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Stefano Besoli

Professore ordinario

Dipartimento di Filosofia

Settore scientifico disciplinare: M-FIL/01 FILOSOFIA TEORETICA

Contenuti utili

Stefano Besoli – LEZIONI SU KIERKEGAARD



Lezioni della prima settimana

1) Breve inquadramento della filosofia di Kierkegaard, con particolare riguardo alla tematica (psicologica) dell’angoscia e a quella (dogmatica) del peccato.
2) Su alcuni degli aspetti più rilevanti della biografia di Kierkegaard (“figlio della vecchiaia”, maledizione paterna, morte dei fratelli, rottura del fidanzamento con Regine Olsen).
3) Alcuni cenni sulla congiuntura storica in cui si colloca la vita e l’opera di Kierkegaard (sul ruolo della Danimarca e della cultura danese nella prima metà dell’Ottocento).
4) Il tema della crisi e dell’inquietudine alla base della filosofia dell’esistenza kierkegaardiana. Brevi indicazioni sulle influenze esercitate dal pensiero di Kierkegaard in relazione alla filosofia del Novecento, alla letteratura di stampo esistenzialista, alla teologia e alla psicopatologia contemporanee.
5) Sul tema e sul significato della comunicazione indiretta (maschere, pseudonimi: nel Concetto dell’angoscia, Vigilius Haufniensis).
6) Il tratto anti-intellettualistico (ma non irrazionalistico) dell’esistenzialismo kierkegaardiano e la sua opposizione al carattere speculativo della filosofia del “sistema” e, in particolare, al panlogismo hegeliano.
7) Sull’aspetto pluridimensionale dell’esperienza umana e sulla rilevanza assegnata alla problematica del Singolo.
8) Su alcuni aspetti emergenti dall’esergo dell’opera (p. 9): contrapposizione tra il “tempo della distinzione” e lo spirito del “sistema” nella sua definitiva chiusura. Riferimento alla figura di Socrate (Kierkegaard fu denominato il “Socrate danese”) e alla ripresa dell’insegnamento di Socrate – in età kantiana – effettuata da Hamann (contro il razionalismo e l’illuminismo).
9) L’ironia di stampo socratico come cifra stilistica del discorso kierkegaardiano (come emerge, ad es., nella Prefazione, p. 13 sg.).
10) Il problema del peccato e la definizione del campo epistemico relativo alla sua indagine. Il rapporto tra psicologia e dogmatica:sul carattere propedeutico dell’analisi psicologica in ordine alla “possibilità del peccato”.
11) L’angoscia come disposizione o tonalità emotiva (Stimmung) ovvero come stato d’animo. Equivocità del concetto di angoscia che copre uno spettro assai ampio di riferimenti. Distinzione tra il carattere indeterminato dell’angoscia e quello determinato della paura (o timore).

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Lezioni della seconda settimana
1) Peccato originale e peccato ereditario (peccaminosità). Il problema di una genesi psicologica del peccato. Il rapporto tra la reale possibilità del peccato e la libertà dell’individuo (del Singolo). L’origine del peccato non può essere spiegata logicamente.
2) La dogmatica tradizionale non riesce a spiegare il peccato, ma lo presuppone solo come idea. Procedendo a ritroso dal peccato del Singolo a quello di Adamo – attraverso il peccato ereditario – la dogmatica non riesce a spiegare la possibilità reale del peccato, ma solo la sua possibilità ideale, e cioè la peccaminosità dell’uomo quale condizione oggettiva della possibilità del peccato. Per effettuare un’indagine sulla possibilità reale del peccato è necessario, quindi, effettuare un’analisi psicologica del fenomeno dell’angoscia come condizione soggettiva della possibilità del peccato. Di qui la necessità di fornire una nuova lettura del terzo libro del Genesi che tenga conto anche dell’idea moderna di libertà.
3) Il difetto di tutta la filosofia moderna consiste, per Kierkegaard, nell’aver messo tra parentesi l’idea cristiana di fondo secondo cui l’uomo è un peccatore. Il limite delle dogmatiche tradizionali consiste nell’aver destoricizzato la figura di Adamo, nell’averla estrapolata dalla storia del pensiero umano, che così finisce per avere un inizio fantastico, un preludio divino, attribuendo così un’importanza eccessiva al peccato d’origine, alla caduta del primogenitore.
4) Sotto il profilo epistemologico, ogni indagine specifica deve fare riferimento a un campo determinato. Hegel sembra trasgredire tale condizione laddove sostiene – come espressione del suo panlogismo – che tutto ciò che è razionale è reale (e viceversa). In altri termini, la ragione sembra poter includere in sé la realtà, per cui la logica non solo coglierebbe il reale, ma s’identificherebbe con la realtà. Per Kierkegaard, invece, il campo della realtà è distinto da quello della logica. Il campo della logica è in qualche modo astratto rispetto a quello della realtà, che è dunque irriducibile al pensiero.
5) Al pari delle altre scienze, la logica non può cogliere la realtà effettiva nel suo complesso. Se così fosse, la logica esaurirebbe la realtà, rendendo perciò impossibile qualsiasi altra scienza. Viceversa, proprio la presenza di una molteplicità di scienze discende dal fatto che ve n’è nessuna che possa includere in sé la realtà esistenziale nella sua interezza. La realtà, infatti, è multiforme, per cui pretendere di unificarla (o di omologarla) sarebbe come «trovare tra cose diverse accordi di mere parole» (p. 15). Un accordo meramente verbale non può corrispondere, dunque, a un’effettiva armonia. Ogni scienza rimanda per così dire a un’altra, e ognuna ha un presupposto scientificamente indimostrabile. Nella fattispecie, sia la psicologia sia la dogmatica manifestano la necessità del presupposto e chiariscono il senso della sua funzione. Per Hegel, invece, non c’erano presupposti, dal momento che ragione e realtà s’identificano. Per Kierkegaard, la filosofia e la scienza non sono in grado di cogliere la realtà come un tutto, ovvero di coglierne la totale identità. Dietro alla posizione di Kierkegaard si avverte la presenza della critica kantiana della metafisica, come scienza assoluta capace di cogliere la totalità del reale. L’identità del tutto rappresenta un’astrazione e non va interpretata comunque come un’identità sostanziale (ovvero della sostanza). Anche il principio d’identità (A=A) non può essere interpretato in termini sostanzialistici, come sembra invece avvenire nella metafisica aristotelica, intesa come prote episteme (come scienza prima). Anche Dio, come principio assoluto, non può essere concepito come realtà identica. L’esistenza di Dio non è dimostrabile, secondo Kierkegaard, con argomenti logici. Richiamarsi all’identità del tutto (della realtà nella sua interezza) significa far cadere le differenze e Hegel sembra essere incorso in questo errore, lasciando in primo luogo cadere la differenza tra logica e realtà. Per Kierkegaard, Dio non può essere afferrata logicamente, facendo rientrare la teologia nella metafisica.
6) Secondo Kierkegaard, Hegel non sarebbe riuscito – attraverso la dialettica – a superare davvero il principio d’identità e la sua immediatezza. Per Kierkegaard, la dialettica di Hegel è falsa, così come lo sono la sintesi e la mediazione tra opposti. Riferimento (p. 15) alla terza sezione del secondo libro della Logica di Hegel, intitolato «la realtà» (die Wirklichkeit). La parola “realtà” non è la realtà concreta ed esistente. La categoria della realtà è una pura forma logica. La logica è uno svolgersi di tautologie, nel senso che nelle conclusioni si trova ciò che è già contenuto nelle premesse. La concretezza della realtà non si configura, però, come tautologica e necessaria. Non c’è identità tra razionale e reale, tra logico ed esistente, il che comporta anche una differenza qualitativa irriducibile tra il campo dell’esistenza e quello della trascendenza (Dio). Anche per questo l’uomo non può essere in comunicazione diretta con Dio, giacché una comunicazione del genere si tradurrebbe in identità.

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Lezioni della terza settimana
1) L’errore della logica è credere che la categoria di realtà sia identica alla realtà nella sua concretezza esistenziale. Lo stesso errore lo commette la dogmatica quando chiama la fede l’immediato (p. 16). L’immediato è tale perché non comporta mediazione. Al pari del principio d’identità, anche l’immediato rappresenta un’astrazione, giacché viviamo sempre nel tempo e nella relazione. La filosofia, come le scienze in genere, non deve però partire dall’immediato ma da un presupposto. Dal punto di vista della filosofia dell’esistenza kierkegaardiana il presupposto è inevitabile e non passibile di dimostrazione. L’esistenza di cui tratta Kierkegaard, nella sua riflessione cristiana, non è però qualcosa di unitario e privo di contrasti. Anzi, il presupposto di tale filosofia della differenza è di natura problematica, nel senso che comporta una situazione spezzata e angosciosa che attende di essere esistenzialmente superata e risolta. L’esistenza non è per così dire pacificata, in quanto ha – come presupposto contraddittorio – la condizione negativa di essere nel peccato. Il presupposto è, quindi, la contraddizione costituita dal peccato. La realtà non esprime un grado di perfetta conciliazione, ma si dà – nella sua concretezza – come attraversata da un’angoscia che necessita l’intervento salvifico della fede. Il presupposto della realtà del peccato è indimostrabile, mentre l’errore di Hegel è consistito nel considerare la realtà come conciliazione, ovvero come risultato di una contraddizione meramente illusoria e non riconosciuta come tale.
2) La dogmatica ha torto quando afferma che la fede coincide con l’immediato. In tal senso, infatti, la fede non avrebbe rapporto né con Dio, né con la concreta rivelazione storica del logos. Iniziando dall’immediatezza, “invece di presupporre un inizio anteriore” (p. 16), essa si sarebbe condannata ad essere un pensiero dell’identità, incapace di porre una relazione quale condizione di un autentico pensiero. Di qui la critica che Kierkegaard sviluppa nei confronti della dialettica hegeliana, a partire dalla messa in discussione della “conciliazione” (Versöhnung: che in teologia significa anche redenzione). Anche la metafisica antica ha sempre ritenuto di poter cogliere la realtà col pensiero, riconoscendo tra l’altro nella realtà la presenza di termini antitetici tra cui operare una sintesi. Questa traccia dialettica, presente nella tradizione filosofica, viene riscoperta da Hegel con piena consapevolezza. Lungo questo percorso, Kant aveva però sollevato il dubbio circa ciò di cui la metafisica era certa: vale a dire, la capacità del pensiero di porre la realtà. L’intervento di Hegel è consistito nel “condurre a fondo lo scetticismo di Kant” (p. 16). Per Hegel, non è vero pensiero quello che pone la realtà fuori di sé. Il vero pensiero, e cioè la ragione dispiegata, è quello in cui tale dualismo viene per così dire superato. Il vero pensiero sancisce la propria identità col reale: la realtà è razionalità e viceversa. Hegel non fa che ristabilire la situazione anteriore alla critica kantiana, non dando per scontata la risoluzione del problema, ma avendo consapevolezza che occorre risolverlo.
3) Kierkegaard contesta che la soluzione di Hegel rappresenti davvero qualcosa di nuovo. Da un lato, infatti, Hegel presenta in forma nuova qualcosa di già presente nella filosofia antica: dall’altro, però, Hegel si spinge a voler conciliare i termini che Kant aveva distinto (pensiero e realtà, soggetto e oggetto). In questo modo designa come conciliazione un semplice ritorno a un’identità prekantiana. Su questo piano, Kierkegaard non riconosce la presenza di un’autentica conciliazione, cosicché – lungi dal costituire la soluzione di un enigma – la posizione hegeliana sembra aver piuttosto dissolto l’enigma stesso, non riconoscendo nemmeno i due termini da conciliare. Rispetto però al tentativo di conciliazione operato dalla metafisica pre-kantiana, Hegel ricorre a un concetto di “mediazione” quanto mai “ambiguo” (p. 17), proprio perché con ciò si indica, al contempo, il “rapporto tra due termini e il risultato di tale rapporto” (p. 17). La mediazione istituita da Hegel non intende conciliare solo due realtà antitetiche poste dal pensiero, ma anche ciò che Kant aveva tenuto ben distinto (pensiero e realtà, soggetto e oggetto, soggetto conoscente e oggetto conosciuto). Nello schema hegeliano non si hanno però tre diverse realtà in successione tra loro (tesi, antitesi e sintesi), giacché la realtà della sintesi non sembra essere qualcosa di diverso dalla relazione di opposizione tra tesi e antitesi. La relazione tra opposti viene prima considerata come relazione di opposizione, ma poi come risultato dell’opposizione stessa. L’ambiguità della mediazione hegeliana consiste, per Kierkegaard, nel fatto che la relazione tra due termini opposti è intesa sia come relazione, sia come superamento della relazione stessa. In altri termini, la relazione di opposizione è vista sia come problema, sia come risoluzione del problema stesso. Da questa falsa impostazione consegue che Hegel pretende di cogliere nella mediazione dialettica un movimento che va dal problema alla soluzione, dall’opposizione alla mediazione, ma – essendo la mediazione identica all’opposizione – tale movimento non c’è, essendo al tempo stesso quiete (cfr. 17).
4) Oltre che ambigua, la mediazione hegeliana è secondo Kierkegaard illusoria, in quanto Hegel considera opposizione ciò che a ben vedere non è tale: presentando infatti l’opposizione tra tesi e antitesi, Hegel ha già deciso che essa è già di per sé una sintesi, trasformando perciò in risultato quanto aveva indicato come premessa. Di qui il carattere tautologico di un processo puramente logico, distinto da una reale processualità storica di carattere temporale. La logica ritrova infatti, al termine del proprio cammino, ciò che aveva posto all’inizio, senza cioè mettere in conto quel presupposto che rende possibile il filosofare e, in particolare, il declinarsi di una filosofia dell’esistenza. Per sfuggire alla vuota identità, il pensiero deve sempre porsi in relazione con qualcosa che è al di fuori di esso e che lo trascende. L’identità che Hegel spaccia, in maniera falsa, per opposizione, o la fiducia – tipica della filosofia prekantiana – di cogliere ed esaurire il reale con il pensiero, non soddisfano i requisiti della filosofia dell’esistenza kierkegaardiana, che sperimenta costantemente – nella finitudine dell’esistenza umana – una non-identità rispetto al piano della trascendenza.
5) L’uomo si trova sempre in una situazione finita, in cui si riconosce nel peccato: di conseguenza, il suo rapporto con la trascendenza è l’angoscia. L’essere nel peccato, con l’angoscia che ne consegue, è il presupposto contraddittorio nel quale l’uomo si trova. Tuttavia, il riconoscimento di tale presupposto può darsi solo riconoscendo anche la trascendenza. La fede rappresenta la via d’uscita rispetto a tale situazione contraddittoria. Il superamento dl problema (proballein: gettare dinanzi per trovare una soluzione) attraverso la fede avviene, sotto il profilo della storicità, riconoscendo la negatività del peccato, e dunque il problema in quanto tale. A differenza che in Hegel, per Kierkegaard tra contraddizione e soluzione – tra tesi e antitesi, da un lato, e sintesi reale da un altro – c’è sempre il richiamo alla trascendenza. Solo così la sintesi può configurarsi nella sua concretezza storica. L’orizzontalità della storia s’interseca con la verticalità della fede, che conferisce allo sviluppo storico un vero movimento. L’opposizione tra tesi e antitesi non è più, qui, frutto di astrazione, ma diviene il presupposto, il negativo concretamente rappresentato dal peccato. La situazione problematica, che attende di essere risolta, crea angoscia in presenza del rapporto che l’uomo intrattiene con l’eterno. La positività del rapporto con la fede crea effettivamente la sintesi come soluzione concreta. L’atto di fede richiede, però, la presenza di due movimenti. Nel primo, l’uomo – riconoscendo la situazione negativa – tende al positivo, e cioè a quel bene (Dio) che manca nella sua esistenza finita e contraddittoria. Di qui l’innalzamento in verticale verso la trascendenza. Tuttavia, questo primo movimento non rappresenta di per sé la soluzione (la sintesi), giacché non basta che l’uomo si acquieti per così dire in Dio, dovendo invece affrontare la situazione problematica e contraddittoria che attende di essere risolta. Di qui il ritorno sul piano dell’orizzontalità, in cui la soluzione ottiene una concreta realizzazione storica. L’amore di Dio, privo della possibilità di operare un’effettiva soluzione della situazione negativa, finisce per essere amore per se stessi, mero rispecchiamento di sé in Dio. La fede richiede sempre un’attuazione nella vita, ovvero si confronta con l’assurdità che possa avvenire ciò che sembra impossibile. La fede, quindi, si muove verso l’infinito per tornare al finito. Con la fede con si perde mai di vista il mondo finito, non ci si rifugia in maniera ascetica in un altro mondo, ma si riguadagna il mondo nella sua piena integralità. Per dare concretezza alla dialettica hegeliana, occorre anzitutto negare l’identità tra reale e razionale; poi occorre riconoscere un presupposto e viverlo come situazione negativa: riconoscerlo come peccato crea uno stato di angoscia, ovvero la condizione del superamento del peccato attraverso la fede. La fede, però, deve risolvere la situazione negativa nel finito, poiché solo così potrà darsi una vera conciliazione e un’effettiva mediazione.
6) Kierkegaard critica però anche una certa coloritura etica della conciliazione hegeliana. Quando Hegel parla di contraddizione, sembra sottintendere che si tratti di un male, per cui la sintesi si presenterebbe invece come un bene. Qui logica ed etica tendono a confondersi, delineando un superamento in senso logico di ciò che è male. In questo modo, però, l’uomo finirebbe per non trovarsi mai nel peccato e per non vivere la situazione dl pentimento. Del pentimento non si può tuttavia render conto in termini logici o etici. L’etica è la scienza che si occupa del bene comune e che riconosce la direzione ideale verso il bene propria dell’uomo. Il pentimento ci mette viceversa al cospetto di un’inclinazione verso il male. Tale inclinazione non può essere però spiegata dall’etica, che deve presupporla come peccato. se l’etica spiegasse tale inclinazione al male finirebbe per considerare il passaggio dal male al bene come una sorta di sviluppo logico in termini di mera consequenziarietà. L’etica sarebbe con ciò al centro di una tensione contraddittoria, dovendo spiegare il male e il pentimento, ma rischiando con ciò di trasfigurarne la natura in questo tentativo di spiegazione. L’etica, come tutte le altre scienze, non può essere una scienza senza presupposti, e segnatamente non può sussistere senza far riferimento al peccato e dunque alla dogmatica. Anche la dogmatica però corre il rischio di tradire il proprio statuto allorché viene assunta in un senso hegeliano. Anche la rivelazione infatti, nella sua autenticità, necessita di un riconoscimento trascendente. La dogmatica non può risolversi, cioè, sul piano logico o, per converso, appiattirsi su un immediatezza di stampo storico che comporterebbe a sua volta un’astrazione. Un fatto storico, foss’anche quello inerente alla rivelazione del logos, richiede sempre il riconoscimento del peccato, della fede, dell’incarnazione della trascendenza nella storia, per cui non ha nulla d’immediato né sotto il profilo logico né sotto quello storico.
L’etica cerca la conciliazione, così come la cerca la dogmatica. Tuttavia, l’accettazione di una comune posizione hegeliana compromette sia la posizione dell’etica, sia quella della dogmatica, che finiscono perciò per contendersi la conciliazione (p. 17).
7) Per Kierkegaard, la logica hegeliana è tautologia, ovvero è essenzialmente identità. “Tutto ciò che è logico è” (p. 18): in logica, dunque, nulla diviene, nulla è processo. Hegel vuole invece affermare la processualità della logica, servendosi del negativo per trasformarla in un divenire. Viceversa per Kierkegaard la logica è ferma e il suo movimento è stasi (quiete). Il vero movimento sta fuori della logica, la trascende, decretando così l’impotenza della logica nei confronti della realtà. In ciò sta la negatività della logica, vale a dire il suo non poter essere reale e il non poter avere un movimento. Il negativo, per Kierkegaard, è ciò che non è nella logica, per cui non potrebbe essere utilizzato hegelianamente per far muovere la logica. Anzi, il negativo di Hegel non è che un “fantasma” (p. 18). Per uscire da tale impasse il negativo potrebbe essere interpretato come il contrario che si contrappone al contrario, ma in questo modo – seguendo l’argomentazione del Sofista platonico – il negativo sarebbe pur sempre qualcosa: ovvero, sarebbe qualcosa di positivo che si contrappone a qualcos’altro di altrettanto positivo, smarrendo quindi la sua negatività. Per questo, secondo Kierkegaard non c’è possibilità, per Hegel, d’imprimere un movimento alla logica attraverso il negativo, così come sul piano dell’etica hegeliana – nella quale il negativo logico si configura come il male – fallisce il conseguente tentativo di risolvere l’etica sul piano della logica.
8) Argomento centrale della trattazione kierkegaardiana resta, però, il legame tra angoscia e peccato. Una volta riconosciuto il presupposto costituito dal peccato, si prende in considerazione il superamento del peccato che, per l’appunto, crea l’angoscia. Kierkegaard si propone, quindi, di trattare la questione dell’angoscia sul piano psicologico. Ciò non significa, però, dare una risoluzione psicologistica al problema del peccato, giacché in tal modo si finirebbe per replicare l’errore di risolvere il peccato in chiave logica o in chiave etica. Il peccato appartiene il peccato è la contraddizione, che è comica o tragica (p. 20). Indagare il peccato da questo punto di vista vorrebbe dire, però, sfigurarne la natura, trasportando il peccato nella sfera estetica. Il peccato verrebbe cioè sottratto alla sua atmosfera, nel senso che il peccato non verrebbe affrontato con lo stato d’animo che gli corrisponde – la serietà – ma sarebbe falsificato in senso estetico (p. 20). Ogni ricerca filosofica o indagine scientifica necessita di un certo stato d’animo, capace di conferirle l’espressione più adeguata. Con ciò Kierkegaard non intende però proporre un’immagine arretrata dell’indagine scientifica, nella quale troverebbe di nuovo posto la sfera psicologica dell’emotività, quasi a inquinare il richiamo alla neutralità e all’oggettività tipico della scienza in genere. Kierkegaard sottolinea più volte, in vari scritti, come l’operare della scienza si accompagni a un carattere di sobrietà. In questo contesto, Kierkegaard critica però una certa neutralità del discorso scientifico, nel senso che l’oggetto indagato non si contrappone in modo naturalistico al soggetto conoscente, ma intrattiene con esso una sorta di complicità o, quantomeno, di relazione. In quanto disciplina scientifica, alla psicologia corrisponde lo stato emotivo della curiosità (p. 20). Tutte le discipline scientifiche si reggono del resto sulla curiosità, la quale indirizza a un comportamento osservativo metodico e perseverante. Il peccato, come oggetto di studio della psicologia, non è però uno stato da cogliersi esclusivamente sotto il profilo osservativo. Tra l’altro, se così fosse, lo stato d’animo della psicologia sarebbe una curiosità “fatta di antipatia” (20), mentre invece lo stato d’animo giusto per affrontare il peccato è la “resistenza coraggiosa della serietà” (p. 20). Il luogo in cui il peccato ha posto è il colloquio, il dialogo tra un io e un tu, tra due Singoli: ovvero ciò che Kierkegaard chiama “predica” (p. 20). Emerge, quindi, che il peccato non ha posto in alcuna scienza, avendo invece a che fare con l’arte del predicare o, per dirla socraticamente, con l’arte del conversare. I Sofisti sapevano parlare, ma non sapevano conversare. Erano tecnici della parola e del linguaggio, pagati per sostenere una determinata posizione e, quindi, capaci di dire tutto e il contrario di tutto. Ai Sofisti mancava, però, il “segreto dello colloquio”, vale a dire “l’approvazione” (p. 21).
9) Il peccato non ha un posto specifico in alcuna scienza, e tuttavia peccato e fede si trovano un po’ ovunque. In ogni caso, ogni indagine inerente al peccato rimanda, di necessità, alla dogmatica. Lo stato d’animo richiesto dal peccato è sempre la serietà. Del peccato non si può essere semplicemente curiosi od osservatori, più o meno interessati. Il peccato non può essere scandagliato in termini per così dire anatomici, sviscerandone gli aspetti più minuti, o analizzato in funzione del suo impatto sociale e di una morbosità pubblica. Dal punto di vista teologico – privilegiato da Kierkegaard – la trattazione del peccato non può trovar posto nella psicologia in cui, come disciplina scientifica, prevale la curiosità e l’osservazione. La serietà necessaria ad affrontare tale argomento sembrerebbe rimandare dunque alla metafisica, in quanto – trattandosi, per certi versi, della scienza del tutto – essa pare idonea a ospitare lo studio di un oggetto sui generis (il peccato) che si trova in ogni luogo. Nondimeno, lo stato d’animo proprio della metafisica è “l’impassibilità e l’indifferenza dialettica” (p. 20), cosicché nemmeno la metafisica può trattare del peccato, a meno di non deformarne la natura in ragione di un’impassibilità che lascerebbe intendere la possibilità che tutto possa essere “superato” attraverso il pensiero e che anche il peccato, quindi, non possa resistere al pensiero stesso. La metafisica scommette sul fatto che il pensiero possa assimilare il proprio oggetto (come nel caso della metafisica prekantiana). In tal senso, anche Hegel non fa eccezione, in quanto l’oggetto reale sembra essere, per lui, solo un momento dialettico della ragione. In questo modo, il peccato è un oggetto che il pensiero domina al pari di tutti gli altri , non essendo più quella situazione esistenziale, quella concreta situazione d’angoscia che dev’essere superata attraverso la fede. D’altronde, rimanere impassibili nei confronti del peccato significherebbe farlo scomparire, e non c’è scienza che possa indagare ciò che non vede o di cui non ha esperienza. Il peccato è uno strano oggetto, che non si lascia ridurre a oggetto e che non trova posto né nella metafisica, né nella psicologia. La serietà con cui si deve affrontare il peccato impone di non essere quasi femminilmente (“come una donna, p. 20) dominati da esso, ma di cercare di vincerlo, superandolo. Il peccato non può essere considerato, astrattamente, uno stato mentale (o della psiche). Essendo, viceversa, una situazione esistenziale, volerlo cogliere logicamente attraverso concetti significa decretarne la scomparsa. Da ciò consegue che il peccato non rientra, in senso proprio, in nessuna forma di conoscenza, trattandosi della condizione esistenziale dell’uomo, del presupposto per eccellenza. Anche la conoscenza, infatti, ha nel peccato la propria situazione esistenziale, il presupposto da cui deve necessariamente partire e dal quale non può prescindere. L’uomo non sbaglia infatti solo dal punto di vista astrattamente conoscitivo, ma è già nella “non verità” nella misura in cui si riconosce come peccatore. Il vero “conosci te stesso” contempla, anzitutto, il riconoscimento di tale singolarità. L’uomo non può quindi riconoscersi nell’astrattezza e generalità di un “io trascendentale”, né pensare di risolvere la propria esistenza nell’universalità dei concetti o delle forme categoriali. La singolarità e irripetibilità dell’uomo deriva dal fatto di essere nel peccato, ma da tale riconoscimento scaturisce anche la possibilità del dialogo, giacché l’apertura all’altro si nutre di una comune radice che ci pone alla ricerca della verità e della salvezza.
10) Il riconoscimento del peccato conduce alla fede, al movimento verticale della fede, e questa a sua volta rende possibile il dialogo e segnatamente il dialogo religioso. L’incontro con la propria interiorità avviene solo riconoscendo nel peccato la propria individualità esistenziale, storica e irripetibile. I Sofisti sapevano parlare ma non dialogare. Al cristiano, invece, si dischiude tale possibilità, aprendosi alla parola di Dio che – incarnandosi come Cristo nel mondo della “non verità” – trasforma il dialogo in salvezza, togliendolo il Singolo dal suo isolamento e riscattandolo, quindi, da tale condizione. Il riconoscimento del peccato permette il dialogo, nel quale si rivela la presenza e la verità di Dio. Tale presenza attua la conversione del Singolo, che può così rinascere nel mondo dello spirito. Riconoscendosi come peccatore, l’uomo avvia un percorso in cui potrà realizzare non un’astratta conoscenza della verità, ma un mutamento radicale del proprio essere e un’autentica trasformazione di sé. Per chi già esiste, non è possibile in senso stretto nascere o rinascere: tuttavia, nel passaggio dalla non-verità e dal non-essere del peccato all’essere dello spirito si attua propriamente il significato di una rinascita spirituale.
11) Scartata l’ipotesi che il peccato possa trovar posto, in termini di trattazione, nella metafisica o nella psicologia, subentra l’idea che esso possa rientrare nell’etica quale discipline che “vuole portare l’idealità nella realtà”. Tuttavia, anche quest’ipotesi è destinata a saltare. L’etica naufraga proprio in rapporto al peccato e alla questione del pentimento. L’etica infatti o, meglio, la “prima etica” non riconosce il peccato, che è invece il presupposto della dogmatica. Questa prima etica va distinta dalla “seconda” che s’instaura invece nel riconoscimento del peccato, e dunque a ridosso della dogmatica. Il naufragio dell’etica contro il pentimento e “lo scoglio della peccaminosità dell’individuo” (p. 22 e 25) deriva dalla sua sostanziale idealità, che le impedisce di raggiungere la realtà. L’etica non “deve mercanteggiare” (p.22): deve condannare o assolvere. In tal modo, però, il peccato come trasgressione a una norma può essere solo rifiutato, non potendo cioè essere trattato nell’ambito dell’etica. In ragione del suo formalismo astratto, anche l’etica come la legge funge da “pedagogo”, nel senso che comandando condanna senza dare vita (p. 21). Diversa la posizione dell’etica greca, e in particolare di quella aristotelica, secondo cui la virtù da sola non è in grado di render l’uomo felice. L’etica prima contrappone alle imperfezioni umane l’ideale di un uomo perfetto, rendendo in qualche modo irrealizzabile la propria idealità. Qui si apre però un dissidio che costringerà l’etica a farsi carico dell’esistenza negativa e contraddittoria dell’uomo. L’etica deve giungere cioè a riconoscere il peccato originario e costitutivo dell’esistenza umana. Ma con tale riconoscimento si fuoriesce già dall’etica per accostarsi alla dogmatica. L’accoglimento nell’etica del peccato coincide con l’eliminazione della sua idealità (riferimento ai vari stadi dell’esistenza e a quanto sostenuto in Timore e Tremore, con lo pseudonimo di Johannes de Silentio). S’impone il tema del salto, del mutamento, della rinascita. Con ciò la vita dell’uomo si stacca da una certa continuità immanente col passato per accedere, col salto, alla dimensione verticale della fede, che comporta il rifiuto dell’esistenza finora vissuta nella forma del riconoscimento del peccato e del conseguente pentimento.
12) L’uomo che nega la vita trascorsa non l’ha però cancellata, disponendosi solo a ripeterla su un altro piano, a trasfigurare se stesso e il significato del passato nell’istante della conversione. Di qui il senso della ripetizione in quanto rinascita. Accettandosi come peccatore l’uomo sceglie per l’appunto di essere ciò che è, entrando cioè nel mondo dello spirito per realizzarsi nella positività. Il passaggio dal presupposto contraddittorio del peccato all’ingresso nella dimensione della spiritualità apre la possibilità di una nuova etica (p. 25) basata sulla realtà: sulla realtà del peccato da trasformare in salvezza attraverso una rinascita religiosa quale autentica mediazione conciliatrice. La vera ripetizione, come rinascita nello spirito, si differenzia da quella falsa ripetizione che – come coazione a ripetere – scandisce la vita estetica (Diario del seduttore).
13) Su queste basi, ci sono margini per ricondurre l’etica alla dogmatica, ovvero alla realtà esistenziale del peccato. L’etica nuova o seconda presuppone dunque la dogmatica, la quale non spiega astrattamente il peccato, giacché in tal modo finirebbe per rifuggire da tale situazione esistenziale. Kierkegaard riconosce, al riguardo, l’importanza di Schleiermacher quale fondatore non solo dell’ermeneutica moderna ma anche di una dogmatica determinante per la teologia protestante e, soprattutto, come grande oppositore di Hegel, in quanto parlava “solo di ciò che sapeva” (p. 24). Tale etica deve riscoprire dunque il presupposto del peccato originale, senza rifugiarsi in una precettistica di carattere ideale. Né la metafisica classica né l’idealismo hegeliano erano partiti dal presupposto. Di conseguenza, non ponendo al centro della propria riflessione il problema della salvezza, erano rimasti ancorati al piano orizzontale, mancando con ciò del senso dell’infinito. Mancando di trascendenza, la metafisica tradizionale – intesa come filosofia prima – restava consegnata all’immanenza, senza affrontare il problema della fede, della salvezza e della rinascita. Viceversa la vera filosofia, come filosofia seconda, non è più solo legata al piano d’immediatezza dell’essere, ma ne attua una ripresa che porta a superare il peccato operando –come esito di un’autentica mediazione – una negazione di ciò che è negativo sotto il profilo esistenziale, ovvero la negazione di una negazione. Solo così la filosofia può porsi come filosofia dell’esistenza, della trascendenza e della fede.

