però farci credere che la concezione lockeana della mente ne sancisca una totale passività. Viceversa, Locke riconosce che la prima capacità dello spirito umano è quella di essere adatto a ricevere le impressioni fatte su di esso sia dai sensi (ovvero dagli oggetti esterni), sia dalle proprie operazioni, allorché è portato infatti a riflettere su di esse. Nessuna impressione potrà tuttavia verificarsi senza prestare in qualche modo attenzione allo stimolo.
7) Tornando alla definizione di esperienza che Locke dà nel secondo paragrafo del primo capitolo del secondo libro del Saggio (cfr. p. 133 sg.), ciò che colpisce è la sua tendenza ad affiancare, ma anche a contrapporre, le idee della sensazione e quelle della riflessione. Di queste due fonti da cui deriva ogni nostra esperienza si può parlare, per Locke, lasciandosi guidare per intero dalla metafora dello sguardo interiore – una sorta di eco mentalista dello sguardo in senso proprio, e cioè dello sguardo rivolto propriamente all’esterno: possiamo infatti rivolgere l’attenzione al di fuori di noi, e in tal caso la sensazione, nelle sue diverse forme, ci offre una molteplicità di idee che rimandano ad oggetti esterni; ma possiamo anche rivolgere lo sguardo in noi stessi, e in tal caso avremo una varietà d’idee che ci parlano delle operazioni (o delle passioni) della soggettività. Come dice Locke (p. 134): «L’altra sorgente dalla quale l’esperienza trae le idee che fornisce all’intelletto è la percezione delle operazioni del nostro spirito, così come esso è applicato alle idee che ha; operazioni che, quando l’anima ci riflette e le considera, forniscono all’intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono ad es. il percepire, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito [...] Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee; e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno».
8) Se ritorniamo alla definizione di esperienza che Locke ci dà nel secondo paragrafo del primo capitolo del secondo libro del Saggio (133 sg.), ciò che ci colpisce è la tendenza ad affiancare, ma poi anche a contrapporre, le idee della sensazione e quelle della riflessione. Di queste due fonti da cui deriva ogni nostra esperienza si può parlare, per Locke, lasciandosi guidare per intero dalla metafora dello sguardo interiore, come eco mentalistica dello sguardo in senso proprio – e cioè dello sguardo rivolto all’esterno: possiamo infatti rivolgere l’attenzione al di fuori di noi e la sensazione nelle sue diverse forme ci offre una molteplicità di idee che rimandano ad oggetti esterni; ma possiamo anche rivolgere lo sguardo in noi stessi e avremo allora molte e diverse idee che ci parlano delle operazioni (o delle passioni) della soggettività. Come dice Locke (134): «L’altra sorgente dalla quale l’esperienza trae le idee che fornisce all’intelletto è la percezione delle operazioni del nostro spirito, così come esso è applicato alle idee che ha; operazioni che, quando l’anima ci riflette e le considera, forniscono all’intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono ad es. il percepire, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito [...] Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee; e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno».
9) Da un lato abbiamo le idee sensibili del giallo, del dolce e così via, dall’altra gli oggetti della riflessione e quindi le idee del percepire, del desiderare, del volere ecc. Ora, che si possa parlare di idee diverse, quasi che si possa distinguere quelle che hanno per oggetto un colore (ad es. il bianco di una pagina) da altre che hanno per tema un’operazione della mente (come ad esempio il mio vedere), è un fatto alquanto discutibile anche sotto il profilo descrittivo. Come detto, però, Locke non intende immergersi in questi problemi, e l’asimmetria descrittiva tra le idee della riflessione e le idee della sensazione cede subito il campo al parallelismo che sembra possibile istituire non appena ci disponiamo sul terreno della presunta origine delle idee. Se ci si pone in questa prospettiva, si deve riconoscere che la mente può essere «messa in movimento» da una duplice fonte: dagli oggetti esterni e dalle sue operazioni, e cioè a dire dalla sensazione che convoglia gli stimoli sensibili sino all’intelletto che li comprende e dalla riflessione che riverbera nella mente le sue stesse operazioni, determinando così le idee che corrispondono ad esse. A ben vedere, però, anche se ci poniamo nella prospettiva dell’origine, il senso esterno deve rivendicare una sua priorità sul senso interno: prima ancora infatti d’imparare a rivolgere l’attenzione alla dimensione dell’interiorità, la mente si è già interessata da sempre alle cose esterne, a quegli oggetti cioè che la circondano e che agiscono su di essa. Possiamo perciò non riflettere sulle operazioni della mente, ma non possiamo sottrarci in alcun modo all’azione dei sensi. Nel paragrafo ottavo Locke dice al riguardo (p. 136 sg.): «Vediamo così la ragione per cui la maggior parte dei bambini acquistano piuttosto tardi le idee delle operazioni del loro proprio spirito e perché alcuni non hanno idee molto chiare o perfette della maggior parte di esse in tutta la loro vita. Ciò accade perché, sebbene queste operazioni si svolgano in continuazione, tuttavia, come visioni fluttuanti, esse non fanno un’impressione abbastanza profonda da lasciare nello spirito idee chiare, distinte e durature, al punto che l’intelletto si ripieghi su se stesso, rifletta sulle proprie operazioni e ne faccia l’oggetto della propria contemplazione. I bambini appena vengono al mondo sono circondati da un’infinità di cose nuove le quali, con la sollecitazione costante dei loro sensi, attirano su di esse costantemente lo spirito, pronto a prender nota di ciò che è nuovo e facilmente compiaciuto con la varietà degli oggetti mutevoli. Così i primi anni sono di solito impiegati e distratti nella contemplazione esteriore. È compito degli uomini aiutarli a far conoscenza con ciò che si trova senza di essa; e così, crescendo con attenzione costantemente rivolta alle sensazioni esterne, di rado essi rivolgono una seria attenzione a ciò che accade in loro stessi finché non giungono ad un’età più matura; e a taluni ciò non accade mai». Di qui la posizione complessiva che traspare dalle pagine del saggio sull’intelletto umano.
10) Di per sé lo stimolo fisico non rappresenta ancora un’esperienza; quest’ultima nasce solo quando la mente si rivolge alla sollecitazione che i nervi le offrono, prendendone dunqueatto. Nel capitolo nono (quello dedicato alla percezione), Locke dice (178): «È certo che non c’è percezione se un’alterazione del corpo non raggiunge lo spirito, se un’impressione fatta sulle parti esterne non è avvertita all’interno. Il fuoco può bruciare il nostro corpo senza altro effetto di quello prodotto in un pezzo di legno, se il movimento non si continua fino al cervello dove il senso del calore o l’idea del dolore è prodotto nello spirito; e in ciò consiste la percezione effettiva». Il nodo del problema è proprio qui: comprendere la natura della percezione significa, per Locke, richiamare l’attenzione sulla natura della soggettività, ovvero sul fatto che essa consta di una mente che non ha nel pensiero un attributo inalienabile, ma che è il modo di reagire a un’azione esterna di natura meccanica. Sulla natura di questo «prendere atto» Locke non si sofferma a lungo, palesando una differenza di accento tra l’immagine della passività del percepire – da cui Locke si lascia spesso guidare – e il linguaggio razionalistico che sembra farsi strada quando egli c’invita a rammentare che vi è percezione solo quando la mente dà per così dire udienza alle proprie sensazioni.
