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Stefano Besoli

Professore ordinario

Dipartimento di Filosofia

Settore scientifico disciplinare: M-FIL/01 FILOSOFIA TEORETICA

Contenuti utili

Argomenti trattati nella prima settimana del corso di Filosofia teoretica (2-4 febbraio)

Principali tematiche affrontate

1) Il Saggio sull’intelletto umano di Locke tratta, principalmente, del problema della conoscenza. Locke intende determinare con precisione e sicurezza i limiti dell’intelletto. Le questioni inerenti al problema della conoscenza vengono sottratte all’intromissione della teologia speculativa. Come Locke afferma nell’Introduzione (p. 61): lo scopo è “d’indagare sull’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, insieme ai fondamenti e ai gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso”. Solo un’indagine siffatta è in grado di determinare i poteri dell’intelletto umano e di fissare dall’interno i suoi limiti. Il fine è quello di far sì che l’intelletto non s’intrattenga inutilmente con questioni che oltrepassano le sue capacità di comprensione.
2) Sulla genesi del Saggio (cfr. Epistola al Lettore, pp. 47 sgg.). All’origine del Saggio c’era un “argomento assai remoto” (p. 48) rispetto a quello trattato in tale opera. Era l’argomento di cui discutevano cinque o sei amici in una stanza della casa di Lord Ashley (nominato poi Conte di Shaftesbury), nella quale era ospitato lo stesso Locke. I temi oggetto di discussione parevano essere la morale e la religione, dato che Locke se ne era occupato a lungo trattando della tolleranza e della fondazione della legge di natura. Il richiamo a questi temi ci fa capire che la personalità intellettuale di Locke non è riducibile a quella d’indagatore di ciò che accade nel teatro della mente umana. Locke fu, infatti, il difensore di ogni forma di tolleranza e l’avversario di ogni dogmatismo intransigente. Fu anche il teorico politico e il principale ispiratore della “gloriosa rivoluzione” inglese del 1688.
3) C’è però anche un’altra ipotesi riguardante la genesi del Saggio. Tale ipotesi sostiene che al dialogo tra amici partecipassero una maggioranza di medici e che dunque gli argomenti trattati fossero per lo più di carattere medico (problemi di salute pubblica e di profilassi epidemica). questa cerchia di amici si era comunque costituita attorno a Lord Ashley, che era anche lo sponsor politico di Locke. Questa traccia interpretativa sostiene che vi sia un passaggio dall’empirismo medico a quello filosofico: Locke, del resto, aveva incontrato nel 1667 Thomas Sydenham, illustre clinico ed esponente della Royal Society). In altri termini, nel Saggio Locke avrebbe generalizzato l’uso di un metodo che Sydenham applicava allo studio delle malattie. Un metodo – storico e naturale a un tempo – a cui Locke si richiama, nell’Introduzione al Saggio, designandolo come un “semplice metodo storico” (p. 62).
4) Ci sarebbe dunque un’identità di vedute metodiche tra Locke e Sydenham e tra i rispettivi modi di condurre l’analisi. anche per Locke, infatti, si tratta di evitare ogni ricorso a spiegazioni di tipo speculativo, riconducendo l’analisi alla semplice osservazione, descrizione e classificazione dei fatti. Sulla scorta di Sydenham 8che si riferisce a Francesco Bacone), Locke si presenta nel Saggio come storico naturale della conoscenza. Il tentativo lockeano di fissare i limiti della conoscenza si basa su un’analisi storica delle idee che procede dai metodi utilizzati da Sydenham. Sia Locke sia Sydenham si riconoscono nel principio di attenersi a una descrizione fattuale dei fenomeni considerati. Sotto questo profilo, la distinzione metodologica che è alla base del pensiero di Locke non sarebbe tanto quella tra empirico e razionale, ma quella tra lo storico (o descrittivo) e il filosofico (o esplicativo): ovvero quella tra storia naturale e filosofia naturale.