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Lezioni della quarta settimana
1) Una filosofia autentica è forse in grado di trasformare, dunque, sia l’etica (prima) sia la psicologia. Quest’ultima non può avere il peccato come proprio oggetto d’indagine, ma può comunque indagarne il presupposto, ovvero il modo in cui il peccato sorge, in quanto è invece la teologia dogmatica a occuparsi del fatto che esso nasca. L’oggetto di tale psicologia riformata sarà dunque l’angoscia come “presupposto disponente” (p. 26), come elemento costante del peccato. La psicologia studia dunque la possibilità del peccato e non la sua realtà (il cui studio spetta invece alla dogmatica). La psicologia non esamina in termini naturalistici l’elemento da cui di continuo nasce il peccato, giacché non lo riconduce a una sorta di necessità causale. Del resto, il peccato è un atto libero, è un fare che la psicologia studia dal punto di vista della sua possibilità. La possibilità del peccato non è, infatti, la sua realtà, dal momento che “la libertà non è mai possibile ma, appena è, è reale” (p. 26: con riferimento a una dimostrazione dell’esistenza di Dio). Per la psicologia il peccato non è dunque un oggetto, né un fatto, mentre l’etica lo considera qualcosa da stigmatizzare e su cui giudicare negativamente, ma di cui solo la rinascita nella fede e nello spirito riuscirà liberarsi. I fatti che la psicologia studia non vengono valutati da essa: la psicologia non giudica il peccato, giacché si tratta di una realtà che è fuori do essa, mentre è l’etica a poter viceversa condannare il peccato, laddove solo la fede è in grado però di assolverlo.
2) La psicologia spiega dunque come sia possibile il peccato, quale ne sia la vera predisposizione. Si tratta di capire su che cosa però si fondi tale possibilità. La psicologia raccoglie determinati fatti e si serve di essi, ma non può comunque affrontare la questione di perché l’uomo sia costitutivamente un peccatore. Per questo, nell’approfondire la possibilità del peccato, essa risulta per così dire al servizio di un’altra scienza, nel senso che “tende verso la dogmatica” (p. 27), la quale è in grado di continuare il lavoro della psicologia – approfondendolo, però, su un altro piano – in quanto presuppone il peccato originale. La dogmatica si occupa dell’effettiva realtà del peccato concepito come peccato originale. Tale aspetto funge da fondamento anche della scienza psicologica. Mentre la psicologia studia la possibilità reale del peccato, la dogmatica fornisce una spiegazione del peccato originale, senza però risolverlo sul piano del pensiero o della logica, ma individuando la “possibilità ideale” del peccato (p. 27), e cioè il presupposto o la premessa ideale della possibilità reale del peccato studiata dalla psicologia. La prima etica ignora il peccato, mentre la seconda – che si ritrova ad affrontare la realtà del peccato nel proprio ambito – non ha nulla a che vedere con la possibilità del peccato e, soprattutto, con il peccato originale. Quanto alla realtà del peccato, la psicologia può intervenire solo per un “equivoco” (p. 27).
3) Kierkegaard si occupa senz’altro di psicologia nella misura in cui studia la possibilità della realtà del peccato nell’uomo. La psicologia non è vista però come scienza autonoma, ma come disciplina che opera in funzione della dogmatica. La possibilità del peccato ci conduce infatti a considerarlo il presupposto esistenziale che esige salvezza. Finché la fede non ci salva però dal peccato, ci troviamo in presenza di vari tipi di angoscia. L’angoscia non viene cioè studiata da Kierkegaard per se stessa, ma sempre in rapporto alla fede, alla salvezza, alla rinascita. Studiando l’angoscia in rapporto alla fede, Kierkegaard orienta tale tema in direzione della dogmatica, che riconosce il presupposto contraddittorio del peccato quale fondamento dell’esistenza umana. Essendo orientata alla dogmatica la psicologia non può rientrare, dunque, nello “spirito soggettivo” (p. 27), come voleva invece Hegel, ma si trasforma invece nella dottrina dello spirito assoluto, che per Kierkegaard non è lo spirito ma la fede. A differenza della prima etica, che è estranea a tutto ciò, l’etica seconda presuppone la dogmatica (p. 27), svincolandosi al tempo stesso dalla metafisica classica. Di qui però la necessità di ripartire dalla dogmatica, che per prima ha indicato il presupposto del peccato.
4) A partire dal primo capitolo, Kierkegaard si propone di analizzare il problema del peccato sottoponendo a una radicale reinterpretazione il terzo libro del Genesi. Kierkegaard non è soddisfatto delle soluzioni che le diverse dogmatiche tradizionali offrono riguardo al problema della genesi del peccato. Tutte tendono a destoricizzare la figura di Adamo, sottraendolo alla storia del genere umano, che finisce così per vedersi attribuito un inizio fantastico (p. 29). Con ciò si rischia di attribuire un significato eccessivo al peccato commesso dal “primo uomo”, alla caduta del primogenitore. Viceversa, l’essenza della figura di Adamo consiste nell’essere individuo e umanità al tempo stesso. Il peccato diviene infatti possibile solo nell’incontro tra specie e individuo. Il peccato di Adamo – che reca in sé l’umanità tutta – si ripercuote certo sugli altri, ma non nel senso che ciascuno erediti il peccato commesso da Adamo, alla maniera in cui si contrae un debito o, peggio ancora, una malattia. Ogni individuo può rivivere, infatti, l’esperienza di qualunque altro uomo, ritrovandosi nella stessa dimensione di scelta e nella stessa ambiguità tra bene e male in cui in fondo si è trovato anche Adamo. Il problema è dunque quello di sapere come avvenga, in una situazione angosciosa che ciascuno può rivivere, che l’uomo commetta peccato. Il problema sarà dunque affrontato esaminando l’angoscia nei suoi tratti relazionali, che mostrano come il peccato entri nel mondo per mezzo di un individuo che in sé è però anche l’umanità.
5) Kierkegaard non accetta il “presupposto fantastico-dialettico” da cui muove la dogmatica cattolica, secondo cui Adamo avrebbe ricevuto da Dio un dono soprannaturale, consistente in una sorta d’integrità originaria perduta a seguito del peccato. Kierkegaard non crede a tale condizione originaria, poiché essa – spacciata per storica – finirebbe per slegare Adamo dal resto del genere umano, quando invece è proprio la storia del peccato a cominciare da lui. Ugualmente però egli critica la dogmatica protestante, e segnatamente gli articoli di Smalcalda (p. 30), giacché in essa il peccato ereditario era visto come una corruzione della natura, non comprensibile cioè dalla ragione umana. Kierkegaard rivolge critiche anche alla cosiddetta dogmatica federale (p. 29), che aveva fatto di Adamo il “rappresentante dell’intero genere umano2, cosicché tutti gli uomini avrebbero potuto intrattenere un rapporto col peccato solo in virtù della loro relazione con Adamo e non per le colpe relative ai loro atti. Accettare quest’impostazione vorrebbe dire che il salto qualitativo del peccato è avvenuto solo con Adamo, mentre dopo di lui si può parlare solo di diffusione e propagazione del peccato a livello quantitativo. Sia nella tradizione cattolica, sia in quella protestante, Adamo sarebbe stato messo fuori dalla storia “in un modo così fantastico da essere l’unico uomo escluso dalla redenzione” (p. 31). Il primo peccato di Adamo avrebbe perciò una valenza qualitativa diversa rispetto a tutti gli altri peccati, per cui anche il primo peccato di ogni altro uomo sarebbe sollevato da ogni responsabilità. Ma per Kierkegaard non si può spiegare il peccato originale prescindendo da Adamo e viceversa, anche perché l’individuo non è un semplice esemplare di una specie (animale), ma ha un rapporto dialettico con il proprio genere.
6) Per Kierkegaard non può essere, dunque, che il peccato di Adamo sia la causa del peccato degli altri uomini, che a loro volta ne sarebbero solo condizionati. Ancora una volta, infatti, Adamo sarebbe posto al di fuori della relazione tra individuo e umanità. Se Adamo fosse la causa del peccato, egli rivestirebbe il ruolo particolare di unico peccatore, per cui gli altri uomini non sarebbero responsabili di un peccato non commesso liberamente. La storia stessa risulterebbe impedita, nel suo svolgimento, da una totale alienazione del passato. Viceversa, il peccato non viene semplicemente ereditato, quasi che il peccato originario di Adamo abbia prodotto una “peccaminosità” che si sarebbe misteriosamente propagata come un’epidemia (p. 41) per tutto il genere umano. In realtà tra gli individui non regna una continuità spiegabile in termini causali, dato che se così fosse ogni determinazione qualitativa deriverebbe quantitativamente dai dati in qualche modo prestabiliti, facendo sì che tra genere e individuo s’imponga una sorta di ordine deterministico. Dal punto di vista kierkagaardiano, ogni individuo si trova in uno stato d’innocenza e di angoscia che può farlo ricadere nel peccato, dal momento che si cade nel peccato per libera scelta e non per una peccaminosità ereditata. Ne consegue, che il primo peccato o il peccato originario di ogni singolo individuo ha una sua determinazione qualitativa, che non si lascia dedurre logicamente né spiegare storicamente, poiché il peccato entra appunto nel mondo con la repentinità del “salto”. Non è affatto vero, quindi, che con il peccato di Adamo la natura si sarebbe corrotta, diventando peccaminosa, giacché in questo modo si finirebbe per sottrarre le colpe dei singoli da una libera responsabilità individuale.
7) Tra l’innocenza e la colpa non c’è un passaggio orizzontale, ma interviene un “salto” qualitativo. Il peccato entra nel mondo perché prima non c’era, essendovi infatti uno stato d’innocenza. Il passaggio dall’innocenza al peccato non può essere regolato in termini logici, attraverso categorie che non ammettono il salto, come cioè si potesse passare dall’una all’altro mediante una continuità logica necessaria. Ancora in polemica con Hegel, Kierkegaard non coglie la presenza di salti nella concezione della storia hegeliana, ma solo di una contrapposizione logica quantitativa che resta comunque illusoria, stante che la sintesi è già per così dire presupposta nell’opposizione di tesi e antitesi. Tra innocenza e peccato Kierkegaard coglie invece una contraddizione di segno qualitativo, tale da spezzare – in direzione della verticalità (trascendenza) – una dialettica altrimenti consegnata a un piano orizzontale puramente quantitativo. Tra innocenza e peccato l’identità invece si spezza , cosicché l’entrata del peccato nel mondo è conseguente al perdersi dell’innocenza. Una dialettica di tipo esistenziale comporta sempre il richiamo alla responsabilità dell’individuo che fa entrare il peccato nel mondo. Ancora una volta si avverte, in chiaroscuro, la distanza maturata da Kierkegaard nei confronti della concezione hegeliana della storia in cui sembra prevalere l’unicità dello spirito.
8) La storia umana, in quanto storia che prende le mosse dal peccato, ricomincia sempre con la scelta di peccare propria di ciascun uomo. La realtà del peccato presuppone come possibilità solo se stessa, e la peccaminosità – che non è l’effetto di un processo di determinazioni quantitative (cfr. p. 34) – entra nel mondo con il peccato di ciascun individuo, poiché se la peccaminosità precedesse il peccato, il peccato sarebbe tolto. Contrapponendosi al “mito2 che accompagna l’interpretazione tradizionale del terzo libro del Genesi, Kierkegaard sostiene che anche nel caso di Adamo la peccaminosità entrò in lui con il suo peccato d’origine. Ciò vale per ogni altro individuo. Su questa base, si può eliminare dunque la concezione mitica di stampo intellettuale che fa iniziare la specie con un individuo che è, di fatto, fuori di essa, ovvero che fa iniziare il genere umano con l’unico individuo che non partecipa di tale storia.
9) L’osservazione di Kierkegaard porta a notare che il peccato non si può spiegare ricorrendo a un presupposto che ne sia la causa logica. Tanto meno si può pensare che la causa del peccato risieda nello stato di peccaminosità come suo presupposto. In questo modo ci s’imbatterebbe in un’evidente circolarità, dato che la peccaminosità sembra essere stata creata apposta per spiegare il peccato. Ma la natura del peccato si dissolverebbe se prima di esso ci fosse davvero la peccaminosità, dato che il peccato è tale nella misura in cui prima c’è invece l’innocenza. Il peccato entra sempre nel mondo attraverso un salto e non lo si può spiegare – alla maniera della logica di Hegel – facendolo orizzontalmente discendere dalla peccaminosità (cfr. p. 33). Il peccato porta viceversa con sé la peccaminosità. Prima di peccare l’uomo si trova in uno stato d’innocenza che può comunque precipitarlo nel peccato. È uno stato ambiguo in quanto, per un verso, mostra in positivo i tratti dell’innocenza, mentre per un altro contiene la possibilità di saltare al di là dell’innocenza stessa. Tale ambiguità è costitutiva dell’innocenza, dato che essa può saltare nel peccato, ma può anche trattenersi dal farlo. In questa ambiguità si afferma anche l’ambivalenza tipica dell’angoscia. A partire dal terzo paragrafo (pp. 38 sgg.), Kierkegaard ribadisce la propria differenza rispetto ad Hegel, che aveva in qualche modo confuso l’etica con la logica. L’innocenza non è infatti l’immediato che possa essere tolto (cfr. p. 399 come qualcosa di negativo (sotto il profilo logico) proprio per assicurarne il superamento. Dal punto di vista etico, l’innocenza sembrerebbe piuttosto essere qualcosa da mantenere, anche perché se l’innocenza fosse qualcosa di negativo non le si potrebbe contrapporre il peccato. L’innocenza non è né un mitico stato di perfezione al quale si desidera ritornare, né uno stato d’imperfezione (qualcosa di negativo) nel quale non si può rimanere. In base allo stesso racconto del Genesi, l’innocenza non presenta alcuna immediatezza, essendo solo sinonimo d’ignoranza (cfr. pp. 40 sgg.).
10) L’innocenza si perde solo col peccato, ovvero col salto qualitativo, e non per l’accumularsi della storia del genere umano su ciascuno di noi. La perdita dell’innocenza non è frutto di una determinazione quantitativa, ma è qualcosa che avviene di continuo ad opera ad opera di un individuo. L’innocenza è detta ignoranza in quanto non può conoscere il peccato. La proibizione di peccare – ad esempio il divieto di mangiare dall’albero della conoscenza – può far sorgere il desiderio di peccare, ma un desiderio che dovrebbe quindi ignorare il peccato stesso. Su questo terreno, di natura senz’altro psicologica, la spiegazione fornita dalla psicologia dovrebbe comunque mantenersi entro determinati limiti, in quanto la psicologia non è in grado di spiegare il salto qualitativo che determina il peccato, ma solo d’illuminare la situzione d’ambiguità che connota lo stato d’innocenza. La caduta nel peccato non può si può dunque tradurre nella trasgressione di un divieto, ovvero nel risveglio della concupiscentia, poiché in questo modo la psicologia avrebbe già oltrepassato i limiti delle proprie competenze (cfr. p. 43). Kierkegaard chiede invece alla psicologia di mantenersi nella propria “elastica ambiguità” (43), anche perché tale disciplina “può spiegare solo il modo di arrivare alla spiegazione”, dovendo soprattutto “guardarsi dal voler far credere di spiegare ciò che nessuna scienza può spiegare” (41).
11) L’innocenza – come possibilità di peccare che però è al contempo ignoranza del peccato – si carica di angoscia. Nel paragrafo 5 (cfr. pp. 44 sgg.) Kierkegaard inizia a lavorare sui concetti di anima, corpo e spirito. Nell’innocenza, l’uomo è in un rapporto speciale tra anima e corpo – un rapporto caratterizzato dal fatto che lo spirito è in stato di sogno. Il rapporto tra anima e corpo non è ancora ben definito: la loro differenziazione è possibile, ma non si è ancora realizzata. Lo spirito sognante non ha ancora preso coscienza di sé. Il sognare rappresenta una posizione intermedia tra il dormire e la veglia, costituendo un sapere di sé ancora inautentico. Nell’innocenza non si ha ancora coscienza della distinzione tra anima e corpo. Se tale distinzione si manifesterà in forma di opposizione (o perfino di contraddizione) l’uomo cadrà nel peccato, sperimentando così la differenza tra bene e male. Anche la Bibbia – a differenza delle “fantasticherie cattoliche” al riguardo (p. 44) – nega che l’uomo conosca, nella situazione d’innocenza, la differenza tra bene e male. Lo spirito si pone come rapporto tra anima e corpo, laddove il rapporto richiede la differenza tra i due termini. Nello stato d’innocenza tale differenza non è nota: in esso, anima, corpo e spirito sono ancora indistinti, pur essendo attraversati da un presentimento di possibilità positive e negative. In un caso (positivo), lo spirito costituirebbe una relazione tra anima e corpo che arricchisce l’uomo in termini conoscitivi, senza fargli smarrire l’innocenza; nell’altro (negativo), la conoscenza è ottenuta opponendo anima e corpo nella loro differenza, dando luogo così al peccato. Il peccato dunque insorge quando una differenziazione armonica garantita dallo spirito si trasforma in una contrapposizione in cui i termini differenti si oppongono tra loro alla maniera del bene e del male. Nella situazione umana in cui sono presenti entrambe queste possibilità (positiva e negativa) non si dà però di fatto né lotta né inquietudine, giacché si è al cospetto di un semplice nulla che genera angoscia. Sognando, lo spirito proietta fuori sé la propria realtà, che l’innocenza coglie però alla stregua di un nulla.
12) Nello stato d’innocenza l’uomo non ha ancora fatto il salto nel peccato, ignorando il contenuto delle due possibilità che gli si prospettano. A tale livello l’uomo ha solo la possibilità del possibile, senza sapere cosa potrà avvenire quando tale possibilità indeterminata si determinerà. L’uomo non sa questo perché è nell’innocenza: egli sente che qualcosa è possibile, ma finché non opera il salto ciò costituirà sempre un nulla. Proprio il fatto che la possibilità venga ignorata nel suo contenuto fa sì che l’uomo nell’innocenza sia nell’angoscia. L’uomo proietta quindi ciò che non conosce fuori di sé, palesando così nell’angoscia il mistero profondo dell’innocenza.
13) L’esistenza umana è segnata, per Kierkegaard, dall’angoscia, e anzi da molteplici forme di angoscia. Nell’interpretazione del Genesi che egli delinea, lo spirito è chiamato a sintetizzare elementi che lo caratterizzano strutturalmente, ma che al tempo stesso confliggono (anima e corpo, temporalità ed eternità). L’uomo si trova quindi nelle condizioni di doversi dare un’identità precisa, e cioè di doversi scegliere, avendo però di fronte anche la possibilità del fallimento, quale fattore che produce angoscia. Questo preciso stato d’animo, consistente nel dover porre in relazione elementi contraddittori che si trovano in lui ancora indistinti, è ciò che lo predispone al peccato.
14) Nello stabilire il rapporto dell’angoscia col sogno, Kierkegaard indica l’appartenenza alla psicologia della determinazione (angoscia9 dello spirito sognante (cfr. p. 44). Nel sogno, a differenza della veglia, ogni differenziazione è sospesa, risultando come un nulla appena accennato. Lo spirito è rapporto tra anima e corpo, ma nell’innocenza tale rapporto è ancora per così dire inconsapevole (solo presagito). Il rapporto tra anima e corpo diverrà consapevole solo a livello coscienziale. L’angoscia si pone a metà tra l’impossibilità animale di creare tale rapporto e la possibilità umana di determinarlo. Nello stato d’innocenza questo rapporto è possibile ma non ancora reale, per cui lo spirito si angoscia nel tentativo di realizzare una possibilità che si dilegua come un nulla. L’angoscia si determina, quindi, nel momento in cui lo spirito cerca di porre la sintesi, di diventare se stesso e darsi una configurazione definita (un’identità precisa), poiché nel momento in cui è chiamato a porre tale relazione esso è ancora un nulla.
15) L’angoscia relativa allo stato d’innocenza è indeterminata, in quanto priva di contenuto reale. Questo aspetto ci fa pensare alla trattazione dell’angoscia sviluppata da Heidegger, per il quale l’angoscia è non solo mancanza di determinazione, ma è l’impossibilità fondamentale di qualsiasi determinazione. L’angoscia, come pura possibilità, ovvero come situazione esistenziale che fronteggia l’infinità del possibile, si distingue dal carattere ristretto (e per così dire mirato) della paura, può definirsi quindi come “la realtà della libertà, come possibilità per la possibilità” (p. 44).
16) È con il salto che si passa dal possibile al reale, cadendo così nel peccato. Al cospetto delle infinite possibilità che gli si dischiudono, l’uomo sembra negare Dio stesso – come possibilità infinita – affermando la propria realtà finita. Nel peccato, e dunque nella colpa, si rivela perciò già, in forma peraltro negativa, il carattere infinito della trascendenza.
17) L’ambiguità psicologica dell’angoscia si mostra nelle sue determinazioni dialettiche: “un’antipatia simpatica e una simpatia antipatica” (p. 44). Il risveglio dello spirito (dal suo essere sognante) prelude al momento della scelta, in cui il compito di determinarsi in piena libertà è avvertito dall’uomo come segnato dal pericolo del naufragio e dall’errore. L’angoscia lo prende, quindi, come “vertigine della libertà”, di fronte a una scelta che non avviene mai nella pura indifferenza. La scelta di optare per il finito piuttosto che per l’infinito avviene per il fatto che la libertà risulta a tal punto “imbrigliata dall’angoscia” da restarne sopraffatta, quasi ridotta all’impotenza. Nell’angoscia l’uomo presagisce la possibilità di realizzarsi nella libertà, ma al contempo di compiere una sintesi sbagliata che determinerebbe la sua caduta o il relativo scacco. L’ambiguità dell’angoscia passa attraverso il fatto che in essa si presenta la possibilità dell’infinito. In un certo senso l’angoscia non è colpa, essendo posta nell’innocenza, come appare ad esempio nel caso dei bambini, che sono angosciati nella “ricerca dell’avventuroso, del mostruoso, del misterioso” (p. 44). Più in generale, però, l’angoscia è caratterizzata da ambiguità e da ambivalenza. Per un verso chi pecca è innocente in quanto agisce in preda all’angoscia, e cioè a una potenza estranea che lo cattura. Per un altro egli è però colpevole in quanto si è come lasciato cadere nell’angoscia, ribellandosi all’infinito in nome del finito. Nella struttura psicologica umana l’angoscia si configura come “amata e temuta” insieme (cfr. 45), per cui è una forza al contempo amica e nemica. Con questa forza l’uomo si trova in una relazione ambivalente. Ciò si ripercuote sul piano dello spirito che è unità e distinzione di anima e corpo, per cui lo spirito è una forza ostile nel momento in cui ostacola il rapporto tra anima e corpo, ma è una potenza amica in quanto vuole istituire un vero rapporto tra essi (cfr. p. 45 sg.). Il rapporto dell’uomo con tale potenza ambigua riguarda dunque anzitutto il rapportarsi dello spirito con sé, un rapportarsi che si declina anzitutto in forma di angoscia.
18) L’angoscia, intesa come mostrarsi della libertà nella possibilità, è un tratto specificamente umano. Solo l’uomo può provare angoscia del nulla. L’animale, invece, non prova angoscia in quanto nella sua naturalità non è determinato come spirito. L’angoscia è il sintomo della contingenza dell’uomo e del suo essere creato, nonché dell’insicurezza che segna l’esistenza umana. In quanto però l’uomo è esposto alla libertà possibile, l’angoscia lo designa anche come un essere più che naturale. L’angoscia presuppone, infatti, che l’uomo esperisca la propria infinità sotto forma di eternità spirituale, per quanto ciò si verifichi in connessione alla finitezza degli aspetti corporei e temporali di cui è intessuta l’esistenza umana. Nell’angoscia, l’innocenza è portata al limite. Essa non è però “brutalità animalesca” ma è “ignoranza”, in quanto determinata dallo spirito, ed è al tempo stesso angoscia in quanto la “sua ignoranza dello spirito ha per oggetto il nulla” (p. 44).
19) Interpretazione del passo del Genesi (cfr. 46 sg.) a partire dalla celebre proibizione espressa da Dio con parole che Adamo non poteva però comprendere, non essendo in grado di cogliere quella differenza tra bene e male che, solo mangiando il frutto dell’albero della conoscenza, si sarebbe potuto cogliere. L’angoscia non sa ciò che è proibito, ma sa di poter fare qualcosa di proibito. Kierkegaard dice, al riguardo, che “il divieto angoscia Adamo, poiché sveglia in lui la possibilità della libertà” (p. 46). Il nulla entra ora a far parte dell’innocenza, determinando la “possibilità angosciante di potere”. L’angoscia è sempre espressione del rapporto che lo spirito intrattiene con se stesso. Dopo il divieto c’è però la condanna (cfr. p. 47). Anche per comprendere l’idea di terribile legata a tale divieto occorreva però aver commesso il peccato. Ne risulta invece solo l’angoscia con la sua ambiguità, che spinge l’innocenza alla situazione estrema, risultando appunto in angoscia rispetto a ciò che è vietato e alla pena. L’innocenza non è colpevole ma sente di essere ormai perduta. La psicologia, non potendo spiegare la caduta, ovvero la discontinuità del salto qualitativo, non può spingersi oltre. La psicologia rimanda sempre, infatti, alla dogmatica.
20) Alla proibizione segue la condanna (cfr. p. 47). Anche ciò non poteva però essere compreso da Adamo prima del peccato. Tra la situazione angosciosa che caratterizza lo stato d’innocenza e la caduta vera e propria c’è ancora un abisso. L’innocenza manifesta angoscia rispetto al divieto, ma non è colpevole. L’angoscia è relativa all’incipiente perdita dell’innocenza. Nell’ultimo paragrafo (sesto) del primo capitolo, Kierkegaard ripercorre il racconto della caduta nel Genesi, avendo in mente in primo luogo di sfatare l’idea che si tratti di un mito. Naturalmente si parla della creazione di Adamo ed Eva. accennando al fatto che la donna sarebbe il “sesso più debole” e, proprio per questo – senza che ciò comporti una maggiore imperfezione rispetto all’uomo – anche più angosciata (cfr. p. 48 n.). La problematicità del racconto consiste in primo luogo nel fatto che Dio abbia rivolto ad Adamo delle parole che questi non può comprendere, ma soprattutto nell’aver evidenziato – attraverso la figura del serpente – che la tentazione viene per così dire dal di fuori. Per Kierkegaard ciò costituisce una contraddizione sia rispetto alla Bibbia, sia passo di San Giacomo in cui si dice che Dio non tenta nessuno e non è tentato da nessuno, giacché ognuno è tentato da sé.
21) La psicologia non può spiegare la caduta nel peccato, in quanto si tratta di salto qualitativo. L’analisi psicologica della genesi del peccato muove dallo stato d’animo dell’angoscia inteso come libertà imbrigliata. Tale analisi consente d’illustrare il presupposto della caduta senza ricorrere alla dimensione della natura o fare riferimento all’astuzia di Satana. Dal punto di vista psicologico la caduta si spiega con l’angoscia della libertà, in cui l’individuo si trova di fronte contemporaneamente alla realizzazione di sé e allo scacco. Al riguardo, le scelte degli individui non sono conseguenze di condizioni esistenti: il salto non è perciò un passaggio ricostruibile sotto il profilo logico o razionale, né costituisce un atto di libertà accessibile all’osservazione empirica.
22) Nessuna determinazione quantitativa può produrre un incremento qualitativo. L’angoscia rende possibile il peccato e in qualche modo fa propendere ad esso. Tale predisposizione non va compresa, però, in termini biologico-genetici, essendo piuttosto un momento costitutivo della libertà. In tal senso, è sbagliato, per Kierkegaard, parlare di un peccato originale come di un’ereditarietà o di una strutturale peccaminosità della natura umana, poiché ciò significherebbe mettere in questione la libertà e responsabilità dell’uomo. La peccaminosità non s’identifica mai con la finitudine umana. Il peccato, infatti, è il risultato di un libero rapporto del singolo con sé, poiché altrimenti verrebbe meno sia l’imputabilità del singolo, sia la bontà della creazione. Viceversa, il peccato è unicamente il presupposto di se stesso.
23) Nel racconto biblico si dice che il peccato entrò nel mondo e con esso fu posto l’elemento sessuale. Kierkegaard disapprova però questa visione, in quanto non poteva esserci differenza sessuale nello stato d’innocenza e d’ignoranza in cui si trovava Adamo, essendo il suo spirito solo sognante. Adamo non era infatti ancora sintesi di anima e corpo. Se nell’animale la differenza sessuale si sviluppa per istinto, nell’uomo essa si pone invece nella relazione tra anima e corpo garantita dallo spirito. La sessualità viene dunque raggiunta nel momento in cui lo spirito diviene reale. Per Kierkegaard, la peccaminosità non è la sensualità, ma “senza peccato non c’è sessualità e senza sessualità non c’è storia” (p. 50). L’uomo è sintesi tra anima e corpo e tale sintesi è una relazione in cui il corporeo è in rapporto con l’assoluto e l’eterno. Con ciò, l’uomo matura la consapevolezza di essere un punto di mediazione tra Dio e mondo. Tale consapevolezza può tradursi però in peccato allorché il punto d’incontro s’intende unicamente costituito dalla sessualità, mentre si trasformerà in redenzione quando l’uomo giungerà a concepirsi come nato nello spirito. Di qui l’affermazione kierkegaardiana secondo cui la vera nascita dell’uomo è la rinascita nello spirito, quasi che egli venisse al mondo cioè una seconda volta.
24) Sulla problematicità del racconto biblico della seduzione e sulla figura del serpente, nonché sulla dottrina tradizionale della concupiscenza, vale a dire in ordine al desiderio o alla brama in special modo di piaceri sensuali. La tentazione non può venire, secondo Kierkegaard, dal di fuori, e la concupiscenza non restituisce il carattere specificatamente umano del peccato e dell’ambiguità tipica dell’angoscia. Il legame tra libertà e angoscia va sempre colto in rapporto alla concretezza della libertà. La libertà, per Kierkegaard, non è libero arbitrio o libertà d’indifferenza. il momento della scelta non attua in una situazione di neutralità o equidistanza tra bene e male. Una libertà (astratta) di tal genere rappresenterebbe una mostruosità concettuale. La libertà non precede la decisione, ma si realizza in essa. La libertà, non è mai solo possibile: non appena è, è reale. La possibilità della realtà, che precede l’attualizzazione della libertà stessa, non è poter scegliere, a discrezione, il bene o il male (cfr. p. 50). Anche le Scritture non ammettono ciò. La possibilità coincide col potere: di conseguenza la scelta è essenziale alla libertà. Laddove non si esercita la scelta, la libertà è una mera illusione, un’astratta finzione. Inoltre, la libertà è una facoltà legata strettamente al piano esistenziale dell’individuo, per cui non è una facoltà che consenta di scegliere in maniera per così dire indifferente o arbitraria. La libertà si esprime in maniera autentica laddove l’individuo sceglie la propria realizzazione (e non il proprio fallimento).
25) L’angoscia come mediazione tra possibilità e realtà, ovvero come “determinazione intermedia”, che non spiega però il carattere qualitativo del “salto”, né è in grado di fornirne una giustificazione etica. L’angoscia è una libertà vincolata, imbrigliata in se stessa e non condizionata nel senso della necessità (cfr. p. 50). Il trapasso dalla possibilità alla realtà avviene in base a tale determinazione intermedia, e non attraverso categorie quantitative, come nel caso della logica dialettica hegeliana. Qui, semmai, le categorie coinvolte sono quelle di peccato, di colpa, di trascendenza, di fede e di redenzione. Nella sua pura possibilità, l’angoscia mostra come il peccato non sia entrato nel mondo per mera necessità, o attraverso un atto di libero arbitrio puramente astratto. Ciò che sta a fondamento del peccato è la “libertà di potere”, per cui non si può spiegare attraverso la logica come il peccato è entrato a far parte del mondo (cfr. p. 51).
26) Nessuna scienza può dunque spiegare il peccato: la psicologia può solo descriverne la situazione predisponente. L’azione del peccare risulta, quindi, scientificamente inspiegabile. Così come il peccato non può essere logicamente dedotto attraverso un raziocinio logico, così l’uomo non si salva attraverso concetti, parole o conoscenze di ordine scientifico, ma solo con un atto di fede.