11) Il senso complessivo del discorso lockeano è peraltro chiaro: egli intende distinguere con nettezza la meccanicità degli stimoli dalla consapevolezza della mente. Ciò viene fatto però senza recidere l’evidenza del nesso causale da cui dipende il nostro esperire in maniera sensibile. Questo nesso dev’essere tenuto presente, ed è per questo che la riflessione sulla consapevolezza delle idee e sulla radicale inconcepibilità di un percepire che non sia anche conscio si traduce, in Locke, da un lato nel rifiuto di una concezione cartesiana dell’anima, dall’altro nella constatazione che il percepire non è per la mente una proprietà da descrivere, ma un evento di cui rendere conto. Non è un caso perciò se il fatto originario della coscienza – e cioè che «gli uomini hanno nel loro spirito molte idee» – vale per Locke come un invito a interrogarsi sulla fonte da cui tali idee hanno origine: se le idee sono percezioni e se le percezioni sono eventi mentali, allora è lecito muovere dalla constatazione della loro presenza alla domanda che concernente la loro origine. La riflessione sull’esperienza percettiva non può che disporsi così fin da principio sul terreno di un’indagine di stampo causale.
12) Tale concezione, da cui Locke prende le mosse, si manifesta nelle immagini stesse che egli ci propone per venire a capo della natura della coscienza. Nella lettura del Saggio c’imbattiamo, ad es., nella similitudine della mente concepita come uno specchio che riflette, sulla sua superficie, l’immagine delle cose che la luce gli consegna. Talvolta, quest’analogia viene messa da parte per richiamare alla mente l’immagine di un foglio di carta bianca su cui l’esperienza traccerebbe i suoi segni: tuttavia, questo accade solo per mostrare come l’io non sia privo di memoria e come le idee, che pure scompaiono dalla mente per essere poi di nuovo riproposte, non abbandonino la scena della coscienza senza lasciare un segno del loro passaggio: la rappresentazione immemore dello specchio o la fuggevolezza del segno cedere dunque il campo alla stabilità cognitiva rappresentata dal foglio di carta che trasforma il riflesso in traccia, promettendo quella permanenza delle idee nel tempo cui è affidata la possibilità della conoscenza e di ogni esperienza che pretenda di essere sensata. Nondimeno, che si tratti di un foglio di carta o di uno specchio, l’immagine della mente che prende forma in questa similitudine è la stessa: ciò che infatti le accomuna è il loro intendere la mente come il luogo in cui un’azione fisica si trasforma in un messaggio, in una realtà di un nuovo tipo. Sul foglio di carta bianca e sulla superficie dello specchio qualcosa si disegna e si fa visibile, ma al di là dell’uno e dell’altro vi è qualcosa che si pone come il presupposto causale di tale apparire. Nell’ultimo paragrafo del primo capitolo, Locke dice (p. 148): «Infatti gli oggetti dei nostri sensi, almeno molti di essi, introducono le loro idee particolari nel nostro spirito, che lo vogliamo o no; e le operazioni del nostro spirito non ci permettono di rimanere senza almeno qualche oscura nozione di esse. Nessun uomo può essere del tutto ignorante di ciò che fa quando pensa. Quando queste idee semplici sono offerte allo spirito, l’intelletto non può rifiutarle, né alterarle una volta che sono impresse, né cancellarle e fabbricarne di nuove, più di quanto uno specchio possa rifiutare, alterare o obliterare le immagini o le idee che gli oggetti posti davanti ad esso producono. Come i corpi che ci circondano agiscono diversamente sui nostri organi, lo spirito è costretto a ricevere queste impressioni, e non può evitare la percezione delle idee che vi sono annesse».
13) Le riflessioni lockeane sull’origine delle idee si sono trasformate dunque in un’immagine della mente da intendersi come il luogo peculiare in cui gli stimoli fisici assumono le vesti di eventi di natura psicologica. La classificazione delle idee, che Locke ci propone nelle prime battute del secondo libro del saggio (cfr. p. 133), diviene il luogo per invitarci a pensare all’esperienza come a un evento che capita alla soggettività, ovvero come qualcosa in cui essa s’imbatte. Proprio come per ogni altro evento, anche nel caso dell’esperienza percettiva dovrà assumere quindi un’importanza cruciale il rimando alle cause da cui essa innanzitutto dipende. Tale passaggio ci fa capire anche il motivo per cui – per quanto il Saggio non costituisca in primis una trattazione di carattere psicologico (giacché in esso ha luogo piuttosto una disamina riguardante la natura e l’estensione della conoscenza umana) – la presenza, soprattutto nel secondo libro, di spunti d’indubbio interesse psicologico hanno finito per fare di Locke il padre della psicologia inglese di stampo associazionistico.
14) Da tutto ciò che si è detto, risulta che sarebbe quindi ingannevole interpretare l’immagine del foglio bianco privo di caratteri come se s’intendesse dire che la mente parte sempre da zero. Tale immagine era infatti usata da Locke per contrastare l’innatismo, e cioè la convinzione che la mente fosse fin dalla nascita piena di idee e di verità (quasi si trattasse di un foglio prestampato). Ma Locke non voleva certo negare con ciò quelle tendenze naturali impresse nella mente dell’uomo, giacché le varie facoltà mentali a cui Locke si appella costituiscono la più importante integrazione al foglio bianco, essendo proprio attraverso la loro azione che i caratteri vengono inscritti su di esso. L’orientamento che Locke segue nel Saggio ci propone una concezione dell’esperienza percettiva secondo cui le idee sono segni tracciati nell’anima dagli oggetti esterni.