5) Nel passaggio dall’empirismo medicale a quello propriamente filosofico si afferma, in tutta la sua estensione, un principio fondamentale dell’intera teoria della conoscenza lockeana. ovvero che la nostra conoscenza dipende solo dall’oggettività dei dati sensibili, da come cioè la nostra sensibilità li sperimenta. La nostra conoscenza obiettiva ha perciò in essi il contenuto fondante. In altri termini, nella materia da cui si sviluppano le conoscenze umane non vi sono elementi puramente intelligibili, che possano essere conosciuti come tali dal solo intelletto.
6) Nell’Epistola al Lettore compaiono altri aspetti notevoli che qualificano la filosofia di Locke. In primo luogo, il richiamo ad alcuni tra gli scienziati più eminenti dell’epoca (Boyle, Sydenham, Huygens, Newton, cfr. p. 51 sg.), a conferma del fatto che non è possibile staccare lo sviluppo della filosofia lockeana dalla grande tradizione dell’empirismo scientifico seicentesco (rappresentato in particolare dalla Royal Society). In secondo luogo, l’attenzione che Locke manifesta per le questioni linguistiche e per ciò che potremmo definire la “critica del linguaggio” (cfr. p. 52). Riprendendo i temi di una critica già presente nella tradizione umanistica, ma anche nelle riflessioni di Cartesio e di Hobbes, Locke sottolinea come gli abusi linguistici e i modi di dire vaghi e insignificanti rappresentino uno dei principali difetti del pensiero filosofico tradizionale, ancorché essi vengano spesso scambiati per forme di profonda erudizione e di alta speculazione.
7) Il tema della chiarificazione del linguaggio assume dunque una rilevanza fondamentale nell’economia del Saggio. Nell’affrontare una questione, è importante infatti esaminare i termini in cui essa viene espressa e, soprattutto, se gli interlocutori usano gli stessi termini con il medesimo significato, essendo questa la condizione affinché possa registrarsi un accordo non solo di stampo comunicativo. La verifica di tale aspetto può avvenire attraverso l’esame della definizione dei termini, la quale può essere ricostruita risalendo alle idee semplici che entrano nella composizione delle idee complesse denotate da tali termini. Da qui emerge l’aspetto forse più significativo dell’intero Saggio, riguardanti la chiarificazione – nei modi di una storia naturale – dei procedimenti attraverso cui l’intelletto forma le sue idee complesse.
8) Nell’Introduzione al Saggio (cfr. pp. 61 sgg.) compaiono indicazioni riguardanti il contenuto e il metodo dell’opera. In particolare, Locke distanzia la propria posizione da quella di Cartesio e Hobbes, sostenitori di un punto di vista meccanicistico tendente a indicare i termini fisici del processo che porta alla formazione delle idee. Nell’analizzare l’attività dell’intelletto Locke prescinde, invece, dal darne una spiegazione in termini fisici. La sua analisi è, infatti, di stampo introspettivo. Locke afferma di non volersi “immischiare nella considerazione fisica dello spirito o disturbarsi a esaminare in cosa consista la sua essenza” (p. 61). Locke non si preoccupa cioè d’indagare “con quali moti dello spirito o alterazioni del corpo veniamo ad avere sensazioni mediante i nostri organi o idee nel nostro intelletto, e se alcune o tutte queste idee dipendano o meno o meno, quanto alla loro formazione, dalla materia” (ibid.). Locke esplicita il suo proposito di “considerare le facoltà di discernimento dell’uomo, così come sono adoperate nei riguardi degli oggetti con i quali hanno a che fare” (p. 61 sg.). Con tali affermazioni Locke elegge a referente polemico la filosofia scolastica, ma anche gli esiti della metafisica cartesiana, distanziandosi dalla concezione meccanicistica che aveva prevalso nella prima metà del Seicento.