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Lezioni della quinta settimana
1) Il secondo capitolo inizia con la frase: con la peccaminosità fu posta la sessualità e nello stesso momento comincia la storia del genere umano (p. 53). La natura dell’angoscia del singolo è identica a quella di Adamo, ma sotto il profilo quantitativo è maggiore, poiché l’angoscia si arricchisce in ogni singolo della storia di tutti gli altri. Più c’è storia, più c’è angoscia. Ogni volta che l’uomo rivive la storia degli altri, rivive infatti non solo la situazione angosciosa di Adamo che precedeva il peccato, ma anche la situazione psicologica in cui si trova il peccatore stesso. La caduta nel peccato non toglie l’angoscia, ma la ricrea di continuo sia come angoscia che precede il peccato, sia come angoscia che si rinnova dopo il peccato e in conseguenza del peccato stesso. L’angoscia è lo stato psicologico che precede il peccato, pur non spiegandolo, ma è al contempo la conseguenza del peccato, che non allude però a una generica imperfezione. L’ambivalenza dell’angoscia consiste anche nel fatto che, da un lato, l’angoscia è il mezzo con cui il peccato si determina, essendo la condizione attraverso cui l’individuo pone il peccato col salto qualitativo, mentre dall’altro essa è il ripetersi del peccato nei vari individui o in uno stesso individuo, con l’ingresso del peccato nel mondo anche da un punto di vista quantitativo. Tale distinzione tra l’aspetto quantitativo dell’angoscia e la dimensione qualitativa del salto non occulta comunque il fatto che ogni individuo diviene colpevole per sé. Cfr., p. 54 sg.), la metafora del “medico di un manicomio”.
2) Nel primo paragrafo (cfr. pp. 56 sgg.) si parla dell’angoscia oggettiva, ovvero dell’angoscia che non riguarda la singola persona umana, ma l’intero mondo creato. Ciò dipende dal fatto che gli individui sono tra loro in una relazione così stretta che ogni azione di un singolo si riflette su quella degli altri. Il peccato interviene dunque a modificare la natura dell’intero universo creato. Kierkegaard cita l’epistola ai Romani: “col peccato di Adamo la peccaminosità entrò nel mondo” (p. 57). Ora la sua attenzione si sposta però sull’importanza che il peccato ha in relazione a tutto il creato. Qui Kierkegaard fa riferimento a San Paolo, citando però ancora l’Epistola ai Romani in ordine all’”angosciosa attesa della creatura” (p. 58), all’ardente desiderio della creazione che – mirando a uscire dall’angoscia e dal peccato – testimonia appunto di ciò che manca, della trascendenza. Questa forma di travaglio angoscioso che riguarda tutto il creato è, dunque, l’angoscia oggettiva – un tema, quello dell’angoscia o della malinconia che permea tutta la natura – già affrontato anche da Schelling (cfr. p. 59 n. 1).
3) Nel paragrafo successivo (pp. 60 sgg.) si tratta invece dell’angoscia soggettiva, ovvero dell’angoscia essenzialmente dell’individuo. Anche ogni “individuo posteriore” ad Adamo ripassa dallo stato d’innocenza e d’angoscia. Attraverso il paragone tra angoscia e vertigine (cfr. p. 61), Kierkegaard chiarisce la determinazione dell’angoscia come “libertà di potere”. Il peccato non rappresenta, dunque, un banale incidente di percorso, giacché nell’essere peccatore compare sempre la responsabilità dell’individuo, nel senso che si pecca per libera scelta, aggrappandosi al finito e a ciò che è temporale (invece che all’infinito e all’eterno) allorché – di fronte alla vertigine provocata dall’abisso d’infinite possibilità – si ha l’illusione di poter trovare maggiore sicurezza in un appiglio tangibile e immediatamente presente. L’uomo sprofonda paradossalmente nell’illibertà e nel peccato proprio avvertendo l’ampiezza pressoché sterminata della propria libertà. Di fronte alla libertà come infinita possibilità di potere, come potere tutto, l’uomo si fa sopraffare dall’angoscia che lo rende impotente nel momento della scelta, e cioè nel momento di operare la sintesi.
4) Il peccato – come mancata scelta di sé – sembra però anche essere il luogo dell’autentico costituirsi dell’uomo. , essendo ciò che segna l’inizio di ogni singolo uomo e della storia del genere umano. L’angoscia è quindi indizio della possibilità della libertà, in quanto è il “mostrarsi della libertà nella possibilità”. L’angoscia dischiude all’uomo la possibilità della sua libertà, ma gli fa anche scoprire nella colpa la realtà della libertà. L’angoscia è segno di una libertà esistente, che però è già in se stessa imbrigliata, dal momento che la possibilità angoscia “col laccio del suo dolce affanno” (p. 61). In definitiva, si fa esperienza della libertà nel momento in cui si esperisce di non essere liberi, scontrandoci cioè con i limiti della libertà stessa.
5) La peccaminosità come condizione è dunque il retaggio della storia del genere umano: come tale essa influisce sull’agire del singolo come una sorta di predisposizione al peccato, di volta in volta maggiore o minore. Tale determinazione è tuttavia puramente quantitativa, che non elimina la possibilità del salto qualitativo nel peccato. La storia dell’uomo si conferma infatti essere una storia di libertà. Kierkegaard è dunque fedele all’idea di responsabilità dell’individuo, contrastando tra l’altro con ciò la tendenza estetica che porta a parlare del peccato sorvolando sulla colpa dell’uomo, per soffermarsi invece – rattristandosene – sul destino ineluttabile che lo assalirebbe (cfr. p. 62). La tendenza a voler ricondurre il peccato al carattere patogeno di determinate strutture sociali non fa che sublimare la tendenza a vedere la colpa sempre negli altri.
6) Il peccato ha una storia che ha avuto inizio con Adamo e che è proseguita con i peccati commessi dagli individui che gli sono succeduti. Nell’atto di divenire colpevoli, l’angoscia si carica di una peculiare ambiguità, trattandosi di una sorta d’impotenza femminile in cui la libertà sfuma. Con lo svolgersi del corso della storia, l’angoscia quantitativamente aumenta, determinandosi in stati psicologici sempre più complessi. In ogni uomo c’è comunque uno stato d’innocenza come quello di Adamo, ma il rapporto generazionale tipico della concatenazione storica fa sì che nel singolo l’angoscia non sia però identica a quella di Adamo, poiché si accresce in rapporto all’ambiente storico e diviene anche più riflessa. In tali circostanze, il nulla che rappresenta l’oggetto dell’angoscia si trasforma, per così dire, in qualcosa di più. Stante l’ambiguità dell’angoscia, esso non diventa propriamente qualcosa, ma in virtù della riflessione acquista tratti sempre più concreti, divenendo un “complesso di presentimenti” (p. 61). Quest’angoscia riflessa è quindi una “predisposizione” che significa il nulla prima che l’individuo diventi colpevole, ma è anche il presupposto in cui l’individuo oltrepassa se stesso, per cui l’angoscia si configura come premessa e conseguenza, senza che ciò si traduca in un’imperfezione dell’uomo (cfr. p. 62).
7) L’angoscia dell’uomo diviene più grande e più riflessa in ragione del fatto che col peccato è stata posta la sensualità, per cui con il peccato la sensualità è divenuta peccaminosità (cfr. p. 63). L’angoscia aumenta e si fa più riflessa allorché col peccato l’uomo prende coscienza della differenza sessuale. Lo spirito si scopre cioè sessuato, entrando in contraddizione con se stesso. Come conseguenza del rapporto di generazione da cui l’individuo è derivato, l’angoscia non è più solo angoscia del nulla, ma diviene – in maniera più determinata – angoscia del fatto di essere nato nella carne per mezzo della sessualità. In questo modo l’angoscia rappresenta per l’uomo una predisposizione alla caduta in cui sono incorsi coloro che l’hanno generato e l’hanno preceduto. La sessualità predispone dunque l’uomo al peccato. Rispetto ad Adamo, ogni uomo ha un di più di angoscia derivante dal peccato commesso. Non si tratta dell’angoscia relativa al fatto che Adamo avrebbe commesso – a partire da uno stato d’innocenza – un peccato originale, ma di un’angoscia che discende dall’essere nato da una generazione. Tutto ciò rimanda però all’individuo da cui nasce direttamente l’uomo e che incarna la conseguenza della caduta, facendo sì che questa diventi generazione.
8) La figura di Eva è centrale nella misura in cui significa ciò che è derivato dal peccato, ciò che nasce nella carne in conseguenza del peccato. Eva è quindi simbolo del rapporto tra peccato e sessualità che si specifica come generazione. Attraverso la donna, che è più sensuale dell’uomo – come attesta la forma stessa del suo organismo – il peccato si determina, facendo quindi aumentare l’angoscia (cfr. p. 64). Come simbolo di generazione la donna è madre, ma è anche la compagna dell’uomo, nell’ambito di un processo di generazione che determina la possibilità di rinnovare il peccato. IL rapporto angoscioso si deve al fatto che l’uomo è nato dalla donna, ma non può ritornare con la donna nello stesso rapporto che ne ha determinato la nascita nel peccato. Tutto ciò prelude al concetto di rinascita come opposto alla nascita nella carne. Per ricercare un rapporto armonico tra anima e corpo, lo spirito – come principio di tale rapporto – dovrà orientarsi a cercare un padre e una madre celesti. Tra carne e spirito c’è, infatti, un’insanabile opposizione qualitativa che può essere superata solo dal salto nella rinascita spirituale.
9) Come dice Kierkegaard, la “sessualità non è la peccaminosità” (p. 67), ma il peccato trasforma la sensualità in peccaminosità (cfr. p. 75). La storia della generazione mostra come la sensualità sia divenuta peccaminosità, ma è il salto qualitativo dell’individuo a determinare che ciò avvenga. Finché lo spirito è sognante (nello stato d’innocenza), la coscienza della differenza sessuale – che è solo latente – si esprime come pudore, come vergogna, ma nel pudore la differenza animale non è posta in relazione con l’altro individuo (cfr. p. 68), per cui in esso non compare un richiamo alla differenza sessuale. La sessualità non è come tale la peccaminosità, ma se Adamo non avesse peccato essa non si sarebbe mai configurata in tale veste. La differenza come impulso (come pulsione) e la stessa differenza tra bene e male nacquero “mangiando del frutto dell’albero della scienza” (p. 75).
10) Oltre ad aumentare dopo la caduta nel peccato, l’angoscia cresce anche in ragione del sesso. La donna, infatti, ha più angoscia dell’uomo e ha un’angoscia più riflessa nella misura in cui non solo è derivata dall’uomo (Eva da Adamo), ma è anche più sensuale dell’uomo. Ciò non ha però a che fare con la minore forza fisica della donna, dato che l’angoscia va sempre considerata in rapporto alla libertà. Si tratta invece di un aspetto legato alla costituzione corporea della donna, alla forma del suo organismo. Dal punto di vista estetico, la perfezione ideale della donna è rappresentata dalla bellezza, mentre da quello etico è rappresentata dalla procreazione, il che si traduce nel fatto che lo spirito resta escluso dalla sintesi prodotta dalla bellezza, così come dal concepimento e dal parto, quali aspetti fondamentali della procreazione, cosicché la donna si dimostra essenzialmente più sensuale dell’uomo (cfr. p. 64).
11) Il fatto che l’individuo generato abbia un’angoscia maggiore e più riflessa non dipende solo dal fatto di essere più sensuale dell’individuo originario, ma anche dall’avere dietro di sé una storia del peccato. Con la caduta si è posta la sessualità, ma è anche iniziata la storia del genere umano. In tutti gli individui posteriori ad Adamo l’angoscia si determina quindi in rapporto a tutti gli altri esseri umani, ovvero in una relazione storica. Ciò non significa però che l’ambiente storico abbia un ruolo davvero determinante nei confronti dell’individuo, dato che esso – essendo libero di scegliere – è responsabile di ogni suo atteggiamento riguardante il peccato. Tra i mutamenti storici degni di rilievo Kierkegaard annovera certamente il cristianesimo, che però non muta – sotto il profilo della situazione angosciosa dell’uomo – il quadro che erra già presente in ambito pagano.
12) L’individuo entra nella storia di peccaminosità del genere umano attraverso il suo primo peccato, ma la sua angoscia non è solo il risultato delle colpe commesse dagli individui che lo hanno preceduto, ma anche delle colpe commesse da lui stesso. Il salto nel peccato consente di riconoscere la sessualità come elemento che confligge con la spiritualità dell’individuo, accrescendo così la propensione al peccato e, di conseguenza, l’angoscia. Nel momento della decisione l’individuo avverte su di sé l’angoscia della colpa – nell’intero spettro di situazioni che ciò può comportare – per cui è la libertà, da non contemplare nella sua astratta indifferenza, ad apparire pregiudicata da una determinata struttura di peccato che la condiziona (senza peraltro determinarla), rendendola incline al peccato e facendo crescere in essa l’angoscia di perdere di nuovo se stessa.
13) Nell’ultima parte del secondo capitolo (cfr. pp. 76 sgg.), Kierkegaard ci mostra la sua concezione dell’individualità, della singolarità criticando, anzitutto, il tentativo – del tutto arbitrario e assai poco scientifico – di spiegare il peccato con il richiamo all’egoismo, anche perché in tal modo si finisce per trascurare del tutto la distinzione, ma anche l’intreccio, tra peccato e peccato originale. L’io è, per Kierkegaard, il luogo in cui si manifesta l’angoscia, in quanto in esso s’incontrano eternità e temporalità, trascendenza e immanenza, anima e corpo. Inoltre, la struttura dell’io è costituito anche dall’innocenza, dalla libertà di potere e dunque di peccare, dalla caduta, dalla redenzione e dalla rinascita. Tutti questi fattori sono costitutivi dell’io, che peraltro si determina anche nel rapporto con gli altri, ovvero con l’intera generazione. L’io si definisce non solo per l’infinità delle relazioni che lo costituiscono, ma soprattutto per la possibilità di assumere liberamente tutte le più diverse determinazioni in chiave storica. Da tale carattere costitutivo dipende la possibilità dell’individuo d’indirizzarsi alla rinascita spirituale o, viceversa, di perdersi nel peccato. L’io è quindi attraversato da un’essenziale contraddizione che può trovare attuazioni di segno diverso. Il sapere che ogni uomo matura su di sé sopravanza di molto quello che proviene da qualsiasi scienza, per cui Kierkegaard auspica che il motto socratico del “conosci te stessi” non sia più frainteso alla maniera tedesca, e cioè come “pura autocoscienza”, come principio di un “idealismo fatto d’aria, ma venga sempre più inteso”alla greca”, con la clausola però d’integrare nella concezione greca i “presupposti” cristiani” che – attraverso il richiamo al salto qualitativo – fanno dell’autentica natura dell’io un principio di fede e non di mera conoscenza.
14) In chiusura del secondo capitolo, Kierkegaard afferma in primo luogo che la “sensualità non è la peccaminosità” (p. 78), proprio perché la sensualità rappresenta un elemento costitutivo dell’universo umano di carattere assai più generale. Il problema, semmai, è quello della definizione del rapporto tra anima e corpo attraverso lo spirito. Nel momento in cui si compie il peccato, la differenza animale – che prima, nell’innocenza, non era ancora posta come tale – si caratterizza come impulso, dischiudendo con ciò non solo l’ambito della differenza sessuale, ma rendendo sempre più impossibile il permanere nella pura animalità. Di qui l’esigenza critica di realizzare una sintesi più elevata tra anima e corpo, senza pensare di poter “astrarre dalla sensualità” e di poterla “annientare in un senso esteriore” (p. 78). L’estrema contraddizione che si trova a vivere l’uomo consiste nel sentire di poter oltrepassare quell’animalità che comunque permane in lui, il che comporta la necessità di raggiungere una sintesi organicamente superiore a quella in precedenza delineatasi. La sensualità che appartiene all’animalità dell’individuo non è ancora peccato: lo sarà solo quando l’uomo, nell’operare il salto che deve condurlo al di là della propria animalità, finisce per cadere nella colpa. Nello stato di angoscia rischia di saltare in una direzione sconosciuta (ignota), incalzato da un nulla che non ha dissipato nessuna delle infinite possibilità. Col salto l’uomo può perdere lo stato edenico, realizzando una sintesi in cui la sensualità animale diviene peccato, ma può anche in seguito riscattare tale perdita ricreando un nuovo rapporto tra corpo e anima, in modo che lo spirito “trasfiguri” la sensualità innalzandola a una nuova sintesi (cfr. p. 78), in cui anche il corpo può riacquisire quella pienezza che nella sua contrapposizione all’anima era invece andata corrotta. Nella rinascita spirituale non è solo l’anima, infatti, a completarsi in un rapporto che lega insieme mondo e trascendenza, ma è anche il corpo ad acquisire nuovo valore sensibile, nella più piena realizzazione della sua funzione storica. Nella realizzazione di tale sintesi rinnovata nel senso della spiritualità, ciò che è sensibile non viene dunque negato, ma ricompreso nel movimento della fede che innalza il mondo nella direzione verticale della trascendenza. Raggiunto nella fede il rapporto organico tra corpo e anima, la sessualità non è tolta ma permane nella sintesi “vittoriosa” dello spirito, cosicché il peccato che le era corrisposto rimane solo nell’oblio.
15) Kierkegaard accenna poi, nella chiusa del capitolo, a un’ulteriore questione riguardante il fatto che l’angoscia non è insuperabile, ma persiste nell’uomo nella misura in cui egli si allontana dalla missione che ne qualifica la spiritualità, rifiutandosi alla possibilità d’istituire una sintesi armonica tra corpo e anima. D’altronde, non si può vivere come se il peccato fosse un “fatto accaduto 6000 anni fa” (p. 79), giacché non si tratta di aver “perduto una parte della malinconica serenità erotica”, ma di riconoscere di aver “conquistato una determinazione dello spirito che la grecità non conobbe” (p. 78 sg.), al raggiungimento della quale ha concorso l’aumento dell’angoscia nella sua funzione di spingere l’uomo verso quella situazione-limite da cui potrà uscire, cristianamente, solo con la fede e l’amore.
16) Attraverso la sua nuova e originale interpretazione del terzo capitolo del Genesi Kierkegaard ha inteso da un lato superare una concezione astratta della libertà, sottolineandone il carattere vincolato al momento della scelta, dall’altro però evidenziare anche i condizionamenti storici, biografici e biologici della libertà. Ancora una volta il peccato mostra di non poter essere spiegato in maniera logica o causale, avendo infatti lo statuto del salto e non del mero passaggio lineare. Nel suo costituire lo stato d’animo fondamentale dell’esistenza umana, l’angoscia è il “mostrarsi della libertà nella possibilità”. Nel guardare l’abisso delle infinite possibilità che le si aprono dinanzi, la libertà è presa dall’angoscia, finendo per ritrovarsi vincolata al punto di scegliere di non scegliere o di scegliere il finito invece dell’infinito. Proprio allorché presagisce il possibile fallimento e la perdita per così dire di sé, ma al tempo stesso anticipa la compiuta realizzazione della libertà, l’angoscia è un fenomeno sempre al limite tra libertà e non libertà dell’uomo, segno cioè di un’effettiva ambiguità (simpatico/antipatico), di una libertà che è solo reale libertà (“la libertà [...] non appena è, è reale), ma è al contempo libertà vincolata che rischia di perdere se stessa.
17) In questo quadro, Adamo – come prototipo dell’uomo peccatore – anticipa solo idealmente il destino dell’intero genere umano. A seguito di ciò che è stato commesso da Adamo, il peccato diviene per ogni generazione l’orizzonte ineludibile di ogni agire. Per questo l’angoscia non è solo lo stato che inquieta prima del salto, ma è anche il frutto di ogni nuovo peccato commesso successivamente, con l’esito così di una sua crescita quantitativa che pesa come una sorta di eredità. Se prima della caduta l’angoscia era ancora indeterminata, avendo per oggetto il nulla, dopo la caduta essa smarrisce gran parte della sua ambiguità, diventando in qualche modo più determinata come angoscia di qualcosa. In ogni caso, però, il surplus d’angoscia ereditato può solo favorire il salto nel peccato, non potendo cioè determinarlo. Tale salto si deve infatti sempre alla scelta di una libertà imbrigliata dall’angoscia, per cui si può dire che il peccato sia il “presupposto di se stesso”.
18) Se nei primi due capitoli Kierkegaard ha basato la propria trattazione dell’angoscia su una concezione dell’umano come rapporto spirituale tra anima e corpo, ora nel terzo capitolo si tratta di approfondire il significato e il termine di questa relazione. Nella storia del creato il punto critico s’incentra nella relazione tra temporalità ed eterno. Nell’ambito del creato, l’uomo è quell’essere che, pur costituendosi nel divenire, non può non avvertire la realtà dell’eterno o, anche solo, la sua mancanza. Il divenire dell’uomo si accompagna sempre a un rapporto positivo o negativo con l’eternità. Con l’ingresso dell’uomo nella storia del mondo, questa assume un nuovo significato, consistente nel superare un’orizzontalità legata a un mero rapporto quantitativo tra un prima e un dopo, a un mero passaggio sul piano orizzontale, per disporsi a una presa di posizione verticale verso la trascendenza. Questa presa di posizione non è però scontata, in quanto può affermare in negativo il divenire rispetto all’eternità, oppure può negare la negazione dell’eterno, salvaguardando ogni momento del divenire in un rapporto positivo con l’eternità. Qui entra in gioco, dunque, la nozione di “momento” o istante, come indice dell’incontro tra temporalità e divenire. Nell’istante si stabilisce infatti un rapporto con la trascendenza divina. che l’uomo può scegliere di vivere nel segno del legame o della ribellione. Tale possibilità è, ancora una volta, equivalente all’angoscia, che viene perciò definita come un “momento nella vita individuale” (p. 81).
19) L’individuo è persona non solo nella misura in cui è consapevole del proprio rapporto con tutto ciò che si situa nella dimensione orizzontale, ma anche del fatto che in ogni istante vi è un incontro con la trascendenza, per quanto esso possa essere negato. Nel fondamento dell’angoscia sembrano condensarsi, dunque, il divenire e l’essere, ovvero il fatto che in ogni istante l’uomo porta con sé la responsabilità della scelta tra la negazione dell’eterno o l’assunzione del divenire in una sintesi organica. Il senso di responsabilità in cui si declina un’esistenza libera può optare per diversi stati di vita. L’uomo può scegliere infatti di vivere in maniera estetica, limitandosi a vivere in una successione di attimi che non dà luogo ad alcuna acquisizione. Se ogni esperienza si traduce in mera istantaneità, essa non può essere assunta nel suo valore permanente, dato che non riesce mai a consolidarsi rispetto alla trascendenza. Se si sceglie invece di vivere in maniera etica, si nega con ciò il puro divenire delle esperienze che si succedono, nel tentativo di trasformare una delle esperienze vissute in qualcosa di permanente in cui verrebbe a realizzarsi un valore universale. In entrambi i casi, però, manca la fede come salto nella trascendenza, poiché solo così il mondo del divenire può essere riconquistato – dopo averlo negato – alla luce dell’eterno.
20) Al centro della riflessione critica di Kierkegaard c’è la categoria del “passaggio”, di cui si fa gran uso in particolare in Hegel e nella scuola hegeliana (cfr. p. 81). Per Kierkegaard è chiaro che nel passaggio da un processo storico a un altro, da un momento di crisi – in cui tesi e antitesi si contrappongono – alla sintesi, da una situazione problematica alla sua eventuale risoluzione non c’è un vero passaggio, ma solo la ripetizione di un problema (per così dire, la sua cronicizzazione), nel caso appunto che tra il primo momento e il secondo non vi sia un salto nella verticalità attraverso cui si attua una trasformazione dell’angoscia in fede. La sintesi può costituire, infatti, il raggiungimento di un momento più alto, ad es. nella storia, se il passaggio dialettico non si svolge in orizzontale – come accade in Hegel – ma si dispone ad un’ascesa verticale. Tra il problema e la relativa soluzione vi è sempre l’angoscia, ovvero vi un senso di libera responsabilità in relazione al tema della trascendenza. In Hegel, però, anche nella concezione idealistica della storia, non c’è traccia di discontinuità tra l’opposizione di tesi e antitesi, da un lato, e la posizione della sintesi dall’altro. Hegel non coglie dunque quella discontinuità con cui avrebbe potuto spezzare il fiume della storia in momenti separati tra loro, rendendo con ciò illusoria la separazione, l’opposizione e la stessa conciliazione tra i singoli momenti nella loro concreta temporalità. Peraltro, il tema della temporalità non può essere nemmeno affrontato attraverso una durata priva di soluzione di continuità, che ritiene di contrapporsi con ciò a una concezione spazializzata del tempo.
21) Per Kierkegaard, Platone ha compreso meglio di Hegel la natura del “momento”, pur avendolo concepito in modo puramente astratto (cfr. pp. 82 sgg.). Nel Parmenide, dialogo platonico, il momento (tò exaìphnes, avverbio sostantivato: il repentino, il momentaneo, il subitaneo) viene posto come punto d’incontro tra divenire e idee. Sviluppando tale riflessione, Kierkegaard ci fa capire come il rapporto tra anima e corpo, instaurato dallo spirito, si presenta anche come problema del “momento”, essendo sintesi tra tempo ed eternità nel contesto della libertà costitutiva dell’uomo. Nell’istante (o momento), la libertà passa infatti dalla possibilità all’atto. Il compito dell’uomo è quello di saltare verso una nuova sintesi storica di stampo spirituale, laddove il sottrarsi a tale compito o cercare di assolverlo senza fede crea angoscia, dando così luogo a una situazione essenzialmente distruttiva.
22) In un passo assai denso (cfr. p. 84 sg.) Kierkegaard sostiene che il tempo non è concepibile se ogni suo momento non è fondato nel rapporto con l’eterno. Solo così, infatti, il tempo può risultare discontinuo e può avere significato la distinzione tra passato, presente e futuro. La credenza di poter fissare tale distinzione indipendentemente da un rapporto tra istante (momento) ed eternità risulta, in maniera erronea, da una spazializzazione dell’istante (cfr. 84) attraverso cui si rende astrattamente discontinua la corrente indistinta del tempo. A questa falsa spazializzazione del tempo non va però contrapposta una durata reale del tempo senza soluzione di continuità (à la Bergson), ma si deve invece attuare una concreta discontinuità nel senso kierkegaardiano. Kierkegaard chiarisce (cfr. p. 85) che se il presente non viene fissato in una concreta discontinuità temporale esso si trasforma in uno “svanire infinito” del tutto “privo contenuto” (p. 85). È infatti il rapporto dell’eterno con il presente a dotare quest’ultimo di un contenuto: di conseguenza, nella misura in cui il presente correlato all’eterno è il momento, il momento si trova per l’appunto al centro della storia. La nozione d’istante presenta però delle ambiguità (cfr. pp. 85 sgg.). Nello stadio estetico della vita, L’istante – come mero divenire presente – si contrappone all’eterno. Nella vita sensuale si dice, ad esempio, che essa è “nel momento” (p. 85). Con momento s’intende, qui, “l’astrazione dall’eternità”, e dunque una sua “parodia” (p. 85). Ma quando invece il rapporto con l’eterno si attua in maniera positiva, ecco che l’eterno diviene nel presente – ovvero nell’istante – risultando con ciò il fondamento della concretezza temporale. Del resto, se volessimo servirci del momento per determinare il tempo – indicando con esso il presente quale esclusione astratta del passato e del futuro – il momento così considerato non sarebbe presente, poiché ciò che nella pura astrazione sta tra passato e futuro non è affatto (cfr. p. 86). Il presente per altro verrebbe a perdersi anche se optassimo per identificare la temporalità con il passato, in ragione del fatto che la determinazione principale del tempo consiste appunto nel passare. Il vero significato del momento si registra invece, per Kierkegaard, allorché in esso si toccano l’eternità e il divenire temporale. In tale accezione il momento (espressione metaforica che sta per “batter d’occhio) non si configura più come “l’atomo del tempo”, ma come “l’atomo dell’eternità”, ovvero come “primo riflesso dell’eternità nel tempo” (p. 87). Tuttavia, affinché il tempo si connoti come atomizzazione dell’eternità è necessario che il rapporto tra il divenire e l’eterno, tra il corpo e l’anima, sia portato a sintesi dallo spirito, poiché appena è posto lo spirito c’è il momento e, in fondo, la sintesi tra tempo ed eternità non è che l’espressione di quella tra corpo e anima (cfr. p. 87).
23) Lo stesso concetto di temporalità viene a porsi nell’ambiguità del momento, in cui tempo ed eternità si toccano (cfr. 88). Infatti, solo se l’eternità penetra nel tempo, risultandone a fondamento, acquista significato la distinzione tra passato, presente e futuro. Ma a parte ciò, il futuro matura per Kierkegaard un significato particolare. Il futuro si presenta infatti come una totalità di cui anche il passato è una parte, per cui nelle dimensioni del tempo esso è una figura dell’eterno, come sembra del resto attestato dall’uso della lingua che parla di vita futura come di vita eterna (cfr. p. 88). Ciò si riallaccia, tra l’altro, al compito dell’uomo che consiste nel trasformare la direzione del tempo indirizzandola a un valore spirituale, attuando cioè – nella fede – una direzione verticale dell’istante verso l’eterno, cosicché per Kierkegaard l’evoluzione storica consiste nell’attuare la fede nella realtà del mondo e il futuro si presenta come una meta verso cui la vita storica si dirige in base alla fede. Nel momento in cui , con la fede, il singolo s’innalza all’eterno, ecco che il futuro appare come possibile attuazione nella storia del valore eterno. Il futuro come eternità è perciò garantito a patto che l’uomo sappia attuare la fede. Ma raggiungere il futuro come eternità non vuol dire altro che realizzare la vita eterna. L’incarnarsi della trascendenza e del suo valore in un istante determinato fa sì che alla storia stessa si riveli il futuro come eternità, dando così compimento a ciò che il cristianesimo esprime col concetto di “pienezza dei tempi” (p. 89).
24) Tali questioni hanno a che fare anche con la concezione dell’uomo inteso come rapporto tra anima e corpo disposto dallo spirito. Nello stato d’innocenza, con la relativa angoscia, la possibilità di un futuro come eternità non è conosciuta ma solo sognata. Si tratta di una prima rivelazione dell’eterno in uno spirito che è ancora solo sognante (cfr. 89). Qui si è ancora in presenza di una “possibilità dell’eternità (della libertà), in un’individualità caratterizzata come angoscia. Kierkegaard sottolinea, a tal riguardo, la coincidenza tra futuro e possibile: “il possibile è, per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile” (p. 90). Si potrebbe anche dire, cioè, che il futuro sta al tempo come il possibile sta alla libertà. Ad entrambi corrisponde, nella vita individuale, l’angoscia. Talvolta si dice di avere angoscia per il passato, ma quando ciò accade è perché tale passato non è trascorso veramente, per cui c’è il rischio che si ripeta e si ripresenti nel futuro. Per avere angoscia del passato, il passato deve trovarsi con noi in un rapporto di possibilità. Ma se abbiamo angoscia di qualcosa di passato è perché non l’abbiamo posto in relazione essenziale con noi come qualcosa di passato, e questo perché in fondo impediamo a ciò di divenire passato (cfr. 90). Se qualcosa è infatti realmente passato noi non possiamo averne angoscia, ma solo pentimento. Si ribadisce, quindi, che l’angoscia è anzitutto lo stato psicologico che precede il peccato. Essa è la possibilità di fronte a ciò che può essere realizzato nel futuro, è senso di responsabilità in ogni istante verso ciò che si configura come eterno. Ed è per questo che il futuro è la figura dell’eterno, così come lo è del possibile. Kierkegaard conclude questa riflessione affermando che “nel momento in cui il peccato è posto, la temporalità è peccaminosità” (p. 90). Ciò non va inteso, però, nel senso che esse coincidano (d’altronde, anche la sessualità non è peccaminosità), ma solo nel senso che la temporalità significa peccaminosità (cfr. 91). Pecca, infatti, colui che vive il momento in astrazione dall’eternità, poiché il peccato è essenzialmente ribellione nei confronti dell’eternità (e della trascendenza), riducendosi ad assumere l’istante nella sua estraneità e contrapposizione all’eternità stessa.
25) Il tema dell’angoscia è l’autentico sottosuolo dell’uomo. esso appare dominante e insopprimibile, pur manifestandosi in una molteplicità di variazioni. L’angoscia è la “possibilità della libertà” (p. 149) e serve dunque a distruggere la finitezza delle cose, mettendo a nudo il loro carattere illusorio. La scuola dell’angoscia, che laurea i discepoli dell’infinitezza e della possibilità, serve dunque a scacciare dall’anima i pensieri finiti e più gretti. In questo quadro, il momento kierkegaardiano – come incontro tra tempo ed eternità, ovvero come concreta attuazione di una possibilità nel mondo – rappresenta per certi versi la vera conciliazione che Hegel aveva peraltro cercato invano sul piano della sua dialettica. L’infinito di una possibilità positivamente attuata costituisce una verità a un tempo eterna e storica, per cui la stessa conciliazione non si configura come un dato, come una totale attuazione del possibile o l’identificazione hegeliana tra razionale e reale, ma solo come un compito da realizzare. Se l’esistenza è dunque diretta verso l’attuazione di una possibilità positiva, la sua libertà costitutiva opera nel segno della liberazione; viceversa, come ribellione a tale possibilità, essa diviene mancanza di libertà che genera il peccato e la disperazione.
26) L’angoscia della mancanza di spiritualità. Ponendosi al centro della storia, la rivelazione cristiana ha sempre discriminato tra un periodo pagano e un periodo cristiano, nel quale per l’appunto si realizza la coscienza del peccato. Tuttavia, questa distinzione, per quanto storicamente determinata, risulta un po’ imprecisa. , giacché all’interno del periodo cristiano può sussistere un mondo pagano. Kierkegaard analizza anzitutto l’angoscia del pagano, osservando che il paganesimo pecca per il fatto di non voler riconoscere il peccato e non averne consapevolezza. Il pagano che vive in ambito cristiano è però ancor più nel peccato dal momento che il cristianesimo ha posto il rapporto con lo spirito. Richiamandosi a una lettera agli Efesini, Kierkegaard dice infatti che “tanto maggiore è il valore di ciò che è perduto, tanto più miseri sono i non curanti (apelgekotes)” (p. 92). Del resto si sa che l’angoscia si sviluppa in maniera diretta in mancanza di consapevolezza della colpa. In tal caso, il peccato si configura come mancanza di spiritualità ma, al contempo, come bisogno della spiritualità che viene ad essere rifiutata. La mancanza di spiritualità è vista, da Kierkegaard, come la condizione più terribile, poiché comporta un rapporto con uno spirito che però è nulla. Di conseguenza, tale mancanza precipita per così dire nelle cose, finendo per sopravvalutarle e trasformarle in feticci o idoli. Chi manca di spiritualità può tuttavia parlare di essa o ragionare su di essa in termini anche filosofici, senza tuttavia vivere con ciò nella spiritualità. In tal senso, determinate verità spirituali, acquisite unicamente per via astratta, diventano parole incapaci d’impegnare la personalità del singolo, cosicché un uomo “privo di spirito è divenuto una macchina parlante e non c’è nulla che gli impedisca d’imparare a mente tanto una filastrocca di termini filosofici quanto un credo religioso e un frasario politico” (p. 93). L’uomo è così proiettato in un mondo impersonale contrassegnato da una dimensione esistenziale inautentica, in cui compare la tendenza ad annullarsi nella massa e ad omologare i comportamenti. Nella mancanza di spiritualità non c’è però angoscia, poiché essa “è troppo felice e contenta e troppo priva di spirito” (p. 93). Il paganesimo si distingue dalla mancanza di spiritualità proprio per il fatto di non allontanarsi dallo spirito, ma di essere rivolto ad esso. Sotto questo profilo, il paganesimo si fa preferire, dal momento che la mancanza di spiritualità è il “ristagno dello spirito e la caricatura dell’idealità” (è. 93). Per la mancanza di spiritualità non esiste autorità alcuna, ma poiché la vita mondana necessità di autorità, ecco che essa finisce per diventare “adoratrice di feticci” (p. 94), non solo negando lo spirito, ma distruggendo ciò di più umano c’è nell’uomo.
27) La mancanza assoluta di spiritualità non dovrebbe comportare, di fatto, angoscia, ma ciò a ben vedere non è del tutto vero. Si può dire, infatti, che in tale situazione – benché non presente – sia nascosta e per così dire sotto traccia, sul punto di risvegliarsi e di rivelare così il suo vero carattere. L’angoscia cova dunque costantemente nell’uomo che, credendo di poterla evitare e di sfuggire con ciò a se stesso, la traveste in svariati modi trasformandola in preoccupazioni per cose determinate, al fine di occultare il proprio rifiuto della spiritualità. “Si può immaginare che un debitore riesca a sfuggire al suo creditore o ad accontentarlo di chiacchiere, , ma c’è un creditore che non si lascia ingannare mai, ed è lo spirito” (p. 94).
28) All’inizio del secondo paragrafo (cfr. pp. 94 sgg.), Kierkegaard riprende il tema dell’angoscia nel paganesimo, che dovrebbe dirsi sprofondato nell’angoscia più ancora che nel peccato. Malgrado non riesca a instaurare con lo spirito un rapporto positivo, esso è comunque in rapporto con lo spirito “come qualcosa di estrinseco” (p. 95). L’oggetto dell’angoscia è il nulla, per cui l’angoscia è appunto indeterminata, essendo angoscia del possibile in generale. Per i pagani, e in particolare nel mondo greco, l’angoscia si presentava nella figura del destino (p. 95). Per Kierkegaard i Greci non avevano una coscienza profonda del peccato, peccando quindi d’immaturità spirituale. Nel riconoscimento del destino si esprimeva il riconoscimento di qualcosa che sfuggiva al controllo dell’individuo, che era in tal senso un nulla di cui occorreva però tener conto. Di qui anche i temi, legati al destino, della premonizione e degli annunci derivanti da un’alterità trascendente. Nel paganesimo, il nulla dell’angoscia è rappresentato dal destino che può essere eliminato, come maschera dell’angoscia, solo riconoscendo che ciò che accade all’uomo va messo in conto non già al destino, quanto alla sua libertà e responsabilità. Infatti, posto lo spirito, anche l’angoscia è tolta, quantomeno quella che non riguarda la propria colpa – angoscia che invece subentra nel caso dell’ebraismo, che sostituisce al superficiale richiamo pagano al destino la pregnanza del concetto di colpa. Il concetto di destino è ambiguo in quanto unisce in sé, e per certi versi confonde, caso e necessità (cfr. p. 95). L’ambiguità del destino si caratterizza per il fatto di mascherare il nulla dell’angoscia, che può essere tolto solo accettando la libertà e il salto nella fede, ovvero riconoscendo che gli avvenimenti assumono un senso provvidenziale in base a cui nulla può essere più fatale (casuale). Quanto all’ambiguità del destino, il paganesimo lo carica di ulteriore angoscia mettendolo in rapporto con l’oracolo. Qui si registra la profonda tragicità del paganesimo che non consiste tanto nel carattere delle dichiarazioni dell’oracolo, quanto nel fatto di non poter rinunciare a consultarlo (cfr. p. 95 sg.).
29) A partire da p. 96, Kierkegaard prende in esame l’angoscia del genio. All’interno del cristianesimo, l’angoscia del paganesimo – rivolta al destino – si trova ovunque lo spirito, pur essendo presente, non sia posto però essenzialmente come spirito. Tale fenomeno può essere in particolare osservato nell’uomo di genio. Il genio è una “soggettività soverchiante”, in perenne scoperta del destino. La sempre più approfondita scoperta del destino mostra la “forza primitiva” del genio, ma al tempo stesso la sua “impotenza” (p. 97). La provvidenza può porsi però solo nel peccato, per cui il genio – che è un “in sé onnipotente” (p. 97) tale da scuotere il mondo – deve lottare strenuamente per raggiungerla, risultando così il campo privilegiato per poter studiare a fondo il destino. L’esistenza del genio “è come una favola” e si esercita a contatto delle cose del mondo, ma comporta però il rischio, e fors’anche la certezza, di soccombere al destino e di distruggere comunque il proprio sé (cfr. 97). Con riferimento in particolare a Napoleone, Kierkegaard nota come l’agire del genio politico possa facilmente entrare in uno stato d’angoscia ma, non volendo il genio instaurare un rapporto di ordine spirituale, egli finisce per mascherare l’angoscia attraverso un misterioso colloquio col destino o col timore di situazioni insignificanti, che potrebbero però sconvolgere anche il piano più accurato. Per questo motivo il genio si angoscia più per le piccole cose che per le grandi, ma soprattutto si angoscia in un tempo diverso da quello degli uomini comuni, giacché non si angoscia – come tutti – nel momento del pericolo, ma piuttosto nel momento precedente o in quello successivo, allorché cioè entra in colloquio “con quel grande sconosciuto che è il destino” (p. 98). Il fatto che il genio resti col destino in un rapporto d’angoscia fa sì che esso non possa assumere un atteggiamento religioso, smarrendo perciò ogni contatto con il peccato e la provvidenza.
30) Nel paragrafo 3 (cfr. pp. 100 sgg.) Kierkegaard prende in esame l’angoscia dell’ebraismo, ovvero quella posizione dialettica dell’angoscia orientata verso la colpa. L’angoscia del paganesimo si esprime soprattutto nelle forme di vita estetica e politica, mentre nell’ebraismo essa riguarda essenzialmente la vita etica, coinvolgendo le categorie di colpa e di pentimento. L’ebraismo “giace nell’angoscia”, ma in questo caso l’espressione “angosciarsi di (o per) niente” risulta quanto mai paradossale poiché la colpa è certamente qualcosa (cfr. p. 100). Nell’ebraismo il nulla dell’angoscia cambia di segno, in quanto non si tratta più del destino, ma della legge rispetto alla quale, nella sua alterità, ci si sente colpevoli (cfr. p. 101). Questo punto rappresenta comunque un avanzamento dell’ebraismo rispetto alla grecità. A parte il passaggio dal destino alla colpa, nell’ebraismo al posto dell’oracolo pagano subentra il sacrificio (cfr. p. 101), intorno a cui si concentra l’angoscia della moralità ebraica. Nel sacrificio sembra essere contenuto il rapporto più profondo tra l’umano e il divino, tra il divenire e l’eterno. Nel mondo ebraico, il sacrificio si pone come espiazione della colpa, anche se si avverte che l’uomo non è in grado col sacrificio di redimere se stesso. Kierkegaard osserva, quindi, che “l’ebreo cerca rimedio nel sacrificio, ma non gli giova” (p. 101). Difatti, il subentrare dell’angoscia conduce addirittura alla ripetizione quantitativa del sacrificio, laddove il suo valore consisterebbe invece nel salto qualitativo verso la fede e nella corrispondente carità del trascendente nei confronti dell’umano. Il rimedio all’angoscia della colpa che l’ebreo cerca nel sacrificio non gli giova perché ciò che invece potrebbe aiutarlo sarebbe togliere il rapporto dell’angoscia con la colpa e istituire il “rapporto reale del peccato” (p. 101), poiché altrimenti il sacrificio dev’essere ripetuto. Infatti, solo col peccato si pone anche la redenzione e la stessa provvidenza, esentando così l’uomo dal ricorrere nuovamente al sacrificio. La provvidenza non è fondata sulla necessità, ovvero su una reiterazione deterministica, bensì sulla libertà e dunque sulla possibilità in positivo.
31) Al paganesimo che, affermando la necessità dell’essere, la possibilità assume le forme del destino, l’ebraismo risponde facendo della colpa la controfigura della possibilità. La colpa, però, non sarebbe tale, se non fosse il frutto della scelta dell’uomo, che avrebbe anche potuto non scegliere o scegliere diversamente. Da un lato quindi l’ebraismo afferma la colpa, come condizione inseparabile dell’esistenza umana, asserendo il carattere assolutamente necessario della legge divina, ma dall’altro il riconoscimento della colpa lo porta di fatto a riconoscere la stessa possibilità. Qui s’insinua, nel discorso kierkegaardiano, il primato di un cristianesimo che colga in Dio l’infinita possibilità dell’amore e nel sacrificio di Cristo l’unica via per togliere davvero l’angoscia in un contesto di rinnovamento spirituale e di redenzione.
32) Lo stadio religioso dell’esistenza è quello in cui gli altri (estetico ed etico) non vengono negati, ma salvati dal punto di vista religioso e dunque ripresi nella loro positiva e vera funzione. Nel mondo ebraico la giustificazione della vita era affidata al sacrificio e questo veniva ripetuto proprio perché – secondo Kierkegaard – non era colto l’autentico significato della vita. Ma la ripetizione del sacrificio non può essere la soluzione dell’angoscia che promana dallo sperimentare piani di vita contraddittori, giacché ciò finisce per incrementare il vanificarsi del divenire nella sua corsa verso il nulla. Una mera ripetizione quantitativa del divenire non consente infatti di entrare in contatto con l’eterno: tale contatto è possibile, invece, solo nell’istante della fede e nel passaggio allo stadio religioso. In questo quadro, la ripetizione diviene ripresa degli altri stati di vita, una volta che questi siano stati negati nella loro mondanità. Su questa via si potrà avere anche la sensazione di essere disperati e di perdere tutto ma, se si saprà perseverare, si guadagnerà tutto. “Coraggio, figlio mio! va’ pure avanti, perché chi perde tutto vince tutto” (p. 104). Di qui il presentarsi di una rinascita nello spirito, che presuppone la negazione della nascita nella carne e della conseguente vita mondana. La fede guadagnerà tutto perché nella ripresa avrà anche la vita mondana. Esemplare, al riguardo, è la storia di Abramo – descritta in Timore e tremore – a cui la fede restituirà il figlio Isacco.
33) Nello scoprire la libertà, l’individuo sente che l’angoscia del peccato grava su di lui nello stato della possibilità. La libertà in questione non va considerata però alla stregua dell’ostinazione o dell’egoismo, nel senso che il suo opposto non è la necessità. In quanto “possibilità di potere” o “possibilità del possibile”, la libertà ha come opposto la colpa (cfr. p. 105 sg.), in quanto una volta caduto nel peccato l’uomo non ha più di fronte a sé l’intero spettro delle infinite possibilità, ma solo quella possibilità concessagli dal mondo finito nel quale, peccando, ha finito per rinchiudersi. La libertà non teme la colpa per il fatto di dovere in tal senso riconoscersi colpevole, ma perché teme di diventare colpevole. Del resto, una volta che la colpa sia posta la libertà torna in qualità di pentimento, cosicché la rinascita non è altro che riconquista di una libertà perduta. Ne consegue che il “rapporto tra libertà e colpa è angoscia, perché la libertà e la colpa sono ancora una possibilità” (p. 106). Prima di peccare l’uomo, entrando in rapporto con la colpa possibile, cade inevitabilmente nell’angoscia. Tuttavia, c’è angoscia anche dopo aver commesso il peccato, ovvero in conseguenza del peccato stesso. E proprio nell’angoscia che segue al peccato – vale a dire nell’individuo posteriore (ad Adamo) – più la libertà scopre in profondità i propri limiti (e con ciò la colpa), più grande sarà il “genio religioso” (cfr. p. 106), capace di vivere su tale piano un rapporto di assoluta intensità con Dio, riconquistando con la fede anche se stesso.