15) Non c’è dubbio che per Locke il percepire sia un evento psichico che ha una causa reale e che le nostre percezioni non siano un’immagine fedele della realtà, ma che dipendano dal modo in cui i nostri organi di senso dapprima e la mente poi traducono nel linguaggio delle idee gli stimoli fisici che ci giungono dalle cose. Da tali convinzioni, che guidano la riflessione lockeana, si è portati fondatamente a ritenere che le idee siano per Locke oggetti nella mente e non le cose stesse, sia pure colte solo nella misura in cui ci sono note. D’altronde, Locke parla costantemente di idee invece che di oggetti, lasciando intendere che le idee siano il correlato necessario di un atto soggettivo, e che non è pensabile disgiungerle dalla coscienza che ne abbiamo. Dire che le idee sono oggetto della mente significa sostenere che è lecito parlare di idee solo per intendere oggetti in quanto sono oggetti per noi. Nel Saggio, questa tesi è sostenuta in maniera ancora più esplicita, allorché Locke afferma, nel capitolo decimo del secondo libro, che «le idee non sono altro che percezioni effettive dello spirito, che cessano di essere quando non c’è percezione di esse» (p. 185), riportando quindi le idee a entità mentali il cui esse si riduce al percipi. In ciò è contenuta una tesi di natura ontologica riguardo allo statuto delle idee, poiché di esse ci viene detto appunto che sono oggetti nella mente e che essi esistono solo in quanto percepiti. Possiamo brevemente riassumere alcuni dei motivi in base a cui Locke è portato a ritenere che le idee siano oggetti della mente.
16) In primo luogo, si può osservare che non vi sono buone ragioni per ritenere che le cose siano così come ci appaiono: per un filosofo come Locke, formatosi nell’età della nuova scienza, l’idea che il mondo sensibile sia uguale a quello reale appare fin da principio screditata. Le cose ci appaiono colorate, ma i colori non sono per Locke una proprietà reale degli oggetti, poiché dipendono dal modo in cui la nostra sensibilità reagisce alle cose stesse: i colori non sono cioè nelle cose, ma nella soggettività che le percepisce. Questo assunto, che Locke limita alle qualità sensibili primarie – come appunto i colori – sembra un invito a considerare ogni esperienza come un evento di natura soggettiva, come qualcosa che si dà nella mente del soggetto. [Su ciò si veda ad es. § 21, p. 174]. Un secondo argomento, che spinge Locke a sostenere un’interpretazione mentalistica delle idee, riguarda l’evenienza dell’illusione percettiva. In molti casi infatti – ma potremmo dire quasi sempre – percepiamo qualcosa le cui proprietà ci appaiono diverse da quelle che in seguito finiamo per attribuire all’oggetto percepito. Un bastone nell’acqua sembra ad es. piegato, e invece scopriamo che le cose non stanno così; una torre di lontano sembra tondeggiante, ma avvicinandosi scopriamo che ha forma quadrata; un cibo dolce può sembrare amaro a chi ha la febbre – così sostiene Sesto Empirico. Gli esempi potrebbero naturalmente moltiplicarsi, ma la conclusione che si può trarre è chiara: ciò che ci sembra di percepire non è l’oggetto che viene di fatto percepito – e non lo è per il fatto di essere diverso da quello. Ma anche se il bastone e la torre sono diversi da come appaiono, noi vediamo ugualmente qualcosa: vi è quindi un oggetto del nostro atto percettivo diverso dall’oggetto reale. Di conseguenza, possiamo ragionevolmente supporre che si tratti di un oggetto mentale. L’ipotesi del realismo diretto – vale a dire la tesi secondo cui percepiremmo direttamente gli oggetti esterni – sembra essere negata da Locke. Da ultimo, l’ipotesi che le idee siano eventi mentali si lega alla comprensione della percezione come processo reale. È certo che vediamo oggetti distanti da noi, ma se li vediamo qualcosa dev’esserci accaduto: deve in altri termini essersi dato un processo fisico che dalla cosa conduce all’io e che termina in una peculiare acquisizione mentale – ovvero nell’idea che fa da eco percettiva della cosa. Anche in questo caso l’idea (l’oggetto mentale) dev’essere però distinta dalla realtà esterna che la produce (dall’oggetto reale), così come in generale si deve distinguere l’effetto dalla causa.
17) Tali argomentazioni stanno certamente sullo sfondo del Saggio lockeano, e ma Locke non ha avvertito il bisogno di giustificare in maniera dettagliata le sue scelte. In un certo senso, più che di argomentazioni di carattere generale, Locke sembra fidarsi della praticabilità di un modello di esperienza che richiami l’attenzione sul fatto che le idee della percezione esterna presuppongono un rapporto del corpo con gli oggetti esterni. Questo contatto con gli oggetti – come dice apertamente lo stesso Locke – avviene grazie agli organi di senso. A questa constatazione Locke fa seguire una precisazione che c’invita a tracciare una distinzione più sottile di quanto a prima vista non appaia. Locke osserva infatti che la sensazione non si pone ancora di per sé sul piano dei contenuti dell’esperienza, poiché di idee si può parlare solo quando ci si dispone sul terreno della coscienza. Ne segue che quando Locke afferma che i sensi portano alla mente le idee delle qualità sensibili, si deve intendere che «dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni. Chiamo questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, che dipendono interamente dai nostri sensi dai quali l’intelletto le deriva, sensazione» (p. 134). I sensi ci appaiono dunque come i canali che trasportano le sollecitazioni degli oggetti esterni sino alla mente, la quale si configura come il luogo in cui gli stimoli fisici assumono risonanza psichica. In linea di principio, il termine sensazione allude dunque in Locke al processo fisiologico che determina le idee nell’intelletto: la sensazione non è ciò che di fatto esperiamo, ma è la fonte da cui derivano le idee, che a loro volta si danno come tali solo nella mente. Con maggior precisione, Locke afferma però che le sensazioni – pur essendo un evento fisiologico – possono chiamarsi tali sono in relazione all’essere quell’evento corporeo che conduce al prodursi di un’idea nella mente. La sensazione, scrive infatti Locke (§ 23 del primo capitolo, p. 149) «è un’impressione o un movimento prodotto in qualche parte del corpo che produce qualche percezione nell’intelletto». Si tratta, al riguardo, di un modo di esprimersi particolare, a cui Locke non sembra peraltro attenersi in maniera rigorosa. Non è difficile infatti trovare passi in cui le sensazioni sono definite come le idee derivanti dalle varie forme della sensibilità. E tuttavia, questa definizione insolitamente rigorosa ci fornisce la consapevolezza che le idee sono ciò che propriamente ci è dato e che anche quando ci allontaniamo da esse per muovere verso la loro causa prossima – ovvero, l’eccitazione quasi motoria delle vie sensoriali – lo facciamo senza per questo abbandonare la dimensione della coscienza. In altri termini: ciò che ci è dato è il rosso che vedo, ed è tale esperienza a permettermi di dare un nome a un processo che mi è relativamente ignoto, poiché non è chiara quale sia la relazione tra la mia esperienza e le sue cause fisiologiche. Parlare del rosso come di una sensazione vorrà dire muovere dalla mia esperienza, per fare di questo vissuto il nome della causa prossima che tuttavia mi è ignota, poiché ignoto è il nesso che lega determinati eventi al mio percepire così. Nondimeno è chiaro che Locke c’invita a considerare la percezione come il risultato di un processo fisico e fisiologico, invitandoci nel contempo a rammentare che ciò che propriamente ci è dato è solo l’orizzonte circoscritto delle nostre idee. Di queste idee è ragionevole perciò pensare che esse abbiano una causa, ma quest'ipotesi – per quanto plausibile e fondata –non deve sovrapporsi al dato descrittivo: e cioè al fatto di avere coscienza di qualcosa che s'impone alla mente, destandola e costringendola a percepire.