9) Lo scopo deliberato dello studio lockeano è “indagare sull’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, insieme ai fondamenti e ai gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso” (p. 61). Già in questa dichiarazione di metodo, Locke differenzia con nettezza la conoscenza in senso stretto da altre forme conoscitive (credenza, opinione, assenso). Tali forme di conoscenza hanno a che fare con il campo della probabilità o del verosimile, laddove con conoscenza tout court s’intende invece la conoscenza certa, di derivazione intuitiva o dimostrativa. Da un lato, quindi, Locke mantiene in vigore l’impianto razionalistico che aveva contraddistinto i suoi predecessori della prima metà del secolo, dall’altro amplia però il quadro d’indagine razionalistico, poiché nel Saggio fa il suo ingresso anche l’analisi della conoscenza probabile che Cartesio aveva tendenzialmente emarginato dal campo dei propri interessi gnoseologici. In questo modo, tutta una serie di conoscenze solo verosimili vengono reintrodotte da Locke alla considerazione razionale, per cui non si attua con ciò un depotenziamento della ragione, ma un suo adeguamento atto ad aprire la ragione a campi non rappresentati dal tipo di conoscenza certa a cui faceva esclusivo riferimento il razionalismo seicentesco.
10) Il fatto che l’indagine di Locke tragga indubbiamente ispirazione dall’antica tradizione empiristica della filosofia inglese – quella che da Ruggero Bacone a da Occam, attraverso tutta una serie di pensatori minori, giunge fino a Hobbes – non deve farci dimenticare (o anche solo sottovalutare) la componente razionalistica del suo pensiero. Per cogliere questa è sufficiente in prima approssimazione osservare che Locke ha innestato, sull’indirizzo di pensiero empiristico, alcuni capisaldi della filosofia cartesiana, e soprattutto il principio secondo cui l’unico oggetto del pensiero umano è l’idea. La tesi più appariscente e più nota della filosofia lockeana – quella che forse la qualifica più in profondità – è che le idee derivano dall’esperienza e che perciò l’esperienza è il limite invalicabile di ogni conoscenza possibile.
11) Su tale tesi si basa l’interpretazione di Locke – forse un po’ limitata – che Kant diede nella Critica della ragion pura (Analitica trascendentale), e secondo la quale Locke era visto come un fisiologo della conoscenza umana, e cioè come un pensatore che aveva cercato di mostrare la genesi di questa conoscenza dai gradi più semplici a quelli più complessi, senza preoccuparsi tuttavia di trovare (o anche solo di interrogarsi sui) fondamenti della sua validità. In altri termini, per Kant, Locke avrebbe illustrato la formazione naturale della conoscenza umana, senza nel contempo formulare una teoria critica della ragione capace di determinare i fondamenti e le condizioni del suo funzionamento.
12) In realtà, una lettura più disincantata del Saggio – e soprattutto una lettura sottratta alle ipoteche dell’interpretazione kantiana – mostra come l’intento di Locke non sia tanto quello di fornire una fisiologia dell’esperienza (conoscitiva), quanto semmai quello di formulare una teoria della ragione che sia al tempo stesso valida ed efficace: valida perché fondata sui limiti reali che l’esperienza impone alla ragione stessa; efficace perché atta a dirigere l’uomo in tutte le faccende della vita, e dunque non solo nell’ambito conoscitivo, ma anche in quello religioso, morale e politico.
13) Da questo punto di vista non vi è dunque antagonismo tra esperienza e ragione: la ragione infatti trova il suo materiale, e in generale le condizioni della sua agibilità, nell’esperienza, mentre questa trova la sua organizzazione e la sua capacità di controllo nelle tecniche della ragione. Ciò che peraltro distingue la «dottrina della ragione» di Locke dal razionalismo di coloro che lo hanno preceduto è il suo rifiuto di ridurre la ragione a una tecnica unica e infallibile, fondata su poche regole o principi che non si possono revocare in dubbio, e dai quali è possibile dedurre tutta la realtà senza quasi bisogno di ulteriori verifiche o esami.