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Lezioni della sesta settimana
1) Nel quarto capitolo (cfr. pp. 109 sgg.) Kierkegaard esamina l’angoscia che scaturisce dal peccato nel singolo, in cui ora l’oggetto dell’angoscia è qualcosa di determinato, giacché – essendo stata posta la differenza tra bene e male – l’angoscia ha smarrito la sua ambiguità dialettica. Il peccato nasce dalla vertigine della possibilità allorché, nella libertà assoluta della scelta, l’uomo propende per il negativo. Nelle condizioni di possibilità assoluta l’uomo è del tutto libero e si trova al cospetto dell’eterno. Nello svolgimento storico, l’uomo si muove però in una dimensione orizzontale in cui ogni passo – che non è frutto di una concatenazione meccanica – viene posto mediante un salto, poiché il peccato “entra nel mondo sempre a questo modo” (p. 109). Kierkegaard torna a sottolineare il carattere non astratto della libertà, che non va concepita allo stregua di un generico libero arbitrio o, per così dire, di una libertà d’indifferenza, anche perché la “libertà è infinita e sorge dal nulla” (p. 110). Nella prospettiva delineata da Kierkegaard, scegliere nuovamente di peccare significa aggravare la situazione, poiché il peccato si rinnova e si potenzia in ogni nuova situazione di possibilità. A causa del peccato, nessuna situazione storica mostra di avere un valore assoluto, nel senso che nessuna verità umana può coincidere con l’assoluto. Se così fosse, infatti, il divenire storico sarebbe la “pienezza dei tempi”, trasformando così la storia nell’incarnazione dell’assoluto. Viceversa, solo nell’incarnazione del bene in una situazione storica ciò può avvenire, e segnatamente attraverso l’incarnazione di Dio in Cristo.
2) Nel primo paragrafo Kierkegaard introduce la questione riguardante l’angoscia del male. Rispetto alla libertà perduta che – come possibilità assoluta – era anche libertà del bene – il peccato appare in questo caso come qualcosa di negativo, come una “possibilità tolta” e una “realtà ingiustificata” (p. 111). Essere nel peccato significa però riconoscere che non bisognerebbe essere in tale situazione, per cui esso andrebbe negato per riconquistare la libertà. Il peccato, proprio perché è tale, ha costretto colui che pecca, l’ha condizionato al male – così come la statua del Commendatore tiene prigioniero Don Giovanni nell’omonima opera di Mozart (cfr. p. 111). Per un verso dunque il peccato è prigioniero di se stesso, ma per un altro non vuole esserlo. Il peccato è una realtà ingiustificata e un male per così dire abusivo sia per le eventuali conseguenze future del male commesso, sia per la possibilità di commettere di nuovo un male già commesso. “Per quanto sia profonda la caduta dell’individuo, esso può cadere ancora più in basso e questo ‘può’ è l’oggetto dell’angoscia” (p. 111). L’angoscia ha quasi il compito di negare tale realtà ingiustificata e di tenere viva la coscienza del peccato, impedendo ad esso di mettere “radici nell’individualità” (p. 111). Ne consegue che, data che sua funzione in parte positiva, non è auspicabile liquidare l’angoscia in maniera incondizionata.
3) Da un lato l’uomo ama il peccato, dall’altro però vorrebbe essere libero, senza essere cioè imprigionato dal peccato. Su questo piano inizia una sorta di sofistica in difesa del peccato, attraverso cui l’uomo cerca varie giustificazioni per il suo voler al contempo peccare e non peccare, ovvero per amare il peccato senza riconoscerlo però come tale. Tale sofista del peccato o, per meglio dire, questo “sofisma del pentimento” (cfr. p. 113 sg.), in base al quale ci si vorrebbe giustificare del peccato senza peraltro rinunciare ad esso, può esser vinto solo da una maieutica dell’angoscia che lascia libera all’uomo solo la via della fede. Al riguardo Kierkegaard afferma che l’angoscia sorge anche dalle conseguenze del peccato. Tuttavia, finché l’angoscia nasce, l’individuo può sempre sperare di salvarsi. L’individuo non sarebbe angosciato se non gli mancasse qualcosa, e più precisamente il bene che ha perso. Sotto questo profilo, l’angoscia è un indice positivo, nel senso che più il peccatore è tale, più l’angoscia è debole, non essendovi un’effettiva preoccupazione per la situazione peccaminosa.
4) A partire da p. 112, Kierkegaard descrive il sottile gioco dell’angoscia, consistente nel fatto che il peccatore matura una coscienza del peccato, ma al tempo stesso cerca di spiegare in altro modo il peccato per non essere costretto a riconoscerlo. Spesso il peccatore evoca, ad esempio, delle determinazioni quantitative, come quando si riconosce di aver fatto qualcosa di negativo, ma che in definitiva ciò che si è commesso è quasi nulla. Il peccato non è quantità ma qualità, per cui una volta posto esso dev’essere solo tolto. ponendo al suo posto qualcosa di qualitativamente altro. Per questo motivo, togliere il peccato significa saltare dal piano della quantità e della finitezza a quello della qualità e dell’infinito proprio della fede.
5) Nella sua più profonda realizzazione, la coscienza del peccato che si esprime nel pentimento è però cosa rara. Tra l’altro, nella sfera religiosa non di deve parlare di genialità come nelle altre sfere (politica, estetica o filosofica). Nessun uomo può essere responsabile, infatti, di non mostrare genialità ad es. in campo artistico, mentre ogni uomo è responsabile di peccare, proprio perché invece può non voler commettere peccato. Il problema sorge quando l’angoscia sfocia in una forma di pentimento inautentica, e cioè in un senso di colpa che si rattrista in maniera puramente estetica per il peccato commesso e le conseguenze che ne derivano, senza che ciò si accompagni a un vero cambiamento di vita. Un pentimento segnato dall’angoscia segue il peccato “passo per passo, ma è sempre in ritardo di un istante” (p. 112), cosicché invece di togliere il peccato, ne risulta direttamente al servizio. Da un lato, un pentimento inautentico riconosce il peccato per ciò che è – ovvero come una realtà giustificata – ma da un altro non prende sul serio il male compiuto, non riuscendo perciò di fatto a reintegrare la libertà. In tal senso, un pentimento così concepito non può eliminare il peccato, ma solo rattristarsene, giacché la contrizione in quanto tale non serve a liberare l’uomo. In questo modo si attua solo un meccanismo di difesa con cui si cerca di tenere a bada l’angoscia, risparmiando cioè nell’elaborazione della colpa a fronte di un atteggiamento che lascia intendere di soffrire terribilmente per essa. L’angoscia che accompagna tale pentimento non è più orientata al futuro, risultando – non senza un ripiegamento vittimistico – la punizione naturale per il peccato commesso. Tale forma di pentimento non riesce perciò a trovare una via d’uscita e l’individuo che si pente in maniera inautentica tende a giustificare le proprie scelte, assolvendosi in parte e non considerandosi comunque del tutto responsabile per le conseguenze del male commesso. Di qui il rischio di divenire preda di una catena irresolubile di sensi di colpa, che lo trascinano ancor più nel peccato, in assenza di un vero cambiamento. Così facendo, l’uomo rischia anche l’assuefazione al peccato, fino a far quasi scomparire l’angoscia del male.
6) A p. 112 Kierkegaard descrive due casi di angoscia. Nel primo, l’angoscia opera perché l’uomo si rende conto che il peccato dev’essere tolto, per cui “l’angoscia si fa sentire di più” quanto più si sente la necessità di eliminare il peccato. Nel secondo caso l’uomo si angoscia perché sente di aver intrapreso un cammino nel quale il peccato diventa sempre più grave. Se in questo caso l’angoscia diminuisce, significa che l’uomo non si angoscia più per il fatto di peccare e che la “conseguenza del peccato trionfa” (p. 112). Nel primo caso l’angoscia c’è perché c’è il peccato, anche se il peccatore non vuole confessare la presenza del peccato stesso, interpretando in qualche modo il proprio angosciarsi come un tentativo di cancellarlo. Nel secondo caso, la realtà dell’angoscia è invece essenzialmente rivolta “alla possibilità esteriore del peccato”, con un ulteriore allontanamento da un percorso di liberazione dalla situazione peccaminosa. C’è poi una forma ancor più grave di angoscia, che Kierkegaard descrive citando un verso del Re Lear di Shakespeare: “O capolavoro della natura distrutto” (p. 112). Re Lear si duole di sé, ma non ha la forza per mutare il proprio destino. Come nel caso del pentimento inautentico, anche qui il peccato – considerato nelle sue conseguenze – viene visto come una sorta di punizione, quasi cioè che le conseguenze del peccato possano punirlo col pentimento che fanno sorgere nel peccatore. È chiaro però che in questo quadro l’individuo si pente, ma si lascia però cadere nuovamente nel peccato e vincere dal dolore per il peccato commesso. “Qui l’angoscia è al suo culmine. Il pentimento è uscito di senno e l’angoscia è elevata alla potenza del pentimento. [...] Il peccato vince. L’angoscia si getta disperatamente nelle braccia del pentimento” (p. 112 sg.). Il sofisma che il “pentimento impazzito può generare” consiste nel far ritenere al peccatore di peccare al fine di pentirsi, e non di pentirsi per aver peccato. Da questo circolo sofistico si può uscire, secondo Kierkegaard, solo con il salto nella fede. Questa ha infatti la forza per condannare la follia del pentimento, riconoscendo che il pentimento – in tale accezione – costituirebbe a sua volta un nuovo peccato. “L’angoscia dissangua il pentimento, lo priva della sua forza, gli fa venire il capogiro” (p. 113), per cui è solo la fede che può realizzare l’estinzione dell’angoscia, portandola a rovesciarsi nel suo contrario e dunque a far nascere ciò che è in grado di cancellare il peccato attraverso il progressivo consumarsi dell’angoscia e l’avvento della fede che ne prende il posto. Queste forme di angoscia appartengono, secondo Kierkegaard, all’angoscia del male, ovvero dell’angoscia provata da colui che, trovandosi nel male, soffre però di esso avendo bisogno del bene. In tal senso, l’angoscia di cui si parla qui non rappresenta una chiusura totale al bene, né un suo rifiuto radicale.
7) Nel paragrafo 2 (cfr. pp. 115 sgg.) s’inizia a trattare dell’angoscia del bene, ovvero del fenomeno del demoniaco. L’elemento demoniaco si trova al fondo di ogni uomo e costituisce una forma precipua d’angoscia e di disperazione. Il demoniaco viene descritto da Kierkegaard come uno spirito chiuso in se stesso, avvolto nella propria individualità: più in particolare, è l’uomo non libero che intende chiudersi nella propria non libertà, a dimostrazione che tale non libertà è ancora un fenomeno della libertà (cfr. p. 119 sg.). Se l’angoscia del male nasce in ragione di un male commesso, quella del bene nasce – in un individuo che è comunque immerso nel male – per il bene che è al di fuori lui e che per questo lo angoscia. Questa situazione è demoniaca perché colui che vi si trova si rifiuta di riconoscere il bene, vuol negare il bene al punto da non volere che esistesse. L’indemoniato si chiude in se stesso proprio perché vuole il proprio male, vuole essere tormentato da ciò che è negativo proprio perché non è buono. Se la libertà si qualifica per la sua espansione e per il senso di apertura che promana da essa, la non libertà dell’indemoniato è invece prigioniera di sé, rifiutandosi a ogni forma di contatto e di comunione. L’angoscia del bene si qualifica dunque per indurre l’individuo a restare nella condizione di colpa, opponendosi ad ogni cambiamento. Il rifiuto di accettare qualsiasi aiuto od offerta di salvezza porta l’indemoniato a restare centrato su di sé, cercando delle sicurezze nella dimensione del finito, nel tentativo disperato di restare centrato su di sé nelle forme della chiusura totale, dell’assenza di comunicazione e di un atteggiamento taciturno.
8) Per caratterizzare la condizione degli indemoniati Kierkegaard si richiama ripetutamente alla condizione in cui il male non vuole avere nulla in comune col bene, chiudendosi in sé proprio per separarsi dal bene il più possibile. Tanto più è decisa questa volontà di separazione, tanto più grande è l’angoscia nell’indemoniato. Il voler essere a tutti i costi altro rispetto al bene contrassegna l’essenza del comportamento demoniaco. La volontà di rinchiudersi nella propria solitudine, di ripiegarsi su di sé, di non comunicare e di negare ogni aspetto relazionale dell’esistenza si traduce, nel demoniaco, in un’idolatria di sé, in una sorta di feticismo e di affermazione del proprio essere indemoniato. La distinzione tra angoscia del male e angoscia del bene viene ribadita da Kierkegaard dicendo che non basta la “schiavitù del peccato” per caratterizzare la situazione demoniaca (cfr. p. 115 sg.), la quale si verifica allorché l’individuo non è più libero di fronte al bene, per cui ogni suo movimento si rivolge al male. In questo quadro s’inscrivono gli accenni ai tratti fisiognomici – mimica bestiale, ghigno animalesco – che l’angoscia demoniaca lascia sulla figura e sul volto del demoniaco (cfr. p. 115).
9) In primis, il demoniaco viene considerato dal punto di vista estetico-metafisico, nel senso che esso viene visto in relazione al problema metafisico del male (cfr. 116 sg.). Su questo piano i pensieri che il demoniaco suscita non devono essere però estetici, cioè non devono essere mere espressioni di dolore o rappresentazioni drammatiche riguardanti il destino. La critica di Kierkegaard si rivolge qui a quella forma di compassione superficiale che compatisce senza alcune partecipazione al dolore, per quanto un misterioso rapporto con esso ci debba pur essere. In quanto superficiale, tale compassione è ben lungi dal fare il bene di chi soffre, servendo solo da riparo per l’egoismo di chi la attua. Con questo genere di compassione si tenta infatti di sfuggire dal porre il misterioso problema del male che l’uomo avverte in maniera tormentosa. Al riguardo, la fuga assume anzitutto una veste estetica, riducendosi – in una sorta di messa in scena – a espressione puramente sentimentale del dolore nel rifiuto di ogni autentica partecipazione.
10) La considerazione del demoniaco dal punto di vista etica (cfr. pp. 117 sgg.) si fonda invece sul principio che se qualcuno è indemoniato o dà segni di squilibrio, significa che è colpa sua, avendo appunto commesso qualcosa di male. Sotto questo profilo, potrebbero essere considerate alla stregua di colpe molte manifestazioni psicologiche anormali o devianti. Secondo Kierkegaard, la severità e anche la crudeltà riservata a tali casi di demoniaco andrebbero salutati come espressione di serietà. Questa concezione priva di umana pietà sembra inscriversi nella tradizione delle superstizioni e delle torture medievali, dimenticandosi del tutto dell’atteggiamento cristiano che cura attraverso l’amore. Il tratto illiberale di questi pensieri torbidi e della stessa severità medievale viene erroneamente attribuito da Kierkegaard a sant’Agostino (cfr. p. 118), quando si tratta invece di posizioni riconducibili a Tertulliano. Tale concezione, assai più che paradossale, viene però ritrattata da Kierkegaard qualche pagina dopo. D’altronde, non sarebbe bastato, al riguardo, rifugiarsi dietro all’identità dello pseudonimo, di cui non è necessario condividere tutti i punti di vista.
11) Se dal punto di vista estetico-metafisico il demoniaco viene considerato come un destino incomprensibile, che non dev’essere però affrontato in termini di atteggiamento compassionevole tipico di chi si limita a commiserare il dolore altrui sulla base del desiderio inconfessato di allontanare da sé la sofferenza, dal punto di vista etica il demoniaco è visto invece come una colpa da condannare in maniera dura. Quest’approccio rappresenta per Kierkegaard un deciso passo avanti, nel senso che prende sul serio la persona nella sua dimensione etica, aprendo così a una concreta possibilità di liberazione (dal male e dall’angoscia). In questo senso anche la severità della punizione poteva essere riscattata come una sorta di purificazione, ben distante dal sentimentalismo compassionevole tipico della società moderna. In ogni caso, Kierkegaard stabilisce che non si può venire a capo del demoniaco in chiave naturalistica con mezzi meramente scientifici, ma anche ricorrendo a interventi sociali.
12) L’angoscia della colpa può anche rivelarsi però in manifestazioni di ordine psicopatologico che rende il demoniaco “oggetto di trattamento medico” (p. 118). Il farmacista e il medico si alleano per isolare il paziente, in modo che gli altri non s’impressionino. Ma poiché si tratta di un’angoscia conseguente al peccato, è evidente che non può bastare un estrinseco trattamento medico. Occorre ricondurre infatti il fenomeno all’unitarietà dell’uomo, essendo questi una sintesi di corpo e anima effettuata dallo spirito, nell’ambito della quale ogni alterazione di una delle componenti si riflette sul carattere organico dell’esistenza umana. Nell’approccio medico al problema demoniaco si riverbera un certo ideale illuministico, che si nutre di una fede forse eccessiva nelle capacità terapeutiche della medicina, in cui però prevale un rapporto col malato fatto d’insincerità e ipocrisia. “Nel nostro tempo coraggioso non si osa avvertire il malato che sta per morire; non si osa chiamare il sacerdote, per paura che egli muoia dallo spavento; non si osa dire a un paziente che negli stessi giorni è morto uno della stessa malattia” (p. 118). Da qui la malintesa benevolenza con cui si isola il malato, nel quadro di una sostanziale mancanza di sincerità. I medici tendono spesso a coprire la loro incapacità con atteggiamenti compassionevoli, che tradiscono però inumanità e cinismo. Citando una novella di Hoffmann, Kierkegaard dice che un atteggiamento del genere si manifesta ad esempio quando il medico curante, conscio dei propri limiti, dopo aver esclamato in maniera pomposa: “questo è un affare serio”, si dilegua mostrando di considerare il malato come u caso clinico da trattare solo in maniera statistica (cfr. p. 118).
13) Kierkegaard passa poi a sviluppare la propria personale analisi psicologico-esistenziale del demoniaco, cercando di determinare in maniera più accurata tale nozione. S’inizia dicendo che “nell’innocenza non si può parlare di demoniaco” (p. 119), ma ciò non va certo legato all’idea fantastica di un “patto col male”. A tale altezza, Kierkegaard corregge il tiro rispetto alle posizioni sostenute in precedenza, osservando che la crudeltà esercitata nei confronti del demoniaco è di fatto contraddittoria, in quanto nell’assunto della punizione si presume che chi viene punito abbia la capacità di piegare la punizione in senso positivo, indirizzandola alla salvezza. Il demoniaco, per Kierkegaard, può determinarsi in varie situazioni. La possibilità del demoniaco è infatti implicita nella possibilità in generale, ovvero nella libertà che – una volta perduta – si fa sentire come angoscia del bene. Il demoniaco è, in generale, la condizione in cui può “prorompere, in ogni momento, la “singola azione peccaminosa” (p. 119). Il demoniaco è “l’angoscia del bene”, Nell’innocenza, l’angoscia interna ad essa è in funzione di una libertà non ancora posta, di cui sono presenti le infinite possibilità. Trasposta sul piano della libertà, l’innocenza – nell’infinito delle possibilità – può anche peccare. Ma se pecca, in essa si produrrà l’angoscia per il male in cui è caduta la libertà, e tale angoscia servirà a ricondurre l’uomo all’innocenza, ovvero a riconquistare un’innocenza che è più dell’innocenza non ancora persa. La riconquista dell’innocenza comporta dunque la vittoria sul peccato, orientando alla salvezza. Nell’angoscia del bene, invece, non si aspira più all’infinito della libertà, come nell’innocenza, e cioè a un infinito che contiene di fatto anche il bene. Nel demoniaco il rapporto è inverso a quello che si registra nello stato d’innocenza. In esso, infatti, che è caratterizzato dall’angoscia del bene, c’è il rifiuto per così dire programmatico della salvezza. La libertà è posta qui “come non libertà, perché la libertà è perduta” (p. 119). Il demoniaco, nella sua essenza, funge da limitazione del possibile. Nell’infinita possibilità tutto è possibile – sia il bene, sia il male – ma il demoniaco parte negando la possibilità, finendo quindi per convincersi che l’uomo scelga necessariamente il male. Chi crede che il male costituisca l’unica realtà, è già di fatto catturato dal male nella misura in cui, considerandolo la sola possibilità, gli conferisce un valore quale fondamento del mondo e della vita. Tuttavia, il progetto del demoniaco sembra incontrare degli ostacoli, dal momento che negare la libertà non è mai del tutto possibile e l’angoscia – che l’uomo non è riuscito a dominare – appare il segno del bisogno della libertà negata. Peraltro, la non libertà esercita sempre sull’uomo una notevole seduzione, giacché per converso la libertà è sinonimo di rischio, d’inquietudine spirituale, di una consapevolezza spesso dolorosa, cosicché per lo più si tende ad evitarla. La libertà sembra essere infatti gravata da un eccessivo senso di responsabilità e gli uomini sembrano per lo più soffrire per una libertà che li precipita in uno stato d’inquietudine, che ci si affretta ad anestetizzare ricorrendo a concezioni dogmatiche o mitiche.
14) Kierkegaard dice che il demoniaco è “la non libertà che vuole chiudersi in se stessa” (p. 119), senza però riuscire a farlo davvero, restando sempre esso “in un certo rapporto col bene” (p. 119). In ogni caso si tratta di un atteggiamento di chiusura liberamente voluto, attraverso cui ci si chiude solipsisticamente in sé. La caratterizzazione essenziale del demoniaco si traduce nel suo essere taciturno (il demoniaco non spiccica parola, monologizza, parla con se stesso), per cui tale fenomeno si manifesta con il rifiuto di ogni forma di comunicazione (cfr. p. 120). L’angoscia del bene e della libertà si qualifica perciò per essere soprattutto angoscia della comunicazione, poiché l’individuo demoniaco può uscire dalla propria solitudine e chiusura solo laddove gli viene rivolta una parola che lo invita a ravvedersi.
15) Con la parola “il fascino dell’incantesimo scompare. Perciò il sonnambulo si sveglia quando è chiamato per nome” (p. 123). In tal senso la parola assume il significato di una rivelazione, anzi di una prima forma di liberazione ed espressione di salvezza. Il demoniaco, infatti, ha piacere nell’isolarsi, nel crogiolarsi nella propria illibertà, proprio perché l’angoscia che prova riguarda il giungere a cogliere ciò che davvero egli è. Per questo rifiuta di comunicare, privilegiando il silenzio e la menzogna alla stessa verità (cfr. p. 120). A ben vedere, però, il demoniaco non può sciogliere tutte le relazioni e i legami con l’esterno, giacché se anche solo proferisce parola entra in contraddizione con se stesso. La parola è per essenza comunicazione, essendo di fondamento relazionale: è il primo segno che l’uomo non vuole essere solo e, se dichiara di volerlo essere, per il solo fatto di esprimere tale volontà egli si pone in un rapporto comunicativo con qualcosa di altro. La parola è quindi prova della falsità di ogni solipsismo, vale a dire è la prova che qualcosa trascende il pensiero e l’ordine simbolico del discorso. Il carattere significativo delle parole rimanda non solo a fatti, cose o persone, ma all’intera sfera delle possibilità non ancora realizzatesi. Anche se l’indemoniato parla contro il bene, le parole testimoniano del fatto che egli vuole ancora il bene, pur simulando di non volerlo. La parola è ciò che può salvare, quindi, l’indemoniato. L’indemoniato si chiude infatti in se stesso, provando angoscia del bene, proprio perché capisce paradossalmente di essere inevitabilmente in rapporto con ciò che vorrebbe negare, liberandosene. Proprio tale dialettica lo rende però sempre più aperto alla possibilità. Del resto, “la taciturnità è la rivelazione involontaria” (p. 125). La stessa tortura del silenzio imposta a un “delinquente ostinato”, che non vuole confessare, riesce a “finalmente a far prorompere, involontariamente, la confessione” (p. 121). Per Kierkegaard, “nessun uomo che abbia una cattiva coscienza può sopportare il silenzio” (p. 121), e ciò costituisce la prova di come al fondo di ogni uomo che ha deciso di chiudersi nella taciturnità vi sia il bisogno di comunicare, giacché “tutta la disperazione, tutti gli orrori del male compresi in una sola parola non destano lo spavento che può suscitare il silenzio”. Certamente, l’indemoniato continuerà a sostenere di non aver nulla in comune con il bene, ma dice ciò perché vuole negare quella comunione che sente comunque di avere. Di qui tra l’altro l’affinità, che Kierkegaard non poté negare, tra la categoria del demoniaco e quella hegeliana del negativo. Ciò che emerge da questo contesto, è che la parola significa rivolgersi già al bene, non importa se in maniera diretta o indiretta. Di conseguenza, il linguaggio sembrare trovare un fondamento religioso, in quanto sembra tradursi nella fede in un messaggio di salvezza e nella possibilità stessa dell’amore.
16) Il ritorno a comunicare rappresenta, dunque, la vittoria sul demoniaco che è negazione della parola e affermazione contraddittoria del silenzio. Come logos, la parola è incarnazione del divino nel mondo. Nell’affermare che la parola è, a un tempo, testimonianza e possibilità della fede, Kierkegaard rileva tra l’altro l’importanza che “il fanciullo sia educato sul’esempio della taciturnità nobile e preservato da quella fraintesa” (p. 122). Ma ritornando a trattare dell’essenza del demoniaco, la continuità di tale fenomeno sembra innanzitutto consistere nella sua mancanza di contenuto, e dunque nella noia e nella monotonia, come del resto sembra attestato dal fatto che il “diavolo impiegò 3000 anni a riflettere per trovare il modo di far cadere l’uomo” (p. 127). L’individuo demoniaco si contrae in sé proprio in ragione suo vuoto interiore e della mancanza assoluta di contenuto. Tuttavia, va rimarcato che l’illibertà del demoniaco è il risultato di un opporsi volontariamente al cambiamento, per cui – come dice Kierkegaard – “la non libertà è un fenomeno della libertà e non si può spiegare con le categorie della natura [...in quanto] in essa c’è sempre una volontà che è più forte del desiderio” (p. 130 nota). Ricercando la radice ultima dell’atteggiamento demoniaco, ci s’imbatte in due modi in cui un individuo può arrivare a perdere la libertà o in cui, per così dire, la libertà si trasforma – rovesciandosi – in illibertà.
17) Il primo modo di perdita della libertà è quello somatico-psichico (cfr. p. 131 sg.). Esso si manifesta quando la libertà – congiurando contro se stessa – si unisce al corpo nel tentativo di ribellarsi all’anima e allo spirito, producendo uno stato di abbruttimento e di perdizione bestiale, in cui l’individuo finisce per accettare la propria condizione di miseria e di disperazione. Il secondo modo è invece quello “pneumatico” (cfr. pp. 132 sgg.), che si ha quando il rapporto tra verità e libertà porta a uno scollamento di stampo conoscitivo, per cui subentra il rifiuto da parte dell’individuo di lasciarsi compenetrare dalla verità anche sul piano dell’azione e dell’esistenza tutta. La perdita somatico-psichica della libertà può assumere “sfumature innumerevoli”, così “impercettibili” da potersi scoprire solo con “l’osservazione microscopica”, ma anche altre così dialettiche da poter essere ricondotte sotto la propria categoria solo attraverso un uso di essa assai elastico (cfr. p. 131 sg.). Al livello più basso si registra comunque quella condizione di abbruttimento che determina, nell’individuo, il sottrarsi ad ogni contatto col bene. La stranezza è però che anche un individuo siffatto ha bisogno tuttavia di unirsi a individui in preda alla stessa angoscia del bene e della libertà, con l’esito così di dar luogo a quella “socialità dell’angoscia” (p. 132), che sembra assai più forte di una semplice forma di amicizia.
18) Il demoniaco è espressione, quindi, della perdita della libertà e del rifiuto nei confronti di essa ma, più in generale, del rifiuto dell’amore e di riconoscere il valore della parola che è il corrispettivo della perdita della fede. La fede, infatti, è quel principio di armonia che rende l’uomo organicamente congiunto in sé, nella sintesi tra corpo e anima realizzata dallo spirito. Si capisce, perciò, che l’uomo diviene persona non in ragione della propria realtà biologica o di una struttura psicologica comunque legata al corpo, ma in virtù di una spiritualità armonica raggiungibile attraverso il salto nella fede. Già nell’analizzare lo stato d’innocenza, Kierkegaard aveva colto come non si trattasse di una pura immediatezza, e cioè di un dato semplice ed elementare. Fin dall’inizio è presente infatti una relazione tra elementi costitutivi, a partire da quella tra tempo ed eternità. Ogni fondamento della relazione è dialettico, contemplando cioè un rapporto tra possibilità e attualità in un istante dato o, per meglio dire, l’ambiguità dell’angoscia stretta tra libertà e non libertà. L’assetto relazionale messo a punto dallo spirito è ciò che costituisce l’uomo come unità mai identica, dal momento che la relazione tra termini non si svolge, per Kierkegaard, nel solco di una dialettica tautologica che determina la relazione come sintesi. Lo spirito realizza tra anima e corpo una sintesi di ordine storico e temporale – una sintesi che puà però entrare a sua volta in crisi al cospetto di un regno di possibilità infinite, in cui è possibile optare per una sintesi più armonica o scegliere viceversa il peccato e l’esistenza demoniaca. La fede è ciò che consente di non disperare e di conquistare di continuo la libertà, confidando in un grado di comunicazione e di amore sempre più elevati. La perdita della libertà può avvenire, quindi, sia ad opera del corpo (fisica) sia dell’anima (psichica), ma può derivare anche dallo spirito (pneumatica), cosicché solo la fede è deputata a riconquistare un tutto che si è smarrito nella perdita delle rispettive parti.