18) Tornando a occuparci dell’altra forma di esperienza, nonché fonte delle idee, che Locke designa come riflessione, occorre dire che tale termine era già stato applicato da molti filosofi prima di Locke a quella peculiare funzione attraverso cui la mente diviene conscia di sé e delle proprie azioni. Tale funzione era metaforicamente concepita come un rivolgimento della mente su se stessa, e come tale distinta dall’azione diretta ad apprendere le cose esterne. Dagli Scolastici, che avevano per l’appunto usato il termine in tale accezione, l’azione riflessa della mente volta a conoscere se stessa era considerata come una funzione intellettuale, differente quindi sia per ciò che riguarda la sua natura intrinseca sia per ciò che attiene al suo oggetto dalla percezione sensibile. Altri prima di Locke avevano cercato di istituire un parallelismo tra la sensazione, che fornisce conoscenza in relazione alle cose esterne, e un’analoga forma di esperienza interna – o di sensazione interna – per mezzo della quale la mente diviene consapevole del proprio operare. Malgrado però lo stesso Locke parli di «senso interno» con riferimento alla riflessione, ci sono aspetti essenziali in cui il suo punto di vista circa la natura e la funzione della riflessione differisce da quella che è la sua concezione della sensazione.
19) In relazione alle cose esterne, Locke sostiene infatti che le idee fungano necessariamente da segni, poiché tali cose non possono essere presenti in prima persona nell’intelletto. Ma nell’affermare una posizione per così dire generale riguardo a una dottrina rappresentazionalistica della conoscenza, Locke formula un’eccezione in favore della mente stessa. Solo la mente, infatti, tra le svariate cose che lo spirito contempla, è presente all’intelletto, e conseguentemente non occorre che sia rappresentata da un’idea in funzione di segno. Ciò che Locke dunque sostiene, è che solo dell’esistenza dell’io e di nessun’altra forma di esistenza abbiamo una conoscenza intuitiva (e diretta). Ma sebbene le idee non siano richieste svolgere una funzione rappresentativa nel caso della conoscenza di sé, essa tuttavia sono implicate nel suo contenuto, come del resto nel contenuto di ogni altro genere di conoscenza. Ora, la presenza della mente a se stessa non solo rende possibile, ma essenzialmente implica una coscienza di sé e delle proprie operazioni. Tutte le funzioni mentali sono, per Locke, funzioni del pensiero, e pensare consiste nell’essere consci del fatto che si pensa. Tuttavia, si richiede un atto speciale di attenzione per essere capaci di formare idee di operazioni specifiche, ed è proprio quest’atto a costituire la riflessione. Quest’atto con cui si presta attenzione era anche condizione essenziale – come abbiamo in precedenza visto – della ricezione di idee semplici della sensazione. Nel caso però della riflessione, quest’atto presenta una maggiore importanza, ma anche una più elevata difficoltà ad estrinsecarsi. Infatti, sebbene tali operazioni siano costantemente eseguite anche dalla mente dei bambini, spesso tuttavia – come visioni fluttuanti – esse non producono un’impressione abbastanza profonda da lasciare nello spirito idee chiare, distinte e durature, al punto che l’intelletto giunga a ripiegarsi su se stesso, riflettendo sulle proprie operazioni e facendone oggetto della propria contemplazione. Pertanto, mentre le idee semplici della sensazione sono limitate dalla maggiore o minore varietà prodotta dagli oggetti con cui gli uomini entrano in relazione [Locke a tal riguardo afferma che se un bambino venisse tenuto in un luogo in cui non vedesse nulla che non fosse bianco o nero fino all’età adulta, non avrebbe ad es. alcuna idea dello scarlatto o del verde, proprio come uno che dall’infanzia non ha gustato un’ostrica o un ananasso non può avere l’idea di queste prelibatezze], gli uomini ricevono le idee semplici della riflessione dall’interno, e cioè dalle operazioni del loro spirito, a seconda che riflettano più o meno su di esse. Ma se, come abbiamo visto, un’operazione mentale come quella del porre attenzione è implicata nell’acquisizione di tutte le nostre idee semplici, come si deve intendere la ripetuta affermazione lockeana secondo cui, nella ricezione di tali idee, la mente risulterebbe meramente passiva? 
20) Per comprendere appieno tale assunto è necessario considerare più da vicino la natura della distinzione che Locke traccia tra attività e passività della mente, e in particolare il preciso aspetto in cui la passività viene qui attribuita alla mente. Detto in generale, Locke sostiene che una cosa possa dirsi propriamente attiva solo nella misura in cui determina un effetto senza essere in questo determinata da qualcos’altro. Per essere attiva una sostanza (o un agente) deve mettersi per così dire in azione esclusivamente attraverso ciò che è in suo potere. Ed è in particolare nell’ambito della volontà (della sfera volizionale) che si esperienza di questa autodeterminazione al cambiamento. Da questa posizione lockeana discendono due conseguenze. Da un lato, strettamente parlando, noi non abbiamo alcuna idea dell’attività che ha luogo nel mondo fisico. Dall’altro lato, l’attività mentale è ristretta all’azione volontaria. In questo modo, stiamo dicendo che la mente può dirsi attiva, nell’ambito del pensiero, quando essa considera con un qualche grado di attenzione volontaria una cosa. Ciò appare particolarmente evidente nel caso del ricordare o – come dice Locke – nella revisione delle idee riposte nella memoria, laddove lo spirito non è affatto passivo, proprio perché la comparsa di tali immagini «dormienti» dipende in larga misura dalla volontà. L’identificazione, dunque, dell’attività mentale con la volizione è solo una particolare applicazione del punto di vista secondo cui tutti i processi mentali implicano autocoscienza. In altri termini, non si può essere attivo senza riconoscere che un processo di attività ha la sua origine noi, e senza dunque considerarlo come volontariamente determinato. Essendo l’attività della mente identificata con l’azione volontaria, la sua passività nella ricezione delle idee semplici non implica però che tali idee siano interamente determinate dall’esterno, senza riguardo cioè a qualsiasi forma di co-operazione proveniente dall’io. Al contrario, tale passività convive – diremmo – con il riconoscimento che, nella mera ricezione di tali idee, è implicata un’operazione mentale consistente nel notare, nel fare attenzione, nel percepire (in senso lato): vale a dire un’operazione che procede da uno dei poteri «propri e intrinseci» alla mente stessa. Riguardo all’intero spettro di tali considerazioni, si può dunque aggiungere che Locke sembra utilizzare più frequentemente il termine «impressione» quando ad es. insiste sul carattere non volontario dei contenuti delle nostre idee semplici, mentre altre volte egli parla di questi contenuti come suggeriti e forniti alla mente. In proposito, si è da più parti inteso sostenere che l’uso del termine «suggerimento» (suggestion) implichi il tacito riconoscimento di una fonte delle idee meno direttamente sensibile, e dunque più intellettuale della sensazione stessa. Ma questo tipo di distinzione non era certo nell’orizzonte di pensiero lockeano, dato che egli parla solo di idee semplici – in qualità di materiali di tutta la nostra conoscenza – come suggerite e fornite allo spirito solo attraverso i due canali riconosciuti: e cioè, la sensazione e la riflessione. Il massimo che si possa dunque dire al riguardo, è che mentre il termine «suggerito» rivela, in maniera maggiormente definita, l’implicazione di un’operazione della mente nell’acquisizione dell’idea, il termine «impresso» indica invece, in maniera più enfatica, la sua indipendenza dalla nostra attività volizionale.