14) Abbiamo detto dell’ipotesi più probabile relativa all’occasione della composizione del Saggio [un gruppo di amici riuniti a casa di Lord Ashley Shaftesbury nel 1670]. Il Saggio fu pubblicato nella sua interezza solo vent’anni dopo (e cioè nel 1690), anche se Locke vi ha lavorato ininterrottamente durante tutta la sua attività politica e diplomatica, a cominciare dagli abbozzi da lui delineati nel 1671, che ne contengono già i tratti fondamentali. Nella sua stesura definitiva il Saggio contiene l’indicazione di tutti gli scopi cui gli strumenti razionali dell’uomo dovrebbe servire. In primo luogo si tratta di scopi per così dire negativi: ovvero, come combattere l’ignoranza, il sapere fittizio, il dogmatismo e il fanatismo; in secondo luogo, invece, si fa menzione degli scopi positivi, come quello di difendere ed esercitare in ogni campo la libera indagine, graduare l’assenso in rapporto alle probabilità, stabilire i limiti tra fede e ragione, giustificare le regole morali e politiche e una fede religiosa che escluda il fanatismo, e che non si opponga in alcun modo ai diritti legittimi della ragione. Visto sotto questa luce meno parziale, che coglie meglio il senso generale dell’opera, lo scopo generale del Saggio non è quello strettamente teoretico o epistemologico, bensì è innanzitutto uno scopo pratico e umano.
15) Tornando a quei nodi di discussione rintracciabili nell’Introduzione al Saggio, occorre soffermarsi più da vicino su quello che Locke definisce come il «semplice metodo storico» (p. 62, con riferimento all’analisi che egli intende condurre all’interno della mente). Questo metodo si accontentava, per ammissione stessa di Locke, di «dare una qualche spiegazione dei modi in cui il nostro intelletto viene ad acquisire quelle nozioni che abbiamo delle cose», «a stabilire una qualche misura della certezza della nostra conoscenza o i fondamenti di quelle convinzioni così varie e diverse e del tutto contraddittorie che si trovano tra gli uomini» (p. 62). Tale metodo rispecchiava in pieno quel metodo d’indagine che in campo scientifico Sydenham e Boyle – sulle orme della baconiana storia naturale – avevano elaborato e seguito in quegli stessi anni. Per quanto riguarda Boyle, avremo modo di tornare sull’argomento, dato che gli esperimenti chimici di Boyle e il metodo (corpuscolare) da lui adottato hanno strettamente a che fare con quello che suole definirsi l’«atomismo» lockeano. Per quanto riguarda invece Sydenham, abbiamo in parte già visto come questi privilegiasse – nell’esercizio della sua arte medica – la descrizione e l’interpretazione dei sintomi (ovvero la semeiotica), il rinvenimento delle cause prossime delle malattie e l’indicazione dei rimedi specifici, rispetto alla formulazione di dottrine generali e al rifiuto di presupposti per così dire remoti (la dottrina medica di Sydenham rifiutava ad es. l’uso del microscopio). Da questo punto di vista, la delimitazione dell’ambito della ricerca, che il metodo storico professato da Locke comportava, non era solo in sintonia con le metodologie di questi scienziati inglesi del secondo Seicento, ma ben si accordava anche con le esigenze critiche che la teologia cosiddetta latitudinaria aveva risvegliato nei confronti di ogni sorta di dogmatismo, specie di stampo calvinistico.
16) Se dovessimo riassumere in una formula il metodo storico che caratterizza l’empirismo di Locke – assai distante da quella forma di empirismo baconiano tutto incentrato sulla sperimentazione ed essenzialmente fondato sul principio secondo cui occorreva forzare la natura, per mezzo della sperimentazione, costringendola quasi a rivelare la causa dei fenomeni – diremmo che si tratta di un metodo essenzialmente descrittivo. E cioè di un metodo che per quanto riguarda la conoscenza di un determinato argomento descrive i fenomeni, descrive i sintomi a prescindere da un’eventuale essenza della cosa che si ponga al di là di questo semplice piano fenomenico. La stessa dottrina di Sydenham faceva dipendere ogni progresso in medicina da due condizioni legate tra loro: l’osservazione esatta delle malattie e la definizione di un metodo di trattamento preciso e regolare. Per ciò che riguarda il primo punto, occorre sottolineare che Sydenham concepiva l’osservazione delle malattie come una storia delle malattie, secondo il modello delle storie naturali inaugurato da Francesco Bacone: cioè a dire come una descrizione a partire dai dati forniti dai sensi e registrati attraverso la memoria. Quando Locke parla, in relazione al compito che si è dato, di metodo storico, non dobbiamo dunque pensare alla storia nell’accezione di una disciplina eminentemente diacronica, ma appunto alla storia naturale nel senso in cui l’intendeva Bacone (e cioè come pura descrizione di fenomeni). Su questa base si capisce meglio anche perché Locke abbia dichiarato di non volersi occupare dell’aspetto fisico dello spirito, poiché ciò è qualcosa che si colloca al di là del fenomeno e del sintomo, costituendo in un certo senso quell’essenza o struttura reale delle cose, che è vano inseguire se ci si pone da un punto di vista rigorosamente empiristico.