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Lezioni della settima settimana
1) Kierkegaard esamina il tema della verità (cfr. pp. 133 sgg.), non considerata però in senso astratto o intellettualistico, ma come attività interiore dell’uomo che lo impegna in tutto se stesso, penetrando cioè in tutto il suo essere. In quanto attività e interiorità, la verità e libertà spirituale al servizio della personalità umana, trovandosi appunto al centro di essa e impedendo ogni deriva nell’ermetismo e nell’assenza di comunicazione. L’uomo libero – l’unico ad essere se stesso – è quello che non si chiude alla liberta, situazione nella quale scaturisce invece l’angoscia per la possibilità infinita. Da ciò consegue che la forma più alta di educazione dev’essere ispirata dalla possibilità, poiché solo un’educazione del genere prepara ad accettare le conseguenze dei propri atti. L’educazione dev’essere dunque sempre in funzione del possibile e non del reale, nel senso che si deve operare rimanendo fedeli alle proprie scelte che non dovranno essere calibrate sulla dimensione finita delle cose. Chi agisce invece sul piano della possibilità, agisce al cospetto di qualsiasi evenienza, cosicché la sua fede risulterà indifferente a qualsiasi risultanza proveniente dal mondo storico.
2) Il problema della verità, esistenzialmente concepito, porta con sé quello della certezza e dell’interiorità, che sono tra l’altro il “criterio per stabilire se l’individuo sia demoniaco o no” (p. 133). Tutti i fenomeni negati mancano infatti di certezza, in quanto “giacciono nell’angoscia del contenuto” (p. 133). La mancanza di certezza e d’interiorità equivale, per Kierkegaard, a una mancanza di serietà. Se l’interiorità è infatti ciò che ci collega alla fede, legandoci alla vita eterna, la serietà può dirsi ciò che sgorga da tale sorgente. La serietà è il culmine di un interesse soggettivo, di una partecipazione intensa all’interiorità, che non ha nulla però del carattere astratto e intellettualistico dell’io fichteano (“Il filosofo dice Ich-Ich, finché egli stesso non diventa la cosa più ridicola del mondo”, p. 146). La serietà è l’espressione più profonda della natura dell’animo umano e la soggettività di cui parla Kierkegaard – e di cui rivendica la necessaria ipertrofia – non è il soggetto astratto dei filosofi, ma la personalità umana nella sua individualità, nella libertà e responsabilità della scelta. La coscienza è seria quando conserva intatto il senso della propria responsabilità e della propria liberta: ovvero, quando non si abbandona all’abitudine. A proposito di come sia tremenda la perdita della serietà, Kierkegaard cita un passo dal Macbeth di Shakespeare: “Da quell’istante, non c’è più nulla di serio nella vita mortale [...] il vino della vita è spillato (esaurito)” (p. 140). La serietà si ha solo laddove l’io fa di sé l’oggetto precipuo del proprio interesse, lasciando che la sua concreata esistenza sia permeata dall’eternità. Quando manca l’interiorità (di cui certezza, personalità e serietà sono termini equivalenti) lo spirito è finito, proprio perché l’interiorità non è altro che l’eternità, vale a dire la determinazione di ciò che è eterno nell’uomo. La serietà corrisponde allo sguardo di Dio che si posa sull’uomo, ma è al contempo l’essere davanti a Dio, ovvero considerare le cose in quella luce che è riflesso dell’eterno.
3) Il vino della vita si esaurisce, dunque, quando l’uomo si rifiuta al rapporto con l’eterno. La vita che vuole essere in rapporto con l’eterno, vuole – nella continuità – riprendere se stessa nella sua totalità, giacché la “ripetizione è la serietà dell’esistenza” (p. 142 nota). Il vero rinnovamento e l’autentica serietà della vita si ottengono perciò solo con la fede e nella rinascita di ordine spirituale. La negazione dell’eterno, a cui Kierkegaard allude, è quella che contrappone all’eternità dell’attimo il gusto estetico della vita. Ma c’è anche una negazione razionalistica dell’eterno che tenta di ridurre filosoficamente l’eternità nelle forme del discorso logico. Al contempo, Kierkegaard considera una negazione dell’eterno – e dunque un venir meno della serietà – anche l’idea di un Dio concepito come principio o il tentativo di dimostrare l’esistenza di Dio con argomenti logico-razionali, senza far appello invece all’amore e all’interiorità. Lungi dal dimostrarne l’esistenza, in tal modo l’uomo finirebbe invece per negarlo (cfr. p. 141).
4) In conclusione del quarto capitolo, Kierkegaard fornisce anche una sorta di breve tipologia della negazione dell’eterno, costituita da quattro casi particolari (cfr. p. 145 sg.). In primo luogo, si nega l’eterno nell’uomo, legandosi in qualche modo all’istante, e cioè rafforzando l’elemento temporale. “ Se si pone l’eterno, il presente è diverso da ciò che si desidera. Di questo si ha paura e così si è nell’angoscia del bene” (p. 145). Tuttavia, negare l’eterno – per il fatto che lo si considera un elemento destabilizzante degli aspetti funzionali dell’esistenza – non vuol dire però che si riesca a sbarazzarci definitivamente di esso, anche perché “l’angoscia dell’eterno riduce il momento a un’astrazione” (p. 145). In secondo luogo, l’eterno viene concepito in maniera del tutto astratta, trasformandolo così in un orizzonte in finitamente distante a cui non ci si può avvicinare, per cui rischia di sottrarsi alla vista. In questo modo l’eterno viene ridotto a confine estremo di una vita che rientra del tutto nel piano dell’immanenza: in questa sua realtà di limite puramente esteriore, l’eterno è come le montagne azzurre, è il limite della temporalità, ma colui che vive vigorosamente non arriva al limite” (p. 145). In altri termini, gli individui vivono entro un orizzonte d’eternità, senza però poterlo includere nella propria esistenza. In terzo luogo, “si trascina l’eternità nel tempo come spettacolo per la fantasia” (p. 145). In questo modo lo si trasfigura in chiave poetica, con perdita di ogni serietà, facendo dell’eterno – alla maniera romantica – un tema della riflessione artistico-letteraria, che non funge da anticipazione della vita eterna ma opera da rimozione dell’eterno in senso demoniaco. In quarto luogo, infine, l’eternità viene intesa dal punto di vista metafisico, finendo per equivocare sia sull’idea d’immortalità, sia sul rapporto tra eterno e temporalità. Qui Kierkegaard rilancia la sua polemica con la grande metafisica tedesca contemporanea (Fichte e Hegel, in particolare: cfr. p. 146). Queste filosofie appaiono demoniache in quanto divinizzano l’uomo, ponendo al posto della trascendenza l’eternità astratta dello spirito assoluto, dell’”io puro, dell’eterna autocoscienza” (p. 146), con il che l’io smarrisce la sua concretezza personale, la singolarità fatta di responsabilità e libertà. Al riguardo, Kierkegaard – che pur rivendica il ruolo ipertrofico della soggettività – contrasta il carattere mondano di un’epoca informata dalla filosofia hegeliana della storia e da uno spirito oggettivo che fungeva da trascrizione di una società massificata e di una democrazia borghese del tutto immemore della serietà cristiana. Kierkegaard rappresenta perciò un fenomeno di reazione paradossale nei confronti delle tendenze dominanti, incentrate su un sapere astratto e su una religiosità superficiale.
5) In definitiva, l’angoscia demoniaca del bene, che si manifesta – sotto il profilo fenomenologico – nel ripiegarsi su di sé e nel rifuggire ogni forma di comunicazione, si configura come l’effetto di una mancanza strutturale di certezza, d’interiorità e di serietà: ovvero discende dal rifiuto di dar seguito alla verità nell’azione, di riprendere con serietà ciò che è l’oggetto autentico della serietà medesima, vale a dire la posizione del singolo di fronte all’eterno. In tal senso, l’angoscia demoniaca del bene è angoscia dell’eterno. In una società che rimuove la presenza dell’eterno dalla propria dimensione collettiva, anche l’individuo sembra non accogliere più la sfida alla propria esistenza derivante dal pensiero dell’eterno, per cui l’uomo stenta – anche per non incrinare un’esistenza borghese stabilizzata da una cornice demoniaca – a far risuonare nella propria esistenza temporale la presenza costante dell’eternità.
6) Il quinto e ultimo capitolo si apre con un accenno a una favola dei Grimm in cui si parla di un “ragazzo che andò in cerca di avventure per imparare a sentire l’angoscia” (p. 149). Questo incipit chiarisce il significato da attribuire alla personalità umana, che deve appunto imparare a provare angoscia. La possibilità fa sì che l’uomo possa volere ciò che vuole, ma fa anche sì che l’uomo – nell’infinito delle possibilità – viva nell’angoscia. L’angoscia è tuttavia la prova che la vera via per l’uomo è quella della spiritualità, in cui si delinea il cammino verso il bene. Peraltro, Dio non vuole che l’uomo sia costretto a scegliere il bene, ma vuole che l’uomo sia libero di farlo. Il richiamo dell’infinito che l’uomo sente dentro di sé equivale, del resto, a un richiamo del bene. Naturalmente, tanto più si sente tale richiamo, tanto più cresce l’angoscia di fronte alla totale possibilità di rispondere positivamente ad esso. L’angoscia che qui si manifesta non è dunque un’angoscia esteriore, ma quella che l’individuo produce per così dire in proprio. Kierkegaard riconosce che l’angoscia non è una prerogativa solo dell’uomo, ma anche Dio può essere angosciato e, per meglio dire, può esserlo Gesù Cristo, ovvero Dio in quanto uomo. (Nel Vangelo di Matteo si dice che Cristo fu angosciato fimo alla morte; “Quello che fai fallo presto”; “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, cfr. p. 149). L’angoscia divina nasce dall’amore di Dio per l’uomo, dal desiderio che l’uomo si salvi scegliendo liberamente il bene, e proprio per questo Dio si fa uguale agli uomini soffrendo con loro. L’angoscia di Dio nasce anche dall’incomprensione degli uomini che non hanno colto fino in fondo il tema dell’amore e del dolore divino, ma nasce anche dal timore di non poter salvare tutti e di dover assistere a una perdizione generale.
7) Dopo aver definito l’angoscia “possibilità della libertà” (p. 149), Kierkegaard torna a ribadire l’importanza della categoria della possibilità in ordine a tutta la filosofia dell’esistenza. La filosofia della realtà, a cui si contrappone la filosofia della possibilità, è quella hegeliana. Per Kierkegaard, solo chi si è formato alla scuola della possibilità, si è formato secondo la propria infinità, in quanto la “possibilità è la più pesante di tutte le categorie” (p. 150), anche se molto spesso si sente dire il contrario. Coloro che parlano di una possibilità così lieve, hanno in mente un’invenzione fallace rappresentata dalla “possibilità di felicità, dalla possibilità di fortuna” ecc., non avendo infatti mai “saputo cosa sia la possibilità” ed essendosi invece dimostrati “buoni a nulla” proprio in rapporto a quella realtà da essi così glorificata nella sua pesantezza (cfr. p. 150). Il riferimento polemico alla scuola della realtà è costituito, naturalmente, dalla posizione hegeliana, per la quale la storia costituiva la vera realtà del mondo e l’unico giudizio autentico su di esso, laddove la possibilità rappresentava una dimensione di pura vanità. In verità, per Kierkegaard, nella possibilità tutto può darsi allo stesso modo, per cui chi segue questo tipo di formazione è stato in grado di comprendere i lati terribili e piacevoli dell’esistenza, “sapendo, meglio di un bambino il suo abbiccì, ch’egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento abitano con ogni uomo porta a porta, e se ha tratto profitto dall’esperienza che l’angoscia, di cui egli si angosciava, lo assalì nel momento seguente, allora darà alla realtà un’altra spiegazione,; esalterà la realtà e, anche quando essa pesa grave sopra di lui, si ricorderà che essa è molto più leggera di quanto non fosse la possibilità” (p. 150).
8) L’uomo è libero di scegliere, ma le conseguenze della sua scelta entrano nel mondo e camminano con le loro gambe. Il momento decisivo per l’uomo è quello in cui ha la possibilità di decidere: in quell’istante, infatti, egli è di fronte all’eterno e la decisione presa in tali momenti dà significato e importanza a tutta la sua esistenza. Il momento rappresenta quella dimensione di ambiguità in cui tempo ed eternità si toccano, in cui la trascendenza e l’immanenza vengono in contatto, segnando il prevalere dell’elemento eterno e trascendente. Per questo Kierkegaard sostiene che il momento non è un atomo di tempo ma di eternità, giacché in esso si riflette la presenza dell’eterno nel tempo. L’uomo libero è colui che sceglie di poter indirizzare la sua vita futura all’insegna di una suprema possibilità di scelta e, in tal senso, la sua scelta non potrà essere per il peccato e la dimensione demoniaca dell’esistenza, quali situazioni che negano alla radice la libertà. In questo quadro, l’eventuale presenza del peccato potrà essere comunque riscattata dalla costante possibilità di optare per liberarsi da esso.
9) La “certezza interiore che anticipa l’infinito” (p. 150 sg.) è quella di chi sente, in anticipo, che tutto può accadere – comprese le cose negative – e che tuttavia non perde per questo la fede, scegliendo l libertà dell’amore. Chi si dispone a vivere in questo modo non si lascia dunque dominare dalla finitezza delle cose del mondo, ma agisce liberamente anche se il mondo gli mostrasse una certa contrarietà. Da qui si profila il senso di un’esperienza religiosa basata sulla libertà nella fede, laddove ogni negazione della libertà si traduce in angoscia. Negare la libertà è, quindi, l’anticamera dell’angoscia che – auspicando un destino preordinato – comporta anche la negazione di sé.
10) Il discepolo del possibile, che ha frequentato con profitto tale scuola, fa riferimento dunque alla realtà di ciò che potrebbe accadere, accettando che anche il male potrebbe in qualche modo educarlo alla vita. Di fronte alle infinite possibilità, la scelta che si determina però come bene è opera per così dire della fede, ovvero di una riconquista del mondo che passa attraverso la possibilità. La fede, con ciò, si qualifica come scelta nell’infinito, come istanza che opta per una vita non giocata solo sul piano orizzontale dell’esistenza, ma trasvalutata semmai – anche in questa dimensione – dopo il salto nell’eternità della fede stessa. Se “l’individuo inganna la possibilità dalla quale dev’essere formato” (p. 151), non arriverà mai alla fede, privilegiando così il mondo della finitezza e un atteggiamento di prudenza. Ma se costui non inganna la possibilità che vuole istruirlo e salvarlo, ecco che potrà risalire dall’abisso in cui era sprofondato (cfr. p. 152), ottenendo in restituzione non solo una realtà ancor più grande di quella acquisibile da un uomo della realtà, ma ottenendo addirittura l’infinito.
11) L’educazione del finito si basa dunque sulla casualità delle cose del mondo e sulla dispersione del loro accadere. Quella dell’infinito, invece, s’inspira alla visione della possibilità e all’angoscia che – educando alla fede – riconcilia l’uomo con il bene e con l’idea di salvezza. L’angoscia si conferma svolgere dunque un ruolo formativo nella vita dell’individuo, a patto che questi non si lasci ingannare dalle “sue innumerevoli mistificazioni” (p. 152), imparando ad angosciarsi cioè in maniera autentica, vale a dire del finito, pentendosi e ravvedendosi fino a cambiar vita. Diversamente, egli si affiderebbe al destino (cfr. p. 153), cadendo al contempo vittima della disperazione (della malattia per la morte) come ultimo punto di fuga dell’angoscia e del tentativo illusorio di trovare fondamento in se stessi. Nell’ottica cristiana di Kierkegaard, l’opera dell’educazione non può essere sciupata col richiamo banale al finito, attraverso meccanismi di protezione tesi a garantire solo sicurezza e prestigio, ma deve servirsi dell’angoscia come si conviene, poiché solo questa è in grado di svelare l’inconsistenza della sfera mondana e di ogni tentativo di affidarsi inconsapevolmente al destino. Nella funzione propedeutico-formativa d’introdurre alla fede, l’angoscia dischiude all’uomo la dimensione dell’eterno, giacché “chi ha imparato in verità a essere in angoscia può andare per una sua strada quasi danzando” (p. 155).
12) Dalla problematica dell’angoscia a quello della disperazione. Questi due libri, Il concetto dell’angoscia e La malattia per la morte, rappresentano per molti aspetti i punti focali della riflessione filosofica di Kierkegaard. La loro peculiarità, che si pone nell’alveo della trattazione riguardante i cosiddetti pensieri edificanti”, recupera molti dei temi che, in epoca patristica e medievale, si erano incentrati sulle miserie dell’esistenza umana e sui tormenti delle anime che peccano, sottraendosi al confronto con l’eternità e la trascendenza. Su questo piano matura l’estraneità della filosofia dell’esistenza kierkegaardiana rispetto al trascendentalismo e all’idealismo tedesco, ma anche il suo rifiuto anticipato del feticismo positivistico che avrebbe gradatamente preso piede a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Già dal titolo di quest’opera si coglie il rimando a una malattia che spinge verso la morte, senza però portare alla morte, configurandosi quindi come una malattia alquanto sui generis. Nel sottotitolo, invece, compare già l’indicazione del legame che stringono i temi della filosofia cristiana a quelli dell’esistenza, attraverso il richiamo al carattere edificante di tale opera. [“Un’analisi di psicologia cristiana per edificazione e risveglio”]. La ripresa del “carattere edificante” (in tedesco erbaulich) va messa in relazione con la netta affermazione di Hegel – contenuta tra l’altro nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito – secondo cui la filosofia dovrebbe tenersi distante dall’essere per l’appunto edificante.
13) La malattia per la morte è stata pubblicata cinque anni dopo Il concetto dell’angoscia, e dunque nel 1849, anche se il manoscritto della stesura originaria era già stato ultimato a metà dell’anno precedente. A partire dal 1843 Kierkegaard aveva iniziato a pubblicare i cosiddetti Discorsi edificanti, relativi al perfezionamento dell’uomo nel suo tendere verso Dio. Tra l’opera del 1844 e quella del 1849 cambia, tra le altre cose, lo pseudonimo utilizzato da Kierkegaard come propria maschera. Nella prima era Vigilius Haufniensis, nella malattia per la morte è invece Anti-Climacus. In quest’opera Kierkegaard riserva a sé il ruolo di curatore e, per certi versi, di editore. Questo libro fa parte delle opere del compimento (insieme all’Esercizio del cristianesimo e alla Neutralità armata), che avrebbero dovuto segnare un definitivo distacco rispetto a un cristianesimo istituzionale e borghese, al fine d’introdurre il cristianesimo nella cristianità.
14) Lo pseudonimo di cui si serve Kierkegaard in quest’opera è Anti-Climacus, che si presenta come un “cristiano straordinario”, e cioè di rango assoluto. Il 1848 – al di là delle questioni riguardanti la congiuntura storica – fu un anno cruciale per la parabola di pensiero kierkegaardiana. Kierkegaard disse infatti di essersi sentito, in quell’anno, potenziato ma anche schiantato in senso religioso, poiché Dio l’aveva per così dire “fiaccato a forza di correre”. Il nodo problematico che si rivela in particolare in quell’anno riguarda l’opposizione tra rassegnazione e fede. Kierkegaard stesso si riconosce nella figura del rassegnato, sottolineando di poter diventare un uomo nuovo, ma accontentandosi in questo libro di essere solo un profeta di una rinnovata umanità e di lasciare quindi anticipare l’avvento di tale figura allo pseudonimo designato. Ma perché la scelta di tale pseudonimo e a cosa esso si contrappone? Briciole di filosofia (1844) e Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia (1846) avevano avuto come maschera Johannes Climacus. Johannes Klimax o San Giovanni Climaco era il nome dato a un teologo bizantino del VI secolo, nella cui opera principale (La scala di Giacobbe o La scala del paradiso) venivano descritti i gradi della perfezione morale. Climax e Anti-climax sono le due facce contrapposte della figura retorica detta per l’appunto gradazione, la quale consiste nel disporre parole o gruppi di parole o locuzioni in un ordine d’intensità concettuale crescente o decrescente. Anti-Climacus e Climacus sono dunque contrapposti tra loro e gli stessi pseudonimi di Kierkegaard sono stati posti da lui in rapporto con i termini climax e anti-climax. In una lettera a Rasmus Nielsen del 4 agosto 1849 (cfr. p. 197 sg.), Kierkegaard che la caratteristica dell’intera modernità è stato quello di “confondere un climax con un anti-climax, ritenere cioè un climax quello che è un anti-climax [...] Per tutto ciò che va oltre – e tutto il moderno va certo oltre – è richiesto che si salga con un anti-climax [...per cui] si arriva...salendo a ciò che è più basso” (ad es.: dalla fede al sistema, dal singolo alla comunità, dalla soggettività all’oggettività).
15) Nell’economia del discorso kierkegaardiano, ciò che conta è dunque il rapporto tra questi due pseudonimi contrastanti o forse solo complementari (Climacus e Anti-Climacus). Quest’ultimo è un “diavolo di spiritello” ed è l’antagonista di Johannes Climacus, il quale è un socratico, impegnato a combattere la speculazione hegeliana. Il suo impegno è però limitato e opera comunque al riparo dello humour. Anche la sua difesa del cristianesimo è oscillante, ma soprattutto non è un cristiano. Anti-Climacus, invece, che condivide con lui quasi tutto, è il cristiano per eminenza e di gran lunga il cristiano più straordinario. Johannes Climacus si pone così in basso da dirsi perfino non cristiano, mentre l’Anti-Climacus è un cristiano davvero straordinario che assume una posizione tetica, formulando un preciso atto di accusa nei confronti del cristianesimo mondanizzato. Per un verso, proprio perché scambia se stesso con l’idealità, Anti-Climacus manifesta un lato quasi demoniaco, ma Kierkegaard s’inchina comunque davanti a lui, ponendosi più in alto di Climacus ma più in basso di Anti-Climacus. Tra questi due pseudonimi esistono affinità, ma si tratta di estremi opposti che si avvicinano fino a certo punto per poi respingersi. Entrambi, peraltro, sono in cerca della stessa cosa: e cioè di essere semplicemente un vero cristiano.
16) Se nell’assumere la maschera di Climacus, nemmeno Kierkegaard è dunque cristiano, nel senso che non raggiunge il grado di religiosità paradossale del cristianesimo puro, ora invece nel passare alla maschera di Anti-Climacus la situazione è diversa. Kierkegaard, infatti, non è più – per interposta persona – un umorista che critica le labilità della vita umana, cogliendo – con vago atteggiamento scettico – la vanità e la contingenza delle cose finite, ma è qualcuno che si affaccia alla sfera della vita religiosa, oltrepassando cioè lo stadio della critica ironica e umoristica di tutto ciò che regna sul piano della cosiddetta immediatezza. Kierkegaard aveva in mente d’intitolare diversamente La malattia per la morte, pensando di conferire a tale opera il titolo “La dottrina del peccato”. Tale titolo, per nulla fuori luogo, avrebbe in certo modo chiarito ancora meglio il passaggio dal Concetto dell’angoscia – in cui si tratta del peccato originale – a un libro riguardante il peccato attuale (quello che l’uomo compie per sua libera volontà), rispettando così la partizione dogmatica tra peccato originale e peccato attuale. Ma soprattutto, il rapporto che intercorre tra questi due lavori è quello che c’è tra angoscia e disperazione. Nel Concetto dell’angoscia, si attuava una riflessione psicologica sul problema dogmatico del peccato originale, laddove la psicologia poteva però condurre la comprensione fino a un certo punto, oltre il quale si schiudeva una zona di mistero. Il mistero è rappresentato dal peccato che, colmando l’abisso tra l’uomo e Dio, apre la porta d’accesso al cristianesimo. Attraverso il peccato nasce, inoltre, lo spirito, che lega in qualche modo cielo e terra, anima e corpo. Ma di qui sorge anche il tema dell’angoscia, che Kierkegaard paragona a una vertigine della libertà che si manifesta quando lo spirito sta per porre una sintesi e la libertà – guardando giù nell’infinito delle proprie possibilità – afferra il finito per trovarvi un punto di appoggio. L’angoscia testimonia dunque l’impossibilità di adeguare l’infinito al finito, mostrando che ogni sintesi raggiunta contiene la possibilità implicita di una sintesi più armonica. Poiché lo spirito si presenta nella relazione tra corpo e anima, l’angoscia nasce appunto in tale relazione, giacché a fronte di una relazione data c’è sempre la possibilità di attuare una relazione più elevata. Ciò allude all’esistenza di una gradualità di relazioni e a una costante dialettica tra le relazioni date.
17) Per Kierkegaard, chi diviene colpevole nell’angoscia lo diviene in modo ambiguo. Come atto di natura esistenziale, l’angoscia rivela il presupposto che spezza ogni forma di tautologia e d’intellettualismo astratto. L’angoscia si dà nella situazione, nel momento in cui l’eterno è presente come possibilità infinita. La dialettica, nel senso kierkegaardiano, è relazione tra tempo ed eternità nel momento, ovvero tra una situazione temporale determinata e la possibilità infinita di un’armonia dello spirito che l’eterno esprime. L’angoscia è dunque relazione e non identità. L’errore commesso da Hegel non tanto nella Scienza della logica, ma nelle Linee fondamentali di filosofia del diritto, è stato quello d’interpretare la presenza dell’infinito nella finitezza del processo storico come un’identificazione tra infinito e finito, tra l’assoluto e il dato storico. Per Hegel, ogni filosofia è filosofia del proprio tempo e il compito del pensiero è di collocare la filosofia nel pieno della realtà. Viceversa in Kierkegaard si afferma la relazione tra il piano esistenziale e l’infinita perfettibilità in cui si risolve l’eterno. Il carattere della dialettica kierkegaardiana non insegue quindi il miraggio di un’identità astratta, ma si basa sempre su un presupposto e di una direzione. Il presupposto è costituito dall’attuarsi di una relazione, mentre l’aspetto direzionale – che conferisce senso alla dialettica stessa – consiste nella possibile attuazione di una relazione ancor più armonica. Il presupposto, per Kierkegaard, è sempre nel tempo, non essendo cioè qualcosa di assoluto e di atemporale; inoltre, esso non è qualcosa di semplice, atomico o elementare, ma rappresenta la possibilità di apertura al futuro. Il carattere temporale di ciò che è attuale fa sì che lo spirito si nutra di possibilità e libertà (e non di essere e necessità). Anche risalendo il passato non si giunge mai a individuare un principio ultimo, per cui il senso di un presupposto ineliminabile mostra che di fronte all’esistenza finisce per naufragare la pretesa idealistica di dedurre la situazione storica da un principio logico e sovratemporale. Se sul piano intellettualistico, l’impossibilità di cogliere un principio generatore appare come uno scandalo, Kierkegaard afferma in positivo lo scandalo di un’esistenza sottratta per così dire alla logica, e cioè richiama a un’esistenza non più trasparente a se stessa, poiché ciò comporterebbe l’eliminazione totale di ogni possibilità e il porsi deterministico dell’esistenza come necessità dell’essere, come tentativo di trovare in se stessa il proprio fondamento. Per Hegel, il presupposto doveva essere posto per poter poi essere tolto, ma se un presupposto è tale è perché non può essere posto, e se lo spirito deve togliere il presupposto, esso non sarà mai pienamente attuato, senza cioè un presupposto da togliere, presentandosi quindi come possibilità infinita. In senso kierkegaardiano, la possibilità ha senso solo in presenza di un presupposto e la situazione storica non ha come condizione un principio assoluto, ma si limita ad attenderlo. La storia esprime sempre una direzione temporale e la complessa relazionalità, che Kierkegaard ricerca nel momento, reca i tratti dell’orizzontalità e della verticalità. Secondo Kierkegaard, proprio perché l’assoluto va concepito nel segno della possibilità e non della necessità, il processo storico non può avere un carattere deterministico.