21)Solo in rapporto alla determinazione della natura di questi contenuti primari della conoscenza, che Locke pone come interamente al di là del controllo della nostra volontà, egli afferma che la mente è del tutto passiva. Pertanto, Locke riconosce che il processo reale attraverso cui esperiamo idee di sensazione o di riflessione comporta sempre la presenza di un fattore attivo, nel senso limitato di attività che gli è proprio. Mentre cioè le nostre idee devono essere considerate solo come passioni della mente quando vengono prodotte in essa da oggetti esterni – e dunque sia che lo si voglia o no – esse vanno concepite come un misto di passione e azione quando la mente presta loro attenzione, o le rivive ad es. nella memoria. L’attenzione, nei suoi vari gradi, è riconosciuta da Locke come il fattore principale da cui dipende la possibilità di rivivere le nostre idee. Ora, questa funzione dell’attenzione è vista come controllata di norma dalla volontà, e di conseguenza come una forma di attività mentale. La passività della mente in relazione alle sue idee semplici sta dunque a significare che la natura di questi contenuti primari è indipendente dalla nostra volontà. Non possiamo cioè crearli da noi, né rifiutarci di riceverli così come essi ci si presentano nell’esperienza. Locke annette grande importanza a tale dottrina perché concepì tale passività come una garanzia e, segnatamente, come la sola garanzia possibile del fatto che non vi sia nulla di arbitrario nei dati ultimi della nostra conoscenza. La ricerca di una tale garanzia non era però un fatto nuovo per il pensiero dell’epoca. Lo stesso Cartesio, in maniera non dissimile da ciò che avrebbe fatto Locke, ha insistito a sua volta sul carattere passivo dell’intelletto, ovvero dell’attività attraverso cui le idee sono apprese, riconoscendo alle sole volizioni un carattere per così dire attivo (trattandosi di una presa di posizione). Mentre però la controparte positiva di questo punto di vista è, per Cartesio, una dottrina riguardante il carattere innato dei principi primi della conoscenza, Locke insiste sulla loro derivazione dall’esperienza, ottenendo così – egli pensa – una garanzia che la dottrina cartesiana non può offrire: ovvero che tali dati della conoscenza corrispondono, in qualche modo, a ciò che esiste realmente.
22) Locke distingue dalle idee semplici tutte le altre idee con cui l’intelletto ha a che fare: tale idee si dicono, in qualche senso, «opera della mente». Ovvero, mentre si è constatato che la mente è del tutto passiva nei confronti delle idee che riceve sia dalla sensazione sia dalla riflessione (nel senso che lo spirito non può formarle da sé), la mente fa uso di una specie di libertà nel formare le idee complesse. Tuttavia, non si deve per questo essere portati a credere che la formazione di idee complesse sia un’attività libera e per così dire arbitraria, che prescinda cioè dalla guida che ci proviene dall’esperienza. Infatti, le idee semplici – come afferma Locke – possono essere osservate esistere unite insieme in varie combinazioni e, quando ciò avviene, l’idea complessa che le comprende si dice ottenuta, al pari delle idee semplici stesse, attraverso l’esperienza e l’osservazione delle cose. Questo è però solo un caso, nel senso che la mente ha anche il potere di connettere a piacere idee semplici che non siano state esperite insieme, e quando ciò avviene l’idea complessa in tal modo formata non ha per così dire l’onere di corrispondere a qualcosa che esista realmente (ovvero non necessita di avere una controparte nel mondo reale, ma risponde solo al criterio della coerenza). L’operazione della mente attraverso cui essa mette insieme più idee semplici ricevute dalla sensazione e dalla riflessione è chiamata da Locke «comporre» o «combinare», giacché il termine di «ampliare» si applica solo quando si tratta di una composizione di idee dello stesso genere, come nel caso della quantità (in cui avviene cioè un’iterazione di elementi identici). Al riguardo, è evidente tuttavia che la dottrina della composizione indebolisce di molto la sua tenuta in relazione alle idee complesse così formate, dal momento che essa non può dar conto dell’unità dell’intero che tali idee sono riconosciute implicare. L’idea complessa, di conseguenza, non può esser vista come risolubile senza resto (senza rimanenza alcuna) nelle idee semplici che entrano a far parte della sua costituzione. Le difficoltà in cui s’imbatte la dottrina lockeana della composizione diventano però ancor più marcate quando verifichiamo che il comporre non è la sola operazione mentale che dà origine a idee complesse. Ad es. la mente non ha solo la possibilità di combinare i dati in differenti complessi, ma può esercitare un’ulteriore operazione – che è quella di scomporre il risultato di un suo precedente lavoro. Sotto l’influenza di tale concezione riguardante un comporre quasi meccanico, noi troviamo che a volte Locke si esprime come se tutte le nostre idee non semplici fossero complessi di questo genere, e come se ciò che egli chiama comporre – unitamente all’operazione complementare della scomposizione – fossero le sole operazioni attraverso cui la mente tratta con le proprie idee. Nel secondo capitolo del secondo libro del Saggio, Locke dice che «il dominio dell’uomo su questo piccolo mondo del suo intelletto è pressoché lo stesso di quello che ha nel gran mondo delle cose visibili, dove il suo potere, anche se esercitato con arte e abilità, non riesce a fare altre che a comporre e dividere i materiali che sono a disposizione, ma non può far nulla per fabbricare la minima particella di materia nuova o per distruggere un atomo di quella che già esiste» (p. 150). Ma quando Locke giunge poi a trattare della natura delle idee secondarie o complesse, noi vediamo che si mostra chiaramente l’inadeguatezza della dottrina della composizione (anche se essa non viene mai rifiutata del tutto e apertamente), e i suoi requisiti risultano per così dire minati alle fondamenta, così come entra in crisi il requisito di un’assoluta semplicità delle idee semplici. Infatti, in aggiunta al suo potere di comporre, la mente possiede il potere di comparare (di confrontare) e di astrarre, i cui prodotti non possono essere certo rappresentati come complessi dovuti alla mera composizione di elementi. Distinto dal comporre, il confrontare consiste infatti nel «mettere insieme due idee» – semplici o complesse – e nel giustapporle in modo da vederle insieme senza però unirle. Ed è precisamente così che si forma un genere di idee distinto – le cosiddette idee di relazione – che consistono appunto nell’apprendere relazioni tra i termini comparati. Inoltre, sebbene Locke sembri riferirsi vagamente all’astrazione come a un processo di scomposizione, egli è portato tuttavia a riconoscere che nella formazione di idee generali, che Locke fa risalire a questa fonte, sia implicato qualcosa di più che l’inverso del processo di composizione.