17) In Locke c’era questa precisa intenzione di trascurare ciò che, essendo al di là del piano dell’esperienza, può essere unicamente dedotto, risultando quindi solo ipotetico; viceversa egli perseguiva l’inclinazione a limitarsi alle manifestazioni dell’esperienza, e in prima istanza a quelle dell’esperienza mentale. Anche su questo aspetto vi è un riscontro puntuale tra la dottrina lockeana e l’empirismo medicale di Sydenham, giacché questi pose come regola essenziale nello studio delle malattie il rifiuto delle ipotesi. Tale dottrina della natura si accompagna con un fenomenismo per così dire intransigente, che resta tuttavia di carattere più scientifico che metafisico. Infatti, ogni nostra conoscenza propriamente obiettiva è fondata solo sull’osservazione di ciò che appare immediatamente ai nostri sensi come effetto del mondo esterno. Al di là delle apparenze sensibili – concepite come l’impressione del reale sui nostri sensi – noi cadiamo infatti nel dominio dell’inconoscibile, sul quale possiamo formarci solo delle ipotesi. In altri termini, tutto ciò che concerne la natura delle cause prime resta per così dire estraneo all’impresa dell’intelletto. Se le cause ultime (le essenze dei fenomeni) sono considerate su questa base inconoscibili, esse sono però considerate come realmente esistenti sul piano della realtà esterna. Di conseguenza, il fenomenismo, così concepito, non si dissocia affatto da una dottrina realistica della conoscenza. Il punto di partenza della filosofia lockeana è indubbiamente l’intelletto (la mente), senza però che ciò porti a negare l’esistenza di un mondo reale fuori di esso, che resta alla stregua di un presupposto inconoscibile. Al riguardo, sembra cioè che Locke voglia sostenere che di tale realtà non sappiamo nulla, al di fuori appunto di ciò che il nostro intelletto può dirci.
18) Nel terzo paragrafo dell’Introduzione (p. 62 sg.), Locke espone il disegno complessivo del Saggio. In realtà però, la struttura del Saggio – nella successione dei quattro libri di cui esso si compone – non è esattamente questa, nel senso che l’indagine sull’origine delle idee (che viene menzionata per prima) occupa l’intero secondo libro, laddove il primo è invece dedicato alla critica dell’innatismo. Tutto ciò che viene menzionato in secondo e terzo luogo è contenuto nel quarto libro del Saggio, che si occupa appunto della conoscenza, ma anche della fede, dell’opinione, dell’assenso, dell’entusiasmo e dei rapporti fra fede e ragione. Il terzo libro occupa viceversa un’estensione minore, anche se – è di un’importanza fondamentale, riguardando quei temi di critica del linguaggio a cui abbiamo fatto riferimento. Nel quarto libro si trova, in particolare, una notevole insistenza sul fatto che un’adeguata analisi del funzionamento della nostra mente, e quindi anche dei limiti per essa invalicabili, sarà di grande aiuto per renderci più tolleranti: infatti, se noi ci rendiamo conto che su certe questioni il nostro intelletto non può dare una risposta definitiva, saremo di conseguenza anche più tolleranti con le opinioni altrui, rendendoci ad es. conto che certe affermazioni – che implicano anche degli atteggiamenti pratici – non potranno mai godere di quella certezza di cui godono le affermazioni di carattere matematico. Molti degli atteggiamenti intolleranti che Locke riscontrava all’epoca – e che si erano andati incrementando soprattutto durante la Guerra Civile – potevano essere attribuiti al fatto che ciascuno si riteneva possessore della verità, riteneva cioè di poter parlare disponendo di un fondamento certo per le sue affermazioni. È evidente dunque, secondo Locke, che se si elimina questa presunzione di certezza, se si è in grado di dimostrare che su tutta una serie di questioni l’intelletto umano non può giungere alla certezza alla quale si perviene in altri campi del sapere, probabilmente molte di queste dispute e soprattutto molta di quest’intolleranza dovrebbe venire a cadere. Ciò spiega anche la presenza nel quarto libro del Saggio di un capitolo sull’entusiasmo, ovvero sul fanatismo religioso. Obiettivo costante di Locke è per l’appunto il fanatismo, inteso come presunzione di parlare in comunicazione diretta con l’assoluto, e con ciò di parlare in piena verità.