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Lezioni dell’ottava settimana
1) Nel Concetto dell’angoscia, Kierkegaard fa vedere come l’angoscia sia sempre legata, in maniera invisibile, alla trascendenza. Essa si lega, in altri termini, a ciò che è altro: nel paganesimo si tratta del destino, come atmosfera indeterminata; nell’ebraismo si tratta della legge, come ostacolo costante e pressoché generalizzato, infine, nel cristianesimo ciò che altro s’interiorizza, finendo per coincidere con il peccato.
2) Con La malattia per la morte si assiste a una ripresa di “quello scavo originale lasciato allo stato grezzo” rappresentato dal Concetto dell’angoscia. In quell’opera del 1844, Kierkegaard non aveva ancora ben delineato tutti i problemi posti sul tappeto, per cui le sue idee – esposte in maniera un po’ troppo dogmatica – erano rimaste alquanto sfuocate. La sua stessa volontà di prendere congedo dalle ristrettezze del sistema di pensiero idealistico era rimasta a metà del guado, nel senso che i temi centrali della sua trattazione restavano ancora in odore di idealismo. In un diario del 1850, Kierkegaard infatti dice: “Oh, lo stolto hegeliano che ero”. Di conseguenza, Anti-Climacus riceve il testimone da Vigilius, delineando con migliore definizione i rapporti sussistenti tra angoscia, libertà, peccato, colpa e fede. In particolare, però, al centro della problematica kierkegaardiana vi sono i rapporti che intercorrono tra angoscia e disperazione, essendo quest’ultima un altro nome della malattia per la morte. L’angoscia è preparazione al peccato (è il “presupposto disponente”), ma non si è ancora approfondita nella disperazione in cui l’uomo sceglie se stesso. L’angoscia si caratterizza per la sua generalità, mentre la disperazione è l’individuale. Nell’angoscia l’uomo sceglie il nulla, come altro da lui. La disperazione è un atto maschile, mentre l’angoscia assomiglia a uno “svenimento femminile”. L’idea del peccato sembra effeminare lo spirito, generando l’angoscia, mentre quella della morte ne tratteggia la virilità, in quanto la disperazione è un atto decisionale in cui l’uomo si pone davanti a Dio. Disperare fa tutt’uno con l’esistenza, trattandosi della volontà di disperare, e cioè di ribellarsi a Dio e al riconoscimento del suo amore infinito. La volontà di ribellarsi all’armonia che conseguirebbe dall’accettare il rapporto con la trascendenza divina, connota l’esistenza come malattia per la morte. Da ciò si evince che, per diventare coscienti del significato eterno della propria esistenza, per Kierkegaard è necessario disperare. L’unica via per ritrovare ciò che di eterno vi è in noi è quella della disperazione. Ma per disperare occorre forza, concentrazione e serietà. Il significato della vita può essere conosciuto a fondo solo disperando, ma non per qualcosa di particolare. Chi si butta nel mare della disperazione trova infatti l’assoluto. Come già per l’angoscia, anche in questo caso occorre in certo modo scegliere di disperare, ovvero scegliere se stessi ma non nella propria scontata immediatezza, bensì ricercando il significato eterno della propria persona.
3) Mentre il dubbio ha a che fare con il pensiero, per cui comporta una destabilizzazione solo parziale, la disperazione afferra la personalità umana nella sua interezza. Kierkegaard è critico dell’intellettualismo che individua nel pensiero l’intero valore della personalità, laddove si tratta viceversa di riconoscere il carattere universale della disperazione, in cui può essere immerso anche l’uomo più insignificante e privo di doti particolari. La Malattia per la morte fu scritta negli ultimi anni della vita di Kierkegaard e dunque nella fase più matura e meglio definita del suo pensiero. Il sottotitolo dell’opera mette a fuoco e circoscrive il significato dell’opera: si tratta di un’”analisi di psicologia cristiana per edificazione e risveglio”. Il saggio figura come opera di Anti-Climacus (maschera indossata da Kierkegaard in soli due casi), ultimo degli pseudonimi utilizzati. In questa maschera traspare, in maniera definitiva, la vera fisionomia religiosa di Kierkegaard, il vero volto di un cristiano che – pur professandosi senza autorità – vuole restituire alle categorie cristiane il loro valore più autentico. Le opere con intento edificante presentano la problematica del cristianesimo col proposito di contrapporlo al fenomeno involutivo e degenerato di una cristianità ufficiale, in cui avevano attecchito atteggiamenti conformistici espressione di grettezza, spersonalizzazione e attitudine filistea. Kierkegaard è un critico rigoroso di una cristianità benpensante, piccolo borghese e incline ai compromessi, in cui era prevalso un registro di cristianità privo essenzialmente di fede e di coscienza del peccato. In parallelo alla sconfessione diretta o indiretta delle categorie cristiane, la riflessione speculativa aveva tra l’altro avanzato – sulla scorta di Hegel – un recupero in chiave laica del pensiero cristiano, privo di richiami all’esperienza straordinaria di Cristo.
4) Come specificato dal sottotitolo, l’opera si propone di approfondire la psicologia del cristiano, in vista di un’edificazione. Nella Malattia per la morte compare una breve trattazione di alcune tra le principali categorie cristiane (peccato, disperazione e fede). Il motivo del peccato e della colpa sono temi centrali anche di quest’opera, nella quale si dice che non vi è altro aspetto che distanzi maggiormente l’uomo da Dio di quello per cui ci si riconosce come peccatori di fronte a Dio stesso. Come peccatore, l’uomo è separato da Dio dall’abisso qualitativamente più profondo. Sulla base di ciò, questo testo si può dire che contenga in nuce anche il senso più radicale dell’antropologia e della teologia dialettica. Il filosofo Kierkegaard e il cristiano Anti-Climacus si ritrovano uniti nella dialettica esistenziale della disperazione, che è autenticamente filosofica in quanto autenticamente cristiana. La categoria dell’edificante (cfr. p. 5) – propriamente disprezzata da Hegel – qualifica la prerogativa dell’esperienza cristiana e traccia per così dire il confine tra l’inautenticità del discorso scientifico (basato sull’indifferenza e la curiosità inumana) e l’autenticità propria di un discorso filosofico-religioso all’altezza dei requisiti imposti da Kierkegaard. La Malattia per la morte è uno scritto di cristianesimo edificante (e in larga parte militante), ma è anche un frammento di antropologia filosofica. Se Hegel aveva in qualche modo tenuto insieme, nel suo sistema, ciò che è speculativo e ciò che è scientifico, Kierkegaard contrasta invece tale spirito di sistema, contrapponendo alla speculazione, alla scienza e al cristianesimo di Hegel la propria vocazione cristiana. L’esposizione edificante dev’essere rigorosa, ma qualitativamente diversa da quella del discorso scientifico, poiché ogni “contenuto cristiano deve [...] somigliare al discorso di un medico al capezzale del malato, [in quanto] anche se lo comprende solo l’esperto di medicina, non si deve però mai dimenticare che lo si tiene al capezzale di un malato” (p. 5). In tal senso Kierkegaard sembra sottolineare anche il versante etico del cristianesimo, su cui non deve mai venire meno il legame tra vita e realtà cristiana. La conoscenza autenticamente cristiana non si basa infatti solo sul rigore della forma in cui è espressa, ma deve rivolgersi al fenomeno della “preoccupazione”, ovvero a ciò che edifica nel segno della “serietà”, istituendo un rapporto con la vita e la realtà della persona (cfr. 6). Nel concludere la prefazione, Kierkegaard sottolinea il carattere dialettico della disperazione (che è malattia e non mezzo di guarigione), individuando così nella morte “l’espressione della massima miseria spirituale”, anche se la guarigione “è proprio morire, morire a” (p. 6).
5) L’opera è divisa in due parti: la malattia per la morte è la disperazione e la disperazione è il peccato (cfr. 7 sg.). La prima ha un carattere prevalentemente filosofico, mentre la seconda presenta un tenore più teologico. Le due parti sono però strettamente unite dalla serietà dell’esperienza esistenziale della disperazione. L’antropologia filosofica di Kierkegaard ha il suo nucleo metafisico e religioso nell’idea di un io che è sintesi di finito e infinito, temporalità ed eternità, possibilità e necessità. Ma una sintesi è anche un rapporto, e un rapporto deve porlo un tertium che è appunto l’io in quanto consapevole di se stesso, del suo porsi nel mondo, della sua vocazione a voler essere se stesso e a fondarsi, con trasparenza, nella potenza che l’ha posto. In una tradizione inequivocabilmente cristiana, le categorie di responsabilità, colpa, disperazione e sofferenza sono strettamente solidali con quelle di singolo, di libertà e personalità.
6) La dignità dell’uomo consiste, per Kierkegaard, nell’inquietudine spirituale che rende l’uomo consapevole di una vita interiore in cui si svela la vocazione religiosa. In quest’opera Kierkegaard indica che occorre morire un po’ all’immediatezza della vita quotidiana al fine di scoprire, in sé, il richiamo dell’assoluto. Di fronte a Dio la vita naturale dell’uomo subisce una scossa e un turbamento profondo, anche perché al cospetto di Dio non si può comparire in massa – al riparo degli altri – ma invece come singoli che manifestano la propria responsabilità. Di fronte a Dio ci si pone dopo aver percorso il sentiero difficile della disperazione. Attraverso la disperazione, l’uomo si mette infatti in rapporto con se stesso, fino a fondarsi nella potenza che l’ha posto e che ha posto lo stesso rapportarsi del rapporto a sé medesimo. Nel chiedersi se la disperazione sia un vantaggio o una mancanza (cfr. 16 sg.), Kierkegaard riconosce che dal punto di vista astratto si tratta addirittura di un “vantaggio infinito”, giacché la possibilità di tale malattia costituisce la peculiarità dell’uomo rispetto all’animale, trattandosi di una caratteristica che indica l’essere infinitamente eretto dell’uomo e cioè il fatto che l’uomo è essenzialmente spirito.
7) Al centra della malattia per la morte vi è dunque la categoria della disperazione, nella sua articolata esperienza fenomenologica e dialettica. Per quanto Kierkegaard, nella versione definitiva dell’opera, abbia negato ciò, la disperazione appare però al contempo come malattia e come salvezza, nel senso che è solo attraverso tale viaggio che l’io giunge a recuperare la propria identità perduta. L’uomo che rifiuta, infatti, ogni forma di angoscia e di disperazione è quello che punta a continuare a vivere in una falsa quiete di ordine dogmatico, al riparo da ogni colpa e da ogni responsabilità. Ma il fatto stesso di non sentirsi responsabile di nulla e di dichiararsi refrattario al sentimento di colpa o impermeabile a qualsiasi responsabilità, costituisce invece la maggiore forma d’irresponsabilità. Nella riscoperta della persona umana nel suo valore universale e inalienabile Kierkegaard vede appunto il richiamo della voce della coscienza o, per così dire, l’affermarsi del senso di responsabilità.
8) Il titolo dell’opera è una citazione dal Vangelo di Giovanni: “Questa malattia non è per la morte” (p. 9). Si tratta dell’episodio della morte di Lazzaro e di ciò che ne conseguì. Le varie versioni italiane della Bibbia più accreditate, ma anche quella danese del 1918 utilizzata ai tempi di Kierkegaard, riportano il passo in maniera pressoché univoca: “All’udire questo Gesù disse: questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio sia glorificato”. Di conseguenza, se il tutolo è una citazione, la formulazione “malattia per la morte” si fa certamente preferire. Mentre in greco e latino si usano preposizioni diverse per introdurre i termini in questione, alimentando in qualche modo l’ambiguità tra il senso direzionale e quello finale, in italiano e in danese l’ambiguità tende a scomparire per via dell’utilizzo di una sola preposizione. Inoltre, il significato di entrambe le espressioni (“per la morte” e “per la gloria di Dio”) trova una sua stabile accezione finale grazie alla subordinata conclusiva: “affinché per mezzo di essa...”. Come dice Kierkegaard nell’incipit, a malattia era dunque mortale, ma non era per la morte, Causò la morte di Lazzaro, ma non ebbe come fine la morte, bensì la gloria di Dio. Il miracolo non consistette nel fatto di allungare di qualche anno la vita di Lazzaro, in quanto è l’esistenza di Cristo a far sì che la malattia di Lazzaro e, più in generale, ogni malattia non sia per la morte. Compresa dal punto di vista cristiano, “perfino la morte non è la ‘malattia per la morte’” (p. 10), e ancor meno lo sono tutto ciò che fa parte della “sofferenza terrena e temporale”. Il cristiano, infatti, ha imparato a conoscere un’altra morte di fronte alla quale la prima non è che uno “scherzo”. Una morte che non è solo distruzione della vita, ma lo è soprattutto dello spirito. Il cristiano ha fatto conoscenza, cioè, di una malattia che non è mortale come tutte le altre, ma che è al servizio di un altro tipo di morte, di cui fa per così dire il gioco. Questa malattia per la morte non è altro che la disperazione.
9) Solo a un primo sguardo, quindi mortale e “per la morte” possono risultare sinonimi (cfr. p. 19 sg.). La malattia per la morte è sempre nella morte, avendo la morte come suo luogo naturale. La morte biologica è invece passaggio alla vita, è per la vita, soprattutto se – come sostiene il cristianesimo – c’è una vita eterna. Kierkegaard sviluppa poi le proprie argomentazioni dicendo che la malattia per la morte, ovvero la disperazione, non fa morire, in quanto in questo caso la “morte non è il termine ultimo” (p. 19). La disperazione non termina infatti con la morte fisica, giacché la disperazione comporta il tormento, “la non speranza di non poter nemmeno morire” (p. 20). Per questo, essa assomiglia più a una continua agonia, che non porta però alla morte. Nella disperazione è assente ogni orizzonte di speranza, e anzi in essa non c’è neanche l’ultima speranza, che è quella di morire. La disperazione è, per Kierkegaard, una malattia dello spirito o, meglio, di ciò che egli chiama propriamente “sé”. Il sé è l’elemento eterno dell’uomo, per cui la disperazione provoca un tormento senza fine nella misura in cui l’io non può smettere di rapportarsi a sé, di essere presente a sé. Al riguardo, non c’è dunque né la speranza né la possibilità di potersi staccare da sé. Come il “pugnale non può uccidere i pensieri, così la disperazione non può consumare l’eterno, il sé, che sta a fondamento della disperazione” (p. 20). Nella disperazione, servendo in qualche modo la morte e trovandosi ad essere per la morte, non si può nemmeno godere del conforto che la morte può dare. Il morire della disperazione “si converte continuamente in un vivere”, per cui la condanna di chi dispera è “vivere la morte”, è nutrirsi di tale esperienza vissuta. Il dramma della disperazione è di essere quindi “un’autoconsunzione impotente che non riesce a fare ciò che essa stessa vuole” (p. 20). Non potersi disfare di se stesso e non potersi annullare, fa sì che il disperato muoia alla possibilità di morire, essendo già nella morte e dunque condannato a un vivere che consiste in un perdurare nella morte.
10) All’inizio dell’opera Kierkegaard introduce la propria definizione di spirito o di sé, in sostituzione della nozione di soggetto (o di soggettività) utilizzata nella Postilla conclusiva non scientifica. Il sé rappresenta la parte più importante dell’uomo, ma ne costituisce anche l’aspetto più problematico, giacché è ciò induce l’uomo alla disperazione. L’uomo è spirito e lo spirito è sé. L’uomo è sempre una sintesi di tre coppie di opposti: infinito e finito, temporale ed eterno, libertà e necessità. Il sé non è dunque qualcosa di semplice e nemmeno qualcosa di dato, ma è “un rapporto che si rapporta a se stesso, oppure è questo nel rapporto: che il rapporto si rapporta a se stesso” (p. 15). Il sé non è quindi un rapporto, la sua semplice presenza, ma si definisce in un ulteriore momento riflessivo costituito da un rapportarsi a se stesso. Di qui la natura processuale del sé, da intendersi come un progredire nella coscienza di sé, che si discosta però dalla dialettica hegeliana dell’autocoscienza, giacché per Kierkegaard al posto della mediazione subentra la svolta, il salto, la decisione e la svolta. Con il sé s’intende dunque che l’uomo può comprendersi come un rapporto che si rapporta a sé. Oltre a non essere qualcosa che esiste nella semplice modalità del rapporto, il sé non è nemmeno quel terzo che esiste come “unità negativa” nel rapporto tra due (come ad es. nel caso di corpo e anima), ma è un “terzo positivo” consistente in un “rapporto che si rapporta a se stesso” e che, a questo livello di riflessione, può essersi posto da sé o, viceversa, esser stato posto da un altro (cfr. p. 15). L’alternativa che si pone è dunque quella tra l’autosufficienza del sé o la dipendenza da ciò che lo ha posto. Come “terzo positivo”, Kierkegaard sottolinea come il sé dell’uomo sia un “rapporto derivato [...] che si rapporta a se stesso, e nel rapportarsi a se stesso si rapporta a un Altro” (p. 15). L’io sembra essere strutturato, quindi, su tre livelli: 1) quello del rapporto tra due opposti (finito e infinito, tempo ed eternità, possibilità e necessità); 2) quello del rapportarsi a sé del rapporto stesso; 3) quello del rapportarsi a un altro nel rapportarsi a sé del rapporto. L’io kierkegaardiano è dunque una sintesi che si costituisce in un doppio rapporto all’interno di un rapporto ulteriore. L’io o, per meglio dire, il sé è un terzo positivo che non si aggiunge a una triplice coppia di elementi tra loro opposti, ma è ciò che si dà nell’atto stesso in cui il rapporto si rapporta con se stesso. L’io non può attuarsi quindi in se stesso, ma può raggiungere tale realizzazione solo mettendosi, oltre che in rapporto con sé, in rapporto con l’altro che ha posto tale rapporto, ossia riflettendosi nel rapporto con la potenza che l’ha posto. Sotto questo profilo, l’io di Kierkegaard è sempre il frutto di una pluralità di rapporti, e dunque come tale ben distante dalla fisionomia dell’Io fichteano, ritenuto in possesso di un’attività autocreatrice, libera, assoluta e infinita.
11) La Malattia per la morte contiene dunque un’analisi dei rapporti squilibrati o distorti che si verificano nei vari livelli del sé, poiché la disperazione è il “rapporto squilibrato in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso” (p. 17). La sintesi, peraltro, non è il rapporto squilibrato, ma ne è solo la possibilità. Se sul piano dell’angoscia la vertigine rappresenta uno squilibrio tra i momenti dello psichico e del corporeo, nel caso della disperazione lo squilibrio non riguarda questi due estremi, ma l’uomo nella sua interezza, anche perché l’uomo – nella sua composizione strutturale – può essere in equilibrio solo nel rapporto con l’altro che ha posto il rapporto stesso. La disperazione s’insinua, dunque, in un rapporto di sintesi che si rapporta a se stesso. A prescindere dalla differenza di ordine qualitativo, la disperazione ha “molto in comune con la vertigine, perché questa è, sotto la determinazione dell’anima, ciò che la disperazione è sotto la determinazione dello spirito” (p. 18).
12) L’uomo è dunque sintesi di infinito e finito, di necessità e libertà (o possibilità), di temporale ed eterno, anche se i termini di tale sintesi non hanno tutti uguale valore. Difatti, sorge sempre un conflitto o una disarmonia quando nella sintesi prevale l’elemento finito, necessario e temporale, poiché in tale evenienza è lo stesso elemento umano a scolorirsi e a disperdersi. Fin dall’inizio di tale opera, Kierkegaard sottolinea la tesi spiritualista che la governa, col rischio di dar luogo anche un orientamento troppo antiumanistico. Ma a parte ciò, Kierkegaard è stato certamente il primo a descrivere l’esistenza di una coscienza dispersa nella banalità del mondo quotidiano, incapace cioè di assumere il rischio di una decisione personale, di un’opinione che non si allinei all’estrema superficialità dell’opinione pubblica. Le riflessioni di Kierkegaard sulle inquietudini della coscienza e sul ritrarsi dell’individuo in una solitudine che rifugge le forme di un’esistenza inautentica, sono state ad esempio riprese – pur nel venir meno del loro vertice di religiosità – dalle analisi heideggeriane analisi heideggeriane sul mondo della quotidianità e su un’esistenza condotta nel segno dell’impersonalità, nonché dalle considerazioni sartriane in ordine alla malafede.
13) Il sé dunque non è un rapporto, ma è il rapportarsi a sé di tale rapporto. Come terzo positivo, il sé è a sua volta un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto tale rapporto nella sua interezza. Per questo il terzo, che è lo spirito o il sé, è sempre in rapporto con ciò che l’ha posto come rapporto. Il fragile equilibrio, la cui rottura fa precipitare il rapporto in una stasi spirituale pregna di disperazione, si mantiene quindi finché il rapporto che si rapporta a se stesso, si rapporta con ciò che l’ha posto come rapporto. La disperazione interviene allorché vengono recisi i legami con l’altro che ha posto l’io come rapporto. Ma l’io che mantiene invece solidi legami con l’altro che l’ha posto come rapporto, si fonda in maniera trasparente nella potenza che lo ha posto, assumendo la propria esistenza in un continuo rapporto di apertura all’altro, non negando così in alcun modo il senso di trascendenza che gli appartiene.
14) Nel vivere nell’immediatezza delle cose mondane, l’uomo matura il sapere della propria finitezza ma, al contempo, scopre il tentativo più autentico di superarsi in direzione di quell’alterità originaria che lo chiama. Chiuso nel suo rapporto col finito, l’uomo vive a ridosso di tale immediatezza, mentre chi si apre al pensiero di ogni possibilità e della morte stessa, si dispone a indagare il rapporto con la potenza che l’ha posto in tale condizione di apertura. In tal senso, nulla è propriamente causa della disperazione, se non l’uomo stesso che la vive, avvertendo come vertiginosa la distanza che separa la possibilità dall’essere disperato. Per questo, l’uomo è la causa della propria disperazione.
15) Analizzando la struttura stratificata di rapporti in cui consiste l’io, Kierkegaard mostra (p. 16) come da essa possano sorgere due forme di disperazione in senso proprio – il che non potrebbe verificarsi se l’uomo si fosse posto da sé. Si tratta del “non voler essere disperatamente se stesso” e del “voler essere disperatamente se stesso” (cfr. p. 22). A partire da p. 33, Kierkegaard analizza le varie figure della disperazione, dovute al fatto di privilegiare uno degli opposti tra cui operare una sintesi. questa sezione rappresenta la parte per così dire statica di quella forma di squilibrio in cui consiste la disperazione, mentre la sezione successiva (pp. 45 sgg.) si occupa dell’aspetto dinamico di tale rapporto di squilibrio. In questa sezione si prende in esame, infatti, il rapportarsi a sé del rapporto e il grado di coscienza che si ha in relazione a questo rapportarsi. Kierkegaard afferma, al riguardo, che maggiore è la coscienza di sé e di che cosa sia la disperazione e più profonda risulterà la disperazione stessa. Proprio il continuo crescere della disperazione nell’atto dinamico di rapportarsi a sé si tradurrà in una galleria di figure della disperazione, ovvero in una fenomenologia dello spirito disperato.
16) Kierkegaard sottolinea che anche quando uno stato di disperazione diviene manifesto, l’uomo “può continuare a vivere bene, ad essere un uomo nelle apparenze”, e come tale occupato nella dimensione mondana della temporalità (cfr. 36). L’uomo può continuare cioè nella propria vita, senza nemmeno notare che “gli manca un sé”. Del resto, Kierkegaard ha più volte sottolineato come l’io sia la cosa di cui nel mondo ci si occupa meno, giacché per l’uomo può essere anche rischioso mostrare di possederlo. Nel mondo può passare addirittura sotto silenzio il pericolo di perdere se stesso, la qual cosa invece non capita per qualsiasi altra forma di perdita.
17) Disperazione del finito è mancare d’infinito (pp. 37 sgg.). L’uomo chiuso nella considerazione mondana delle cose manca d’infinità. Mondanità significa, infatti, attribuire alle cose prive d’importanza un valore infinito. In tal senso la considerazione mondana “si aggrappa sempre alla differenza tra uomo e uomo e non ha comprensione per la sola cosa necessaria”: non ha cioè comprensione di quella “grettezza e ottusità che significa aver perduto se stesso” (p. 37). Rendersi completamente finiti vuol dire non essere diventati un sé, ma “una cifra, un uomo in più, una ripetizione in più di questo perpetuo Einerlei [monotonia, uniformità]” (p. 37). La grettezza disperata è privarsi della propria originarietà, della propria “primitività”, ed equivale ad “essersi evirati in senso spirituale” (p. 37). L’io ha un indole primitiva a essere un io, è determinato cioè a divenire se stesso. Ma perché ciò avvenga, l’io – che in origine è una pietra grezza – dev’essere per così dire “sfaccettato” e non semplicemente “levigato2, come capita invece quando l’uomo si smarrisce nel finito e omologa il proprio io negli altri. Contornato dalla folla e immerso in ogni affare mondano, l’uomo finisce per dimenticare se stesso e dimentica ciò che di divino e di eterno c’è in lui, non osando più credere in se stesso e trovando perfino rischioso esserlo, giacché è più facile ripararsi dietro agli altri nell’anonimato della folla. La mondanità, per Kierkegaard, è costituita da uomini che “hanno fatto un patto con il mondo” (p. 39), che hanno cioè venduto al mondo la loro anima, rinunciando ad essere se stessi e a conquistare la spiritualità di un io con cui poter porsi davanti a Dio.
18) La disperazione è dunque una determinazione dello spirito che si rapporta all’elemento eterno che è nell’uomo (cfr. 19 sg.). Dell’eterno l’uomo non si può sbarazzare facilmente, essendo invece obbligato a convivere con tale dimensione. Non è possibile, infatti, respingere l’eterno per sempre, giacché in qualunque modo si realizzi tale tentativo l’eterno è destinato invariabilmente a ritornare. Ciò significa che, in ogni momento di disperazione. è l’uomo a tirarsela addosso, in quanto la disperazione non deriva da un rapporto squilibrato o falso, ma dal rapporto che si rapporta a se stesso, e di tale rapporto l’uomo non può liberarsi, così come non può farlo del proprio io. Trattandosi di una determinazione dello spirito, a differenza di ciò che si può dire per una malattia in senso fisico, ogni momento reale della disperazione va ricondotto alla possibilità. In altri termini, è l’uomo disperato a tirarsi addosso in ogni istante la disperazione, e precisamente restando ancorato al momento presente. La disperazione insiste [Ricoeur ha affermato che l’angoscia tende verso, mentre la disperazione risiede. Ovvero, l’angoscia ex-siste, mentre la disperazione in-siste] nel movimento di rimozione dell’eterno, vale a dire di quell’aspetto che segna la natura trascendentale dell’uomo, ponendolo essenzialmente come libertà. L’uomo è dunque possibilità per l’eterno, ma non potendo distogliere l’eterno e allontanarlo da sé, tale movimento di rimozione non ha fine, per cui l’insistere in esso diviene disperante.
19) L’uomo esiste in virtù del proprio modo di essere, che consiste nell’apertura e nell’essere costantemente “fuori” (ex-sisto). Per lo più, l’uomo si rapporta però al proprio essere nei modi della fuga, nel senso che fugge la possibilità che è, realizzando una fuga resa possibile dal fatto che l’uomo esiste. Insistendo nella fuga, l’esistenza finisce per arenarsi nella realtà fattuale, sostando perciò in maniera rassicurante presso le cose. Attraverso la fuga, l’uomo distoglie lo sguardo da ogni mistero, disimparando anche a confrontarsi con la morte, che non rappresenta un evento fortuito, ma la possibilità più autentica di ciascun uomo, quella che ne prefigura infatti la possibilità estrema. Per chi vive al riparo dal possibile, la morte non rappresenta solo il collasso di ogni possibilità terrena, ma soprattutto il punto di rottura della sicurezza ricercata nella quotidianità. Occultando di continuo la morte come possibilità temuta, l’uomo mostra di non essere più in grado di sostenere la morte, cercando protezione in una dimensione mondana che inganna la possibilità.