23) Se potessimo soffermarci maggiormente sugli sviluppi della concezione lockeana, vedremmo che con idee semplici Locke intende sempre più un’idea che può anche comportare una certa complessità di contenuto, cosicché risulta chiaro che l’idea complessa – con cui essa è contrastata – non occorre comporti di necessità una composizione di elementi, ma può essere anche solo il prodotto di un confronto o di un’astrazione. Se si considera l’intera discussione sulle idee sviluppata da Locke, occorre rilevare che la distinzione che egli ha in mente è quella tra idee che sono primarie o originali, e quelle che per contrasto possono dirsi secondarie o derivate, piuttosto che quella tra idee semplici e idee complesse. Sia infatti che implichino composizione o meno, in ogni caso è chiaro per Locke che le idee di relazione e i prodotti dell’astrazione non possono rivendicare alcun posto tra le idee originali o primarie. Difatti, il confronto presuppone che la mente sia già a conoscenza delle idee da comparare; e il processo di astrazione può essere eseguito solo se il contenuto da astrarre è già davanti alla mente, se si trova cioè già in un certo contesto a partire dal quale l’astrazione è operata. Pertanto, ottenere un’idea attraverso una qualsiasi di queste operazioni presuppone il possesso da parte della mente dei dati elementari provenienti dalla sensazione e dalla riflessione, nonché il loro essere soggetti a un’operazione mentale che non è affatto indipendente dalla nostra volontà.
24) Prima però di addentrarci in questioni che riguardano la funzione delle idee generali, il ruolo dell’astrazione e le tematiche di ordine linguistico, alla cui trattazione Locke dedica l’intero terzo libro del Saggio, dobbiamo considerare in dettaglio uno degli aspetti fondamentali – contenuto nel primo capitolo del secondo libro – che determina l’opposizione tra la concezione della mente lockeana e la dottrina cartesiana della res cogitans. Il rapporto con Cartesio si presenta, come abbiamo già avuto modo di vedere, abbastanza complesso, giacché per certi versi Locke assume tutta una serie di atteggiamenti, di criteri, di strutture mentali che sono cartesiani [primo fra tutti la concezione riguardante l’idea come oggetto immediato e proprio della nostra conoscenza], ma tale presenza positiva di Cartesio nel Saggio va temperata ed è comunque in sottordine rispetto a una continua e più evidente polemica col cartesianesimo che Locke sviluppa. Quanto agli aspetti più marcatamente anti-cartesiani, ne troviamo subito già all’inizio del secondo libro. Cartesio, infatti, aveva espresso una concezione dell’anima che ne identificava l’essenza col pensiero: di conseguenza, non era possibile immaginare un’interruzione del pensiero senza con ciò immaginare una sorta di eliminazione temporanea dell’anima. Poiché l’anima è cartesianamente pensiero, e poiché si postula la continuità della sostanza-anima nel corpo, dal punto di vista di tale concezione si deve perciò postulare che l’anima pensi continuamente (non vi sarebbe cioè spazio per l’inconscio, né per qualsiasi fenomeno di intermittenza). Ora, uno dei primi obiettivi polemici di Locke è proprio la teoria che l’anima pensi di continuo. Ma un altro caso di dissidio teorico che Locke manifesta è quello riguardante la tesi cartesiana secondo cui l’essenza dell’esteriorità – cioè dei corpi, e dunque l’essenza della materia corporea – sarebbe costituita dall’estensione, cosicché tutti i caratteri esteriori che cogliamo nella materia corporea, attraverso la sensibilità, si dovrebbero ridurre a estensione. Ma poiché l’estensione era anche, per Cartesio, l’unica essenza dello spazio, egli era appunto portato a identificare spazio e corporeità. Ora, Locke introduce a tal riguardo un elemento di rottura – la cui importanza andrebbe valutata alla luce delle riflessioni dell’epoca – secondo il quale, pur facendo salva l’estensione come carattere essenziale sia dello spazio sia della materia corporea, quest’ultima ha un carattere essenziale in più che è anzi prioritario rispetto all’estensione, dal momento che esso è peculiare alla materia: vale a dire, la solidità. Da ciò consegue che occorre distinguere lo spazio dal corpo, constatando che i corpi stanno certamente nello spazio, ma non è detto che lo spazio sia interamente occupato dai corpi. Questo ha a che fare, tra l’altro, con le discussioni succedutesi riguardo alla natura del vuoto, ovvero sulla possibilità di realizzare il vuoto in natura – la quale era stata recisamente negata dai razionalisti della prima metà del Seicento.
25) Questi sono i principali motivi di scontro nei confronti del cartesianesimo, anche perché la continuità del pensiero come essenza dell’anima si rapporta direttamente al tema dell’innatismo, nel senso che – accettando tale dottrina – noi non potremmo immaginare che vi fossero idee innate che sospendono la loro presenza nella mente nel momento in cui l’anima non pensa. Per altri versi, l’identificazione di spazio e corporeità è il punto cardinale intorno a cui ruota la fondazione della fisica cartesiana ed è altrettanto fondamentale per il suo principale corollario: ovvero, la negazione del vuoto. Un altro corollario della filosofia cartesiana – che potrebbe anche sembrare secondario – è quello riguardante la questione dell’intelligenza degli animali, e cioè la capacità da parte degli animali di avere rudimenti di quelle funzioni mentali che venivano attribuite all’uomo e che i Cartesiani negavano completamente alle bestie, concepite come pure macchine. Locke viceversa è tra quelli che reagiscono a tale concezione cartesiana dell’animale-macchina, sostenendo che se è pur vero che l’animale non possiede capacità di astrazione, né di esprimersi attraverso il linguaggio dell’uomo, è altrettanto vero che certi elementi rudimentali sono posseduti anche dall’animale, ovviamente a seconda dell’evoluzione organica che esso ha.
26) Ma torniamo all’attacco frontale che Locke muove a uno dei capisaldi della gnoseologia e della metafisica cartesiana: e cioè alla sostanziale coincidenza tra pensiero e anima (res cogitans). L’obiezione di Locke verte sul fatto che l’anima è qualcosa di diverso dal pensiero, e cioè il pensiero non è l’essenza dell’anima, bensì solo una sua attività. Nella prospettiva teorica delineata dal Saggio, dire che qualcuno sa o conosce qualcosa significa asserire che esso è animato da un determinato vissuto, da un’idea – e le idee «non sono altro che percezioni attuali nella mente di chi le vive». Ora, anche questa concezione comporta notevoli difficoltà, che sarebbe però lungo affrontare. Il punto che c’interessa è però un altro. Se richiamiamo infatti l’attenzione sul privilegio accordato all’attualità delle idee, è perché a partire da qui si può scorgere un tratto che caratterizza la concezione lockeana della mente e che si riverbera anche sulla sua teoria della percezione. Come lettori del Saggio si scorge immediatamente che l’accentuazione della tematica dell’attualità si lega a una concezione della mente che opposta alla concezione cartesiana della res cogitans – ovvero di una sostanza cioè che ha nel pensiero il suo tratto essenziale, proprio come la res extensa ha nel suo occupare lo spazio la sua proprietà inalienabile. Ora, che la mente percepisca e abbia una vita cosciente è un fatto indubitabile, almeno per Locke; ciò tuttavia non significa che sia davvero sostenibile che l’anima pensi sempre. Dice infatti Locke (nei paragrafi 9 e 10 del capitolo primo del secondo libro): «So che alcuni sono dell’opinione che l’anima pensa sempre e che finché esiste essa ha costantemente la percezione attuale delle idee in se stessa; e che il pensare attuale è altrettanto inseparabile dall’anima quanto l’attuale estensione dal corpo [...] Infatti, a questa stregua, l’anima e le sue idee, come il corpo e la sua estensione, cominceranno entrambi ad esistere allo stesso momento. Ma se si possa supporre o meno che l’anima esista antecedentemente o contemporaneamente ai primi rudimenti dell’organizzazione o agli inizi della vita del corpo, lascio dibattere a coloro che hanno meditato di più su questa faccenda. Per mio conto, confesso di avere una di quelle anime ottuse che non percepisce sempre se stessa nell’atto di contemplare idee, né può concepire che sia necessario per l’anima il pensar sempre, più di quanto sia per il corpo il muoversi sempre; giacché la percezione delle idee (come la concepisco) è per l’anima ciò che il movimento è per il corpo: non la sua essenza, ma una delle sue operazioni». Le ragioni di questa presa di posizione sono note: se il percepire fa tutt’uno con il suo essere consapevole, è necessario sostenere che l’anima pensa e percepisce solo quando è consapevole di farlo – poiché una percezione inconsapevole sarebbe infatti una contraddizione in termini. Di qui la conclusione che Locke ci invita a trarre: in ciascuno di noi vi è qualcosa – sia esso l’anima o la mente – che ha la facoltà di percepire, ma sarebbe un errore immaginare che il percepire in atto sia essenziale alla coscienza stessa. Il percepire (o il pensare) non deve apparirci dunque come una proprietà inalienabile dell’io, ma come una sua possibile operazione. Talvolta, e forse anche spesso, la mente percepisce e pensa, ma il pensiero e la percezione non sono una proprietà della mente. Il pensiero non sta all’anima come il colore sta alla superficie cui aderisce; l’immagine da cui occorre lasciarsi guidare è, per Locke, un’altra: dobbiamo pensare al rapporto tra la mente e le sue percezioni richiamandoci piuttosto alla relazione che lega il corpo al suo movimento (cfr. p. 138). Un corpo, infatti, ora si muove e ora è fermo, ed è per questo che non diremmo che il movimento è una proprietà di quel corpo, ma solo un suo possibile stato che proprio per la sua occasionalità ci spinge a cercarne le ragione. Così stanno le cose anche per il nostro esperire, e ciò significa che la percezione (o il pensiero) non è una proprietà essenziale, come tale indisgiungibile dall’io, bensì un evento che accompagna la vita della soggettività.
27) Per dimostrare che le cose stanno così, Locke si richiama al tema dell’identità personale (cfr. pp. 139 sgg.). Se c'interroghiamo sulle condizioni d’identità di un uomo si dovrà infatti sostenere che la sua identità è vincolata alla continuità nel tempo del suo corpo vivo. Con ciò Locke si mostra consapevole del fatto che l’aspetto dell’identità corporea muta nel tempo, e che forse di quel mucchietto di materia che eravamo tanti anni fa non è rimasto proprio più nulla. Il corpo nel tempo cresce, le sue parti si alterano e la sostanza che le compone viene sostituita da nuove molecole o da sempre nuove particelle di materia. Del nostro corpo, nulla resta di ciò che un tempo costituiva il suo essere, e tuttavia questo è ancora il nostro corpo poiché lo attraversa da sempre un’identica organizzazione vitale. Ora, queste considerazioni c’interessano perché mostrano come l’identità sia, per Locke, una categoria che si applica non alle cose in sé, ma alle cose così come noi le intendiamo. Il nostro corpo è fatto di molecole sempre differenti, ma in quanto corpo è lo stesso corpo: identità e differenza si scambiano il posto a seconda del modo in cui l’oggetto si configura come oggetto per noi. Richiamare l’attenzione su questo punto è importante perché c’invita a riflettere sul fatto che ciò che diciamo essere un identico uomo potrebbe non essere più un’identica persona, poiché in questo caso ciò che determina le condizioni di identità non è più la continuità nello spazio e nel tempo di una stessa vita animale, ma è l’unità della trama di un racconto: il racconto della coscienza che rammenta ciò che è stato e che crea, in seno all’individualità del corpo, l’unità e la singolarità di una persona, di un’entità narrativa che abbraccia – per Locke – solo ciò di cui essa ha memoria ed è consapevole.
28) 
Rispetto a questi temi, c’interessa rimarcare il senso della digressione compiuta lockeana. Locke vuole costringerci a vedere l’insensatezza di una concezione che, per rendere percorribile la tesi metafisica dell’inseparabilità della res cogitans dal suo effettivo pensare, c’invita a sorvolare sui problemi che comporta l’ipotesi di una percezione inconsapevole o di una vita di esperienza che possa interamente dissolversi senza lasciare tracce nella memoria. Una simile ipotesi scardina il nesso tra soggettività e identità personale e dev’essere come tale abbandonata. Infatti, una percezione inconscia, una percezione che non lasciasse traccia nella mia coscienza, è una percezione che non appartiene alla mia vita d’esperienza – poiché il soggetto dell’esperire non è l’uomo inteso come corporeità, ma la persona intesa come trama unitaria e ripetibile nel ricordo di ciò che è consapevolmente vissuto. Ma a prescindere da ciò, alla base della critica  lockeana della tesi sostenuta da Cartesio vi era anche il rifiuto dell’inadeguatezza e del carattere vizioso della logica cartesiana, ancora in gran parte reminiscente dei metodi dello scolasticismo. Locke rifiuta in particolare il principio della logica cartesiana secondo cui la natura reale di ciò che è potrebbe risultare determinata da un processo di pensiero puramente astratto [in linea con l’argomento ontologico]. Viceversa Locke considera – da bravo empirista – che l’esistenza reale possa essere provata solo attraverso l’esistenza reale, e che la nostra conoscenza di ciò che esiste – sulla quale sola può essere basata una dimostrazione dell’esistenza – dev’essere in ogni caso derivata da un’esperienza di qualche genere. Il punto di partenza della metafisica cartesiana era stato ottenuto attraverso l’argomento del Cogito ergo sum. In tal modo Cartesio aveva applicato al soggetto pensante – la cui esistenza egli ritiene indubitabile – i concetti correnti di sostanza e di essenza. Ciò che l’atto di pensiero ci rivela – secondo Cartesio – è l’esistenza di una sostanza che avrebbe nel pensiero la rispettiva essenza o qualità fondamentale. E poiché una sostanza non potrebbe esistere senza la sua essenza, ciò comporta la conclusione necessaria che la mente pensi sempre. Il pensiero, per Cartesio, era dunque sempre conscio di sé, del proprio operare. Naturalmente, a partire da questa posizione sia Cartesio sia i suoi seguaci s’imbattono in molteplici difficoltà quando devono spiegare l’esperienza così familiare del sonno o l’ipotetica vita dell’anima dei bambini non ancora nati [cioè del feto nel grembo materno, cfr. p. 146]: e tutto ciò offre naturalmente il destro alle critiche lockeane. Tuttavia, ciò che c’interessa è il modo in cui Locke porta la sua concezione della natura e delle condizioni della conoscenza a confrontarsi con tale questione. Per Locke, l’assunto secondo cui la mente pensa sempre non solo era infondato, ma era anche di quel tipo che la sua teoria ha poi dimostrato essere intrinsecamente incapace di giustificazione: e cioè a dire, un’affermazione universale concernente una questione di fatto. Come tale essa non potrebbe ottenere una giustificazione né dall’esperienza né dalla considerazione delle nostre idee astratte (o a priori). Ma consideriamo per prima l’evidenza che proviene dall’esperienza: «Dall’esperienza – dice Locke – sappiamo con certezza che talvolta pensiamo; da ciò traiamo la conseguenza infallibile che c’è qualcosa in noi che ha il potere di pensare. Ma se poi quella sostanza pensi di continuo o no, non possiamo saperlo con certezza se non in quanto ce lo dice l’esperienza» (p. 138). Essendo pertanto il parere dell’esperienza limitato, vediamo invece ciò che può essere ottenuto quando si fa appello al pensiero astratto. L’affermazione secondo cui l’anima pensa sempre non è – per Locke – una proposizione autoevidente. Quando infatti egli esamina il tentativo cartesiano di esibire tale proposizione come il contenuto di un pensiero chiaro e distinto, egli trova che la derivazione di tale proposizione viene data per scontato a partire da una concezione presupposta, ovvero – per meglio dire – da una definizione della natura dell’anima. «Infatti, dire che il pensare attuale [in atto] è essenziale all’anima e inseparabile da essa, significa postulare ciò che è in questione invece di provarlo con la ragione: cosa che invece è necessario fare, non essendo al cospetto di una proposizione autoevidente» (p. 138).
29) 
Come afferma molto ironicamente al riguardo Locke, «basta definire l’anima come una sostanza che pensa sempre, e il colpo è fatto» (p. 145). Secondo il punto di vista di Locke, noi possiamo certo elaborare ipotesi concernenti questioni di fatto che vanno al di là dell’ambito dell’esperienza attuale, ma tali ipotesi sono appunto incapaci di dimostrazione certa, e possono al massimo avere un certo grado di probabilità. Ma oltre a ciò, tali ipotesi – sostiene Locke – devono essere basate sui risultati dell’osservazione ed elaborate sulla base di analogie della nostra esperienza. A questo tipo di limitazione non si attengono viceversa i cartesiani, che – da buoni razionalisti – cercano di determinare questioni di fatto mediante le loro concezioni astratte, sebbene queste non siano in verità che ipotesi infondate o mere supposizioni. In un passo del Saggio aggiunto nella seconda edizione (del 1694) Locke dice infatti: «È dubbio se io abbia pensato o meno la notte scorsa. Poiché si tratta di una questione di fatto, è una petitio principii [ovvero una dimostrazione fallace, consistente nel presupporre per la dimostrazione un sinonimo o equivalente di ciò che si vuol dimostrare] portare come prova di ciò un’ipotesi che è la cosa stessa sulla quale si discute; con questo stesso metodo si può provare ogni cosa, e basta supporre che tutti gli orologi pensino quando si muove il bilanciere, ed ecco che abbiamo sufficientemente provato, al di là di ogni dubbio, che il mio orologio ha pensato tutta la notte scorsa. Ma colui che non vuole ingannare se stesso dovrebbe costruire la sua ipotesi su questioni di fatto e fondarla sull’esperienza sensibile, invece di presumere la questione di fatto a causa della sua ipotesi, e cioè perché suppone semplicemente che le cose stiano così. Questa maniera di provare equivale infatti a dire che devo aver necessariamente pensato tutta la notte scorsa perché un altro suppone che io abbia pensato, sebbene io stesso non possa percepire di farlo sempre» (p. 138). Un’obiezione analoga (e dello stesso segno) viene espressa da Locke nei confronti del modo di procedere cartesiano, quando egli ad es. afferma che «chiunque permetterà all’osservazione e all’esperienza di insegnargli qualcosa, e non farà della propria ipotesi una legge della natura, non troverà ad es. in un bambino appena nato molti segni di un’anima avvezza a pensare molto, e ne troverà ancora meno di ragionamenti qualsiasi» (p. 146), giacché il principio guida dell’empirismo lockeano è che non vi è ragione di credere che l’anima possa pensare prima che i sensi le abbiano fornito idee intorno a cui pensare: ne consegue che un uomo comincia infatti ad avere idee quando inizia ad avere sensazioni, in quanto non è pensabile che vi siano idee nello spirito prima che i sensi gliele abbiano trasmesse.