19) In Locke è presente, da un lato, questa ricerca riguardante i limiti dell’intelletto, ma dall’altro vi è anche la persuasione che se noi determineremo i limiti entro i quali l’intelletto può giungere a conoscenze certe, eviteremo d’impantanarci in questioni che non possono essere risolte con assoluta certezza e, per altri versi, circoscrivendo questi limiti, saremo in grado di aver maggior fiducia nell’intelletto proprio in quell’ambito in cui esso è in grado di pervenire ad affermazioni e conclusioni del tutto affidabili. Viceversa, il disperdersi in discussioni di ogni genere – in ambiti in cui all’intelletto è preclusa comunque la certezza – può far credere agli uomini che comunque nessun tipo di certezza possa essere raggiunto. Esattamente come in Kant circoscrivere i limiti dell’intelletto o della capacità conoscitiva non significa limitare, bensì potenziare quell’ambito entro cui tale capacità può esercitarsi a pieno titolo.
20) L’ultimo paragrafo dell’Introduzione al Saggio è giustamente famoso, in quanto contiene la definizione di idea. Locke innanzitutto (p. 65 sg.) si scusa con il lettore per l’uso frequente che è costretto a fare della parola idea, ma che ciò è dovuto al fatto che questo termine è il più adeguato per «rappresentare qualunque cosa sia l’oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa» (p. 65). Questo termine è dunque usato per esprimere «tutto ciò che può essere inteso per immagine, nozione, specie o tutto ciò intorno a cui lo spirito può essere adoperato nel pensare» (p. 66). In sostanza l’idea non è altro che l’oggetto dell’intelletto allorché un uomo pensa. Questa definizione di idea presenta una notevole somiglianza con quella cartesiana. La prima indagine su cui si sofferma Locke riguarda il modo in cui le idee “vengono nello spirito” (p. 66).
21) Cartesio estende l’uso del termine idea a tutte le forme di conoscenza. È in questa accezione più ampia che se ne serve anche Locke, per il quale l’idea sta ad esprimere tutto ciò intorno a cui lo spirito può essere adoperato. Per correttezza filologica, occorre dire però che sebbene Cartesio parli occasionalmente di idee anche a proposito delle immagini della sensazione e dell’immaginazione (la quale opera sempre sulla base dell’attività sensoriale), non c’è dubbio che l’uso prevalente e tecnico del termine idea sia da mettere in relazione, in Cartesio, con l’attività dell’intellezione pura. Più volte infatti Cartesio dice di voler utilizzare il termine idea – al contrario di quanto fatto da Hobbes e Gassendi – solo per i concetti formati nella pura intellezione. Del resto, egli c’informa di aver prescelto il termine idea come nome dei concetti peculiari all’intellezione pura, in ragione del fatto che la parola idea era stata comunemente usata dai filosofi per indicare le forme di percezione o di concezione proprie della mente divina. C’interessa però un ulteriore fatto nella dottrina cartesiana. Cartesio dice infatti che così come le immagini – che derivano da procedimenti sensoriali o immaginativi – non possono costituire l’esatta rassomiglianza delle cose corrispondenti – e dunque si tratta di non cogliere le immagini sotto il profilo strettamente naturalistico della rassomiglianza, ma di avvicinarle piuttosto ai segni, alle parole che rappresentano le cose ma a partire da una struttura che è in qualche modo relativa alla forma delle cose rappresentate – a maggior ragione anche le idee che vengono formate dall’intellezione pura non devono esser viste come rassomiglianti alle cose concepite attraverso di esse. Cartesio ci dice, dunque, che le idee sono comparabili solo sotto un certo aspetto alle immagini. Le idee possiedono certo un carattere rappresentativo, cioè sono sempre idee di qualcosa. Tuttavia, esse non possono essere accomunate alle immagini e non possono avere un rapporto di rassomiglianza con le cose nel senso più letterale del termine. Questo uso del termine idea deve farci riflettere su quello che è un punto di accordo registrabile tra le posizioni di Cartesio e di Locke. E cioè sul fatto che per entrambi l’oggetto esterno non sia immediatamente presente allo spirito, ovvero che non gli è presente nella sua realtà – così come esso effettivamente è – bensì attraverso la mediazione di un’entità mentale (l’idea, per l’appunto) che, anche se prodotta dall’oggetto reale, intrattiene sempre con esso un rapporto per così dire problematico (nel senso che l’idea non va intesa necessariamente come una copia). Proprio nell’ultimo capitolo del Saggio Locke ci dice che “dal momento che le cose che lo spirito contempla non sono mai di per se stesse presenti all’intelletto – tranne lo spirito stesso – è necessario che qualcosa d’altro, come un segno o una rappresentazione della cosa considerata, sia presente allo spirito (intelletto); e questo è l’idea” (p. 819).
22) Per Cartesio, ovvero per il maggior esponente del razionalismo seicentesco, non ci sono altri oggetti di conoscenza al di fuori delle idee. La mente, infatti, non ha contatto diretto se non con ciò che le è, per così dire, connaturato, ed è solo attraverso la mediazione delle idee che si può avere conoscenza di ciò che è fuori di noi. Pertanto, l’idea è per Cartesio tutto ciò che è nel nostro spirito quando concepiamo una cosa, in qualunque modo la concepiamo. Pensare un oggetto significa per Cartesio avere un’idea di tale oggetto, ma non certo pensare semplicemente alla sua idea. Quando pensiamo un oggetto esterno, esso è obiettivamente nelle idee che ce lo rendono presente in tale forma, acquisendo così esso quel particolare modo di essere che è caratteristica essenziale delle idee: vale a dire, l’essere obiettivamente nella mente. In altri termini, Cartesio assegna questo modo di essere – che pur essendo imperfetto non è, a suo dire, un puro nulla – sia alle idee, che se lo aggiudicano per il fatto che rendono presente qualcosa alla mente, sia agli oggetti, in quanto sono appunto rappresentati dalle idee, sono nelle idee, non essendo in fondo le idee altro che gli oggetti in quanto percepiti.
23) Su un altro piano, però, Cartesio riconosce che nell’idea convivono in certo modo due aspetti: da un lato la sua relazione con il soggetto, dall’altro quella con l’oggetto. In un senso, cioè, l’idea sta per un’operazione dell’intelletto, per un modo di pensiero, in una maniera che Cartesio definisce materiale; in un altro sta per il contenuto di quell’atto, per la cosa rappresentata da quel tipo di operazione, in un modo che per contrasto viene definito formale. In rapporto al soggetto, l’idea si configura dunque come uno stato o condizione mentale che gli inerisce: In rapporto all’oggetto essa appare invece come la sua immagine o, per meglio dire, rappresentazione, e come tale è determinata dal possesso di una forma. Come atti di rappresentazione, e dunque sotto il profilo soggettivo, le idee sono assunte materialmente, costituendo cioè la materia indistinta di cui esse sono fatte. Viceversa è sul versante oggettivo, vale a dire come contenuti di tali atti, che si manifestano le differenze. È in funzione infatti della loro funzione rappresentativa, del loro essere forma di qualcosa, che le idee – prese dunque formalmente – mostrano di essere diverse l’una dall’altra.
24) Per Cartesio, l’idea è ciò attraverso cui qualcosa diviene per noi oggetto di conoscenza e pertanto l’idea non è solamente l’atto di pensiero di un soggetto, ma è l’atto di avere una determinata idea di qualcosa. Le idee, in quanto rappresentazioni, sono perciò gli oggetti di atti che Cartesio chiama genericamente percezioni. Circa poi l’effettivo statuto delle idee (o rappresentazioni), va detto che esse non possono corrispondere sul piano linguistico a meri nomi, poiché e del tutto evidente il loro carattere proposizionale. Il fatto cioè che esse fungano da concetti o contenuti proposizionali deriva dalla circostanza che la loro funzione rappresentativa è di stampo strutturale e metaforico, più che ingenuamente raffigurativo. Un ultimo aspetto da sottolineare, è quello che riguarda la differenziazione delle idee. Secondo Cartesio le idee possono distinguersi a) per una distinzione nel loro contenuto; b) per una diversa combinazione degli elementi di cui l’idea si compone; c) per la diversa origine delle idee. In particolare è quest’ultimo criterio di distinzione che c’interessa, giacché com’è noto Cartesio distingue al riguardo tra le idee avventizie, che hanno origine direttamente o indirettamente dai sensi; le idee fattizie, che dipendono dalla nostra volontà, e sono dunque formate da noi; e le idee innate, che hanno la loro origine solo nell’intelletto, e cioè che non derivano dai sensi ma che ci è dato conoscere in maniera in qualche modo indipendente dall’esperienza sensibile. Proprio su questa base Cartesio non sembrerebbe attenersi dunque al noto adagio scolastico – a cui si attiene invece l’empirismo di Locke – secondo cui non vi sarebbe nulla nell’intelletto che prima non fosse anche nel senso (nella sensazione).
25) La concezione rappresentazionalistica della percezione, che Locke fa propria, ci pone al cospetto a un modo indiretto (e dunque incerto) di cogliere la realtà (che ci è data in qualche modo per procura). Se la conoscenza si esaurisce nel possesso delle idee e delle relazioni tra idee che sono presenti alla mente come unico oggetto di cui essa dispone, quale sarà infatti la garanzia che tali idee e le loro relazioni ci informino realmente sul mondo? Come farà in altri termini la mente, che percepisce solo le sue idee, a conoscere che esse concordano con le cose? Capite bene che dietro a questi interrogativi si palesa lo spettro dello scetticismo, giacché un regno delle idee minaccia di soppiantare il mondo degli oggetti e degli eventi fisici. La dottrina lockeana sembra sostenere che la conoscenza del reale ha bisogno di un intermediario tra la mente (che esercita la funzione conoscitiva) e il riferimento oggettuale ultimo. Questo intermediario, però, costituisce ciò che è immediatamente dato al pensiero, e dunque in qualche modo finisce per rappresentare l’oggetto ultimo del pensiero stesso (ciò in cui la conoscenza ha termine).
26) L’effettivo trattamento delle idee fatto da Locke rischia di essere in qualche modo ambiguo, tanto che ai più è sembrato pressoché impossibile non solo dare un’unica definizione del termine lockeano di idea, ma anche ottenere un quadro coerente delle relazioni tra l’idea e la mente che Locke istituisce. Per Locke, infatti, l’idea sembra essere, a un tempo, l’apprensione di un contenuto e il contenuto appreso; vale a dire, è sia qualcosa che esiste in maniera psichica nella mente, sia un significato logico, un contenuto con valenza gnoseologica. Nel contempo anche la mente sembra assumere una duplice accezione. In un senso essa sta a significare ciò che unifica le varie funzioni conoscitive, esperienziali, volizionali; in un altro essa è il luogo delle idee. Nel primo senso la mente percepisce le idee, nel secondo essa le contiene. Al riguardo, il solo punto chiaro è quello che riguarda la funzione dell’idea: e cioè, il fatto che essa rappresenta qualcosa che esiste all’esterno della mente, anche se tale rappresentazione non può dirsi però esaustiva.