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Lezioni della nona settimana
1) Chi sa confrontarsi con la morte si espone alla più pericolosa delle malattie: la malattia per la morte. Tutto ciò che è letale presuppone una fine, e cioè una morte che la sancisca. Ma se per il cristiano non c’è una malattia terrena che sia davvero mortale, in quanto per il credente la morte determina il passaggio a miglior vita, nella sua vita fa però la sua comparsa anche una malattia disperante che porta a una fine senza morte o, se si preferisce, a una morte senza fine. La disperazione infatti, come tramonto di ogni speranza, è la malattia dell’io (o dello spirito) che consiste nel morire in eterno, nel “morire eppure non morire”, nel “morire la morte” (p. 20). In questo continuo morire che non trova fine, la disperazione insidia l’eterno che è in ogni uomo, intaccando ciò che sta a fondamento della disperazione stessa. Per chi dispera la morte non è quindi la fine della malattia, ma è una fine che si protrae di continuo.
2) Chi dispera, dispera solo in apparenza per qualcosa. In realtà, ci si dispera sempre perché non si sopporta di essere ciò che si è. A fronte di un ventaglio di possibilità che avrebbero potuto orientare il nostro divenire, è insopportabile riconoscere di essere quell’io che non è appunto divenuto tale, ovvero che ha fallito nel cogliere una determinata possibilità. Per questo, s’insiste nel tentativo disperato di liberarsi di sé, separandoci dalla potenza che ha posto il rapporto in cui si costituisce il nostro io. La presenza però nell’uomo di un senso di eternità è ciò che impedisce alla disperazione di distruggere l’io, determinando così il carattere contraddittorio che contrassegna la disperazione. Nel chiudersi in sé, ovvero nel privarsi di quella libertà che si nutre di possibilità, l’uomo ha già di fatto obliato se stesso, abdicando al compito di essere o divenire se stesso.
3) A p. 15, introducendo la malattia per la morte come una malattia dello spirito, Kierkegaard dice che la disperazione può assumere una triplice veste. Oltre alle due forme proprie di disperazione, su cui si regge strutturalmente tale opera (e cioè: disperatamente non voler essere se stesso e disperatamente voler essere se stesso), c’è però anche una forma impropria di disperazione che consiste nella non consapevolezza di avere un io, e quindi nel fare di tutto per prendere coscienza della propria disperazione. Nella morfologia della disperazione che Kierkegaard descrive si parte dal grado più basso di tale malattia, dal suo grado zero. Nell’interiorizzazione dialettica che prelude all’unità spirituale dell’io, la disperazione sembra comunque rappresentare il culmine di tale organizzazione spirituale, potendosi di volta in volta tradurre in una rinuncia alla vita spirituale, in uno slancio di rivolta nei confronti della potenza che ha posto il rapporto che si rapporto a se stesso, ma anche in una crisi salutare a partire dalla quale si giunge a cogliere il profondo legame da istituire tra immanenza e trascendenza. Di qui la possibilità, per Kierkegaard, di definire l’autentica natura dell’uomo in vista della sua realizzazione. Il nostro io si caratterizza, infatti, come un essere spirituale che si costituisce all’interno di un rapporto posto da Dio.
4) Nella categoria della disperazione rientra ogni sforzo tendente a distruggere, in maniera sistematica, l’equilibrio vitale su cui deve reggersi l’io. Essendo l’uomo una sintesi tra diverse coppie di opposti, ne discende che vi saranno diversi modi d’intaccare la complessità dell’io, a seconda che siano rivolti a uno solo dei suoi elementi o alla sintesi nel suo insieme. In ragione di ciò, Kierkegaard dipana una fenomenologia delle varie forme di disperazione (cfr. pp. 25 sgg. e 33 sgg.).
5) La prima forma di disperazione – quella inautentica – è una sorta di disperazione virtuale che consiste nel non aprirsi all’infinito, rifiutando di partecipare alla tensione interiore in cui consiste la vera dignità dell’uomo. Tale forma di disperazione non è solitamente compresa nella sua effettiva gravità, dal momento che per l’opinione comune la disperazione dovrebbe accompagnarsi sempre a una maschera tragica. Nondimeno, tale disperazione riguarda una moltitudine sterminata di persone, in preda a una disperazione larvata, priva di sintomi tipici, e dunque tale da rendere tali persone inconsapevoli della natura di tale patologia. Si tratta di un affievolimento dello spirito, di un’anemia spirituale che non provoca alcun malessere, conferendo al contrario una sorta di sicurezza esteriore e di astratta innocenza. Tale disperazione, che rappresenta il tratto universale della malattia, riposa su un fondo di angoscia, come tutto ciò che perso coscienza delle proprie finalità essenziali. Nelle persone che tendono a garantirsi da ogni rischio esistenziale vi è infatti un’inquietudine che non fa cogliere loro il richiamo della vita, di cui pure avvertono il fremito. Come sempre Kierkegaard allude ai comportamenti filistei e piccolo borghesi che, nel rifiutare ingenuamente la disperazione, precipitano gli uomini nella totale inconsapevolezza circa la propria destinazione spirituale. Si tratta dunque di una disperazione preliminare che, nella sua universalità, cova nello spirito dell’uomo, proprio come il medico parla di malattie che covano nel corpo umano.
6) L’universalità di tale forma di malattia porta a dire che non ci sia un solo uomo che non sia almeno un po’ disperato, che non porti in sé un turbamento o un inquietudine del genere. Anche per questo non si può contare sulla considerazione comune della disperazione, poiché essa ritiene che il singolo sappia sempre da sé se è disperato o no – escludendo quindi di esserlo quando non si crede tale – mentre invece una forma insidiosa di disperazione è proprio quella di non avere coscienza di essere disperato. D’altronde, qualcosa del genere si registra anche sul piano della malattia fisica, in quanto il medico sa bene che non vale definirsi sano per esserlo davvero. Anche lo psicologo non può fare affidamento sulle affermazioni del singolo individuo, dal momento che non sono nemmeno sempre disperati coloro che dicono di esserlo. Come determinazione dello spirito, la disperazione può essere spesso scambiata con forme di disagio transitorie, che non conducono però fino alla disperazione. Ma soprattutto alla considerazione comune sfugge il peculiare carattere dialettico di tale malattia, che le deriva dall’essere una malattia dello spirito. Infatti, mentre nell’istante in cui il medico constata la presenza di una malattia, è lecito ritenere che l’uomo potesse in precedenza essere in saluto, per ciò che attiene alla disperazione è chiaro che quando essa si manifesta, l’uomo era già disperato (cfr. p. 27).
7) Questo primo genere di disperazione si caratterizza dunque per il fatto che l’uomo non ha coscienza di essere disperato, e ciò avviene quando l’uomo non è nemmeno cosciente del proprio sé. Peraltro, il fatto di non avere coscienza del rapporto sproporzionato in cui ci si trova, ovvero della profonda disarmonia della propria esistenza, determina che sia simulare di essere disperati, sia negare di esserlo, siano essenzialmente forme di disperazione. La particolare dialettica che attiene a tale malattia dello spirito fa sì che il non essere disperato possa anche significare di esserlo, per cui tra essere disperato ed essere malato non c’è alcuna identità di significato, dal momento che il non essere disperato può indicare il contrario e che la presenza di uno stato di disperazione può accompagnarsi al non aver mai sentito un determinato malessere. Se la salute fisica, infatti, diviene dialettica solo nello stato della malattia – allorché s’inizia cioè a parlare di crisi – nel campo dello spirito non c’è mai una salute immediata, cosicché in esso è critica sia la salute sia la malattia.
8) Proprio in ragione della sua natura dialettica la disperazione rappresenta quella malattia “di cui si deve dire che non averla mai avuta è la sorte più infelice” (p. 29), anche se si tratta della malattia più pericolosa e difficile da debellare, qualora non si voglia appunto guarire da essa. Ciò differenzia il caso della disperazione da tutti quelli in cui è una fortuna guarire da una malattia, dato che la “sfortuna è la malattia stessa” (p. 29). In questa generalità così diffusa, la disperazione è la condizione in cui gli uomini vivono senza essere consapevoli della loro determinazione spirituale, per cui in ragione di essa si finisce per negare disperatamente il proprio sé, rivestendo una larvata disperazione con un’apparente tranquillità esistenziale che però è la spia più evidente di una presenza disperante. Nell’angoscia della disperazione ogni comportamento dell’uomo sembra segnato da vacuità e assenza di significato, all’insegna cioè di una debolezza, di una viltà e di un’impotenza tipiche di chi non ha il coraggio di accollarsi il peso della propria esistenza, fino a lasciarsi così trascinare nel vortice dell’angoscia. Di fronte a tale incombente evenienza, il richiamo di Kierkegaard è a non sprecare la disperazione, imparando cioè ad attraversare tale stato per disporsi a prendere atto della propria spiritualità. Solo così, realizzando di poter conquistare l’infinità tramite la disperazione, l’io riuscirà a porsi davanti a Dio.
9) Le varie figure della disperazione si possono ottenere, per astrazione, in termini riflessivi, partendo dai singoli momenti in cui l’io si compone come sintesi (cfr. p. 33). L’io ad esempio è formato da infinito e finito, ma tale sintesi è un rapporto e per di più un rapporto che si rapporta a se stesso: è così che scaturisce infatti il carattere di libertà che anima l’io e che si traduce, dialetticamente, nelle determinazioni di possibilità e necessità. L’essere della libertà obbliga per così dire l’io alla non-necessità, lasciando aperta la possibilità di rapportarsi al proprio fondamento o di svincolarsi dalla potenza che posto la struttura del sé, incorrendo nella disperazione. L’io manifesta la libertà di trovare il fondamento in se stesso, senza riferimento a un altro, ma anche quella di riconoscersi come un rapporto posto da un altro. In ciò si palesa il paradosso della libertà, consistente nel suo essere legata alla necessità. La libertà è tale che, per sua essenza, solo rapportandosi all’infinità del fondamento divino si mantiene integra. In altri termini, solo nel rapporto con l’altro a cui deve la sua libertà l’uomo può ritrovare la sua autentica indipendenza. Nel rapporto che si rapporta a se stesso, rapportandosi al contempo a un altro, la libertà dell’uomo manifesta un vincolo ontologico con il fondamento che ha posto lo stesso rapportarsi dell’io. L’io, perciò, si realizza nella propria libertà solo scegliendo il legame che è in grado di renderlo libero. In tal senso, solo la scelta rischiosa dell’infinito consente all’uomo di sottrarsi alla costrizione delle cose finite. In altri termini, la decisione di scegliere l’assoluto è ciò rende assolutamente liberi. Da qui il tenore paradossale della filosofia kierkegaardiana, secondo cui la possibilità di scegliere – ovvero la libertà di scelta – si dà in ragione del non dover scegliere, poiché libertà è costretta per così dire a scegliere liberamente il fondamento che l’ha posta in essere. Il riconoscimento dell’infinito, dunque, sembra essere ciò che rende possibile all’uomo di scegliere, essendo cioè la condizione trascendentale della scelta stessa. Non c’è quindi libertà di scegliere il principio della libertà di scelta, giacché lo si deve per l’appunto scegliere, pena per l’uomo la perdita della propria libertà. Se ne evince che l’uomo deve in qualche modo rendere a Dio la propria libertà per non rischiare di perderla, dal momento che la possibilità di scegliere è data all’uomo dalla necessità di optare per ciò che gli ha dato la possibilità di farlo.
10) Nella dialettica del sé si nota dunque il passaggio, nel movimento descritto dalla libertà, da un mantenersi in una possibilità vuota e perciò stesso sterile, a un costituirsi nella piena necessità dell’assoluto, per cui la libertà – che non appena è, è reale – è reale nella misura in cui si rapporta alla necessità. Come sostiene in effetti Kierkegaard, la libertà è il movimento dialettico nelle determinazioni di possibilità e necessità. Il passaggio dalla possibilità alla realtà della scelta costituirsi l’attuarsi della libertà. Una cosa è la scelta, un’altra la libertà di scelta: l’uomo infatti può scegliere liberamente, ma non è libero di scegliere se mantenersi nella libertà. La libertà di scelta risulta infatti necessitata, se l’uomo vuole essere autenticamente libero. Per questo, la dipendenza necessaria dal fondamento divino è funzionale a mantenere un’indipendenza di scelta del tutto libera. Kierkegaard descrive quindi un fondamento trascendentale della libertà basato sul riferirsi alla trascendenza da parte dell’io. Chi è disperato, lo è dunque perché, non scegliendo Dio, ha scelto di non essere libero, giacché una libertà senza Dio equivale infatti alla malattia per la morte, ovvero a autentica disperazione.
11) Come determinazione dello spirito, il disperarsi è dunque in rapporto con l’eterno è nell’uomo. La disperazione deriva dal rapporto che si mette in rapporto con se stesso, e da tale rapporto non ci si può svincolare. La disperazione non deriva semplicemente, però, da un rapporto falso o mal posto, da un fraintendimento banalmente occorso che ha determinato una sintesi squilibrata: al contrario, il disperarsi dipende per intero dall’uomo, che non è una mera sintesi, ma comporta un sovrappiù di riflessione. L’angoscia e la disperazione nascono entrambe in seno alla libertà, ma con la differenza che la vertigine di cui sono preda in una caso riguarda l’anima, mentre nell’altro lo spirito. La malattia della morte mette in luce – oltrepassando la problematica trattata nel Concetto dell’angoscia – come la disperazione nasca dalla libertà di decidersi o no per il fondamento che l’ha posta in essere. Mentre nella prima opera l’angoscia era paragonata a un deliquio, a uno svenimento femminile di fronte al nulla rappresentato dalle infinite possibilità da attuare, ora invece la disperazione è maggiormente radicata nel tessuto della libertà, riguardando cioè la costituzione dell’i (o del sé). Si è liberi per il fatto stesso di poter scegliere, ma con l’eventuale rifiuto rispetto a ciò non si annulla solo il fondamento costituito dal rapporto con l’altro, ma direttamente il proprio sé in quanto libertà.
12) L’io si manifesta nella libertà, che può essere però caratterizzata anche dalla possibilità di non riconoscere il vincolo con l’eternità e la trascendenza,portando l’io a pensare di potersi svincolare dalla potenza che l’ha posto e a cadere così nella disperazione. Ma la libertà, come segno di ciò che è eterno nell’io, vincola in eterno l’io a se stesso, impedendogli con ciò di liberarsi dall’eterno. Per Kierkegaard sarebbe infatti una contraddizione pensare di liberarsi dall’eterno, poiché il senso stesso di tale libertà ci proviene dall’eterno. Proprio il ritorno perenne dell’eterno lega l’io in maniera indissolubile alla sua libertà, di modo che questa diviene per l’io la necessità di scegliere la potenza che l’ha posto, abbandonandosi così alla fede. La disperazione e la fede sono perciò due maschere che l’io può indossare per interpretare, in maniera, differente, la trama del nulla costituita dall’assenza di Dio, che – per dirla con Kierkegaard – avendo fatto l’uomo per il rapporto, se lo è quasi lasciato andare dalla sua mano (cfr. p. 18).
13) L’infinito può essere scelto o rifiutato solo perché l’uomo è ancorato per così dire all’infinito. In tal senso – in linea con la paradossalità tipica del modo di procedere kierkegaardiano – anche la negazione dell’infinito si traduce nella conferma del vincolo che l’uomo ha con l’eterno, per cui il rifiuto stesso dell’infinito pone la libertà a rischio di dissoluzione, nel momento stesso in cui l’io “disperatamente non vuole essere se stesso”. Il passaggio da una forma impropria ancorché universale di disperazione a una disperazione autentica si dà nel divenire coscienti del proprio sé. Per giungere a una vera disperazione è necessaria, dunque, una presa di coscienza, dato che “la coscienza è l’aspetto decisivo” (p. 33). La coscienza è ciò a cui in progressione si lega una sorta di “autocoscienza” , nella quale si manifesta propriamente l’io nella sua essenza più dispiegata. La libertà di cui l’io diviene cosciente è al tempo stesso coscienza di una responsabilità infinita. Il divenire consapevoli della natura del proprio sé si accompagna anche alla coscienza della disperazione, ma tale percorso – pur nei rischi che esso comporta – rappresenta anche l’unica possibilità da attuare.
14) Tutti gli uomini sono quindi disperati, anche se per riconoscere ciò occorre consapevolezza. Chi afferma di essere disperato è più vicino alla guarigione, per quanto tale malattia dello spirito aumenti d’intensità in relazione alla consapevolezza che si ha di tale disagio. Il pregio della disperazione è la sua possibilità. Al riguardo Kierkegaard rovescia, a proposito della disperazione, il primato che Aristotele ha riconosciuto all’atto rispetto alla potenza. Di solito si pensa alla realtà come “possibilità annullata” (p. 17). Secondo la metafisica classica l’essere sarebbe infatti più in alto rispetto al poter essere, per cui il passaggio al gradino superiore rappresenterebbe un’ascesa. Riguardo invece alla disperazione, “l’essere si rapporta al poter essere come a una caduta [...per cui nel caso della disperazione] l’ascesa è il non essere disperato” (p. 17). L’essere realmente disperati rappresenta infatti la vera caduta del fenomeno esistenziale della disperazione, mentre la sua mera possibilità rappresenta la sua più grande vittoria. In rapporto alla disperazione, la sua realtà rappresenta dunque una negazione, ovvero la “possibilità impotente, annullata” (p. 17). Sia essere disperati che non esserlo preludono comunque alla possibilità di aprirsi alla disperazione più autentica che – in qualità di malattia dello spirito – si rapporta all’eterno che è nell’uomo.
15) L’io è innanzitutto sintesi e questa implica la possibilità di un rapporto non riuscito o distorto. La disperazione consiste in un rapporto squilibrato realizzato da libero atto dell’io. L’origine della disperazione va colta, dunque, nel movimento delineato dalla libertà dell’uomo, all’interno del vuoto che lascia il ritrarsi della mano di Dio. Chiunque non raggiunga o non ottenga ciò che si era proposto, non è essenzialmente disperato per tale fallimento, ma perché non tollera più il proprio io: vorrebbe cioè sbarazzarsi di sé, ma capisce anche di non poterlo fare, poiché l’eterno che è in lui non può essere messo a tacere. La disperazione ha a che fare, quindi, col fatto che ciò che vuole disperatamente essere è un io che non corrisponde a ciò che egli di fatto è. Il fraintendimento che sta alla base della disperazione riguarda la mancata accettazione, da parte dell’uomo, della sua natura di essere derivato, ovvero di esser stato posta da Altro. Per questo l’uomo vuole disperatamente separare il proprio io dalla potenza che lo ha posto. Da qui nasce lo squilibrio, la mancanza di una vera sintesi, e il conseguente svanire della speranza che si traduce appunto in disperazione.
16) A questo punto l’uomo cerca da un lato d’inseguire l’infinito attraverso l’illusione del pensiero e della fantasia, negandosi alla dimensione del finito (cfr. disperazione dell’infinito, pp. 34 sgg.); dall’altro opta per buttarsi invece a capofitto nella temporalità e nel finito, sottraendosi ad ogni prospettiva di trascendenza e ad ogni richiamo d’infinità (cfr. disperazione del finito, pp. 37 sgg.). L’alternativa o, per meglio dire, la dialettica che così si attua è quella di vivere al di fuori della realtà, in una possibilità illusoriamente dipinta come infinito, o sottostare viceversa al giogo della necessità, risultando incline al fatalismo e al determinismo. In ogni caso si conferma, per Kierkegaard, che la disperazione per “non voler essere se stessi” e quella per “voler essere se stessi” come assoluti padroni di sé sono le due forme autentiche di un’identica malattia.

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Lezioni della decima settimana
1) Per Kierkegaard, l’io è una sintesi di finito e infinito, la quale si pone in rapporto con se stessa, realizzando però il compito di tradursi in un rapporto equilibrato solo nel momento in cui ci si rapporta con Dio. Il non riuscire a divenire se stessi, ovvero a costituire un proprio sé armonicamente definito, comporta disperazione, a prescindere che si sia consapevoli o no di tale fallimento. Ma riguardo al divenire in cui si attua la determinazione del sé, non intervengono solo i momenti dell’infinito e del finito, ma anche quelli della possibilità e della necessità. Rispetto a quanto sostenuto da Hegel nella Logica, per Kierkegaard non è la necessità a costituire l’unità di possibilità e realtà, ma è piuttosto la realtà a costituire l’unità possibilità e necessità. Di conseguenza, anche l’attualità del sé non può che conseguire da una sintesi riuscita tra questi due aspetti modali (possibilità e necessità). Come detto, però, l’io rappresenta sempre una sintesi di stampo dialettico, per cui ogni forma di disperazione può essere colta e per così dire determinata solo approfondendo la forma contrastante o contraria. Ad esempio, quella forma di disperazione che crede di essersi posta come infinita, o che più semplicemente vuole essere tale, si abbandona alla fantasia che conduce verso l’illimitato, di modo che l’uomo è trattenuto in questo slancio fantastico dal ritornare a sé (o in sé), smarrendo sempre di più il senso della propria persona e distaccandosene in maniera quasi irreversibile. Ma se l’uomo annulla la propria dimensione di finitezza, non avvertendo più il peso che corrisponde alla necessità, in base alla dialettica kierkegaardiana esso perde la concretezza che ne rappresenta uno dei momenti costitutivi. Proprio perché l’io deve realizzare una sintesi tra finito e infinito, la mancanza di finito non può che dar luogo a ciò che hegelianamente si può definire come una “falsa infinità”.
2) Quando un uomo perde il senso della realtà, non aderendo più al mondo naturale e storico in cui vive, la personalità dell’individuo rischia di dissolversi. Il modo in cui l’uomo s’invola con la fantasia verso l’infinito, finisce per fargli prendere congedo da sé. La stessa conoscenza e il sentimento risultano un po’ fine a se stessi, sprecando per così dire l’io dell’uomo. Nel condurre quindi un’esistenza fantastica in un’infinità astratta, l’io si isola sempre più dalla dimensione reale. D’altra parte, però, è fonte di disperazione anche la mancanza d’infinità, che determina una ristrettezza di orizzonti davvero disperante. Kierkegaard è particolarmente sensibile a questo tipo di mancanza che consiste nel perdersi nel finito. L’individuo soggetto a questa forma di disperazione continua a svolgere la sua vita nella maniera più normale, immerso nella corrente temporale della mondanità. Di conseguenza, tale tipo di disperazione passa quasi sempre inosservata , senza che si colga cioè l’aspetto terribile del dileguarsi del sé nella moltitudine. Mancare dell’infinità significa aver smarrito il senso della possibilità, rimanendo così rinchiusi in un modo meccanico soffocato dalla necessità, in cui la libertà del possibile è di fatto interdetta.
3) Qualcosa di analogo avviene riguardo alla disperazione che attiene alla possibilità e alla necessità (ovvero alla loro auspicabile sintesi). Così come il finito opera una limitazione nei confronti dell’infinito, così la necessità trattiene rispetto alla possibilità – meglio, a quell’eccesso di possibilità, veicolato dalla fantasia, che travolge in qualche modo la necessità. In questi casi l’io (disperazione della possibilità), non avendo più nulla di necessario a cui far ritorno, si “sfianca” nella mera possibilità, ma “non si muove dal posto né giunge in alcun posto”, configurandosi appunto come un “movimento sul posto” (p. 39). Il dilatarsi della possibilità riduce i margini di possibilità dell’io, per cui quando tutto diviene possibile l’io è per così dire risucchiato nell’abisso. Nel suo sfrenato tendere verso il possibile, all’io manca ogni ancoraggio, la capacità di sapersi piegare alla necessità da cui pure è costituito, ovvero non è ha più quella sponda che gli consente di riconoscere i propri limiti. Vivendo, infatti, sospesi in una possibilità che travolge la necessità in una fantasmagoria di immagini fantastiche, l’io si svuota di realtà divenendo quasi un miraggio.
4) Da tale situazione di squilibrio scaturiscono essenzialmente due forme di smarrimento. La prima è quella “desiderante e anelante, l’altra quella melanconico-fantastica” (cfr. p. 41). In un caso, invece di riportare la possibilità alla necessità, offrendole un appiglio, si corre sempre più dietro ad essa, non trovando più la strada per ritornare a sé; nell’altro, l’uomo persegue, in modo melanconico, la “possibilità dell’angoscia” (o di una speranza), che lo strappa da sé, in modo così da “perire nell’angoscia o da perire in ciò in cui aveva angoscia di perire” (p. 41, tr. adattata).
5) Il caso della disperazione della necessità risente di una carenza di possibilità. Qui Kierkegaard prende di mira ogni comportamento filisteo e ogni forma di vita caratterizzata da una decadenza piccolo-borghese. In altri termini, Kierkegaard critica l’uomo che non rischia e non problematizza, preferendo rinchiudersi in un orizzonte meschino fatto di ovvietà e di esperienze triviali. In tale chiusura, l’uomo non è più aperto quindi al mondo della possibilità e della fede, ovvero al credere come mondo della fantasia e della libertà (cfr. pp. 41 sgg.). Il filisteismo, del resto, si qualifica per l’assoluta mancanza di spiritualità e per la propensione ad acquietarsi in un fatalismo deterministico. Alla “saggezza pappagallesca dell’esperienza triviale”, tipica del conformismo, manca anzitutto la “possibilità della fede”, e con ciò la “possibilità per distendere e lenire, per temperare la necessità” (p. 45). In tale condizione non c’è più modo di dare una possibilità al disperato, che crede peraltro di poter disporre a piacimento della possibilità, imprigionandola nella “gabbia delle probabilità” (p. 45). Il filisteo è l’uomo che non è mai toccato dall’inquietudine spirituale, essendo interamente immerso nel sonno di una vita sensibile. Egli è dominato cioè dalle categorie del sensibile (“il piacevole e lo spiacevole”), al punto da non arrischiare più di vivere nello spirito e nella verità (cfr. p. 46). È come un inquilino che preferisca vivere nel sottofondo di uno scantinato anche se la casa è tutta di sua proprietà e gli altri piani sono a sua completa disposizione (cfr. 46 sg.). Si tratta di un uomo abituato a vivere nella dimensione della mera sensibilità, non volendo perciò saperne di disperazione e angoscia, che egli infatti considera alla stregua di invenzioni fantastiche. Al di sotto però di tale non consapevolezza cova l’angoscia dell’assenza di spiritualità, con la relativa disperazione che – latente nella profondità – riemerge quando l’incanto dei sensi cessa di esercitare il suo inganno. D’altronde, la disperazione è sempre direttamente proporzionale al grado della coscienza (cfr. 45), poiché anche ignorare la disperazione non è prova della sua non esistenza.
6) Colui che ignora tale forma di disperazione, vivendo perciò in maniera estetica come i pagani o come l’uomo naturale, nutre in sé una contraddizione che lo divora (cfr. p. 48 sg.). Un’esistenza condotta sulla base di ideali puramente estetici è del resto disperante, e solo una determinazione etico-religiosa dell’esistenza consente di ovviare all’assenza di spiritualità e alla disperazione che ne consegue. La disperazione di chi vive a ridosso dell’immediatezza del mondo sensibile è per lo più inconsapevole, avendo tale uomo smarrito il proprio io e aver perduto il contatto con l’eterno. Si tratta, al riguardo, della disperazione di voler essere un altro, anche perché l’io che è in preda a tale disperazione si conosce solo a partire dalla propria esteriorità. Per Kierkegaard, l’atteggiamento spirituale è tendenzialmente anti-mondano, per cui la sua realizzazione necessita di un cambiamento così radicale da tradursi nella simultanea consapevolezza dell’eterno e dell’io. Mentre l’atteggiamento mondano si lega di volta in volta a qualcosa di ben definito, la salvezza proviene dal distacco da ciò che è mondano, passando attraverso alla disperazione quale malattia preposta alla conquista della fede.
7) L’uomo che manca di possibilità è un uomo per così dire prosaico, privo cioè di spiritualità, d’idealità e di poeticità. È un uomo che, al contrario del credente, non si affida a Dio, poiché con crede che “a Dio tutto è possibile” (p. 45). L’uomo a cui manca la dimensione della possibilità si accorge del possibile allorché, di fronte a situazioni estremamente problematiche, la vita stessa risulta soffocante. Se l’uomo resta senza possibilità è come se gli mancasse l’aria: la “personalità è infatti una sintesi di possibilità e necessità” (p. 43) e l’io del determinista non può respirare per il fatto che non si può respirare esclusivamente la necessità (cfr. p. 45). Il fatalista però non ha alcun Dio, né alcun sé, avendo elevato la necessità a proprio Dio. Al riguardo, Kierkegaard fa un po’ il verso a Hegel, abusando della dialettica, quando afferma: “a Dio tutto è possibile, così Dio è questo: che tutto è possibile” (p. 44). Il rischio che Kierkegaard corre, lungo tutta La malattia per la morte, per il fatto di servirsi di una dialettica a tratti spericolata, è in questo caso quello di far rientrare nelle infinite possibilità divine anche tutte le possibilità non propriamente positive. Ma a parte tali considerazioni, il senso che Kierkegaard ci comunica è che il massimo di disperazione prova comunque che l’io resta in rapporto con Dio anche quando sembra esserne più distante. L’io non è in grado perciò di negare tale relazione con la divinità, per cui lo stesso demoniaco non può realizzarsi in un’assoluta autonomia, ovvero come realtà separata. Il demoniaco soffre infatti nel porsi come tale, e in questa sofferenza traspare la consapevolezza dell’opposizione a Dio e all’amore, e quindi – indirettamente – la dimostrazione della realtà dell’amore. La disperazione prova, quindi, la realtà di ciò che è eterno nell’uomo, anche se è discutibile che l’unica possibilità di mostrare l’amore passi attraverso il massimo grado della disperazione – che tra l’altro Kierkegaard equipara al peccato.
8) Come possibilità infinita, Dio è la stessa condizione del pregare, poiché essendo la volontà divina il possibile nel suo senso più pregnante, ciò consente appunto di pregare: se la volontà di Dio fosse infatti qualcosa di necessario, l’uomo finirebbe per restare muto. In tal senso la possibilità si riafferma come l’antidoto nei confronti della disperazione e la salvezza della fede risolve ogni tipo di contraddizione, dal momento che mancare di possibilità significa che tutto è diventato necessario o che tutto è divenuto mera banalità.
9) Peraltro, la relazione tra uomo e Dio è garantita dal loro dualismo incolmabile (assunto poi ripreso dalla teologia dialettica). Tale dualismo non può infatti essere colmato, giacché per farlo occorrerebbe identificare l’esistenza con l’intelletto (col pensiero) – avendo la pretesa di dimostrare l’esistenza di Dio – oppure identificare Dio e l’uomo, finendo per divinizzare in qualche modo l’essere umano e non riconoscere perciò il peccato in quanto tale. D’altro canto, Dio non può rivelarsi all’uomo nella propria realtà, giacché in questo modo la libertà dell’uomo risulterebbe compromessa. Dio deve quindi abbassarsi fino all’uomo, ma coprendo il volto. Cristo è infatti rivelazione e al contempo mistero. L’atto di amore di Dio consiste nel rivelarsi nascondendosi, facendo sì che l’uomo – lasciato nella sua libertà – possa scegliere nella fede il bene, in quanto credere nella possibilità è credere.
10) Nella fede l’uomo esce dalla generalità indistinta, costituendosi come persona. In tal modo nasce alla vita spirituale, ovvero rinasce. La possibilità diviene quindi, per il tramite della fede, la forma di determinazione della concretezza. Da qui si evince che libertà e fede non possono essere separate. Il rapporto tra realtà e libertà non è più posto, come nella filosofia hegeliana, nei termini di una relazione astratta che trasforma la possibilità in necessità e la concretezza esistenziale dell’uomo in genericità: infatti, la libertà, per Kierkegaard, è l’atto concretamente responsabile attraverso cui l’uomo sceglie il bene, senza garanzie divine o speciali rapporti d’autorità.
11) Il rapporto tra il rapporto in cui consiste l’uomo e colui che ha posto il rapporto si allenta nell’attimo in cui l’uomo sprofonda nella disperazione. L’uomo può essere consapevole della propria disperazione, ma può anche ignorarla; può avere una cognizione esatta di cosa sia la disperazione o averne invece un’opinione errata. In ogni caso, c’è un legame assai stretto – quasi di crudele reciprocità – tra coscienza (consapevolezza) e disperazione. Non solo un eccesso di coscienza, ma qualsiasi coscienza rappresenta di per sé una malattia di ordine spirituale. La malattia si manifesta, alla superficie, emergendo dal fondo oscuro dell’anima. Kierkagaard dice che la “situazione del disperato è per lo più una semioscurità sul proprio stato, a sua volta variamente sfumata. In qualche modo egli sa dentro di sé per un certo grado di essere disperato, lo nota in sé, come uno nota in sé di avere una malattia latente nel corpo, ma non vuole davvero ammettere di quale malattia si tratti” (p. 51). Resta però che al crescere della consapevolezza s’intensifica la disperazione. Nondimeno, chi non sa della propria disperazione non si sottrae di fatto ad essa, essendo invece con essa in un rapporto insincero. Ignorare la disperazione finisce per aggiungere allo smarrimento l’errore. Inoltre, se non si è consapevoli della propria natura spirituale e se non si è consapevoli di essere davanti a Dio in questa veste, ecco che l’ignoranza si qualifica come la forma peggiore di disperazione. L’ignoranza getta l’io nell’oscurità, offuscando il rapporto stesso con Dio. Perdendo, quindi, i suoi legami originari, l’uomo si disperde nel mondo precipitando nel peccato.
12) Anche chi è però consapevole della propria disperazione, non sempre è capace di cogliere cosa sia la disperazione, per cui accade che spesso egli decida di nasconderne il vero significato. Nella mancata ammissione della propria malattia c’è la volontà inconfessata di sottrarsi ad essa. Costui sa, ma finge di non sapere, non avendo cioè il coraggio di dire ciò che sa. Non volendo andare fino in fondo nella verità che lo riguarda così da vicino, un disperato di tal genere inganna dunque se stesso, essendo propriamente in malafede, non volendo riconoscere la malattia che lo ha cacciato in quello stato di disperazione che pur rileva.
13) “in ogni oscurità e ignoranza c’è, insomma, un gioco dialettico di conoscenza e volontà” (p. 52). La disperazione non può essere dunque analizzata solo sotto l’aspetto della conoscenza o quello della volontà. Infatti, vi sono sempre diversi gradi di consapevolezza che investono sia il “cosa” sia il “chi” della disperazione. Il disperato che è consapevole d’insistere nella disperazione – che non vuole liberarsi di essa, non avendone un’idea esatta – non vuol sapere cos’è la disperazione e cosa lo fa in realtà disperare.
14) Laddove la disperazione è consapevole c’è un uomo che insiste volontariamente in essa. In tal caso, il disperato è tale perché “disperatamente non vuol essere se stesso” o, viceversa, “disperatamente vuol essere se stesso” (cfr. pp. 53 sgg.). La prima disperazione è quella femminile, detta della debolezza; l’altra è quella maschile, ovvero dell’ostinazione. Tra le due, la differenza è solo relativa, in quanto anche nella disperazione massimamente ostinata è presente una qualche debolezza. Nel caso di chi non vuole disperatamente essere se stesso si possono riconoscere due tipi umani: a) in un caso abbiamo l’uomo immediato (cfr. p. 54 sg.) che, rinchiudendosi nel cerchio della temporalità e della mondanità, dispera per ciò che è terreno, dando luogo alla forma più universale e comune di disperazione (cfr. p. 60 e 63); b)vi è poi anche la figura dell’uomo per così dire taciturno che, disperando della propria debolezza rispetto al finito, dispera per se stesso e per l’eterno che ha perduto (cfr. pp. 63 sgg.).
15) Riguardo al voler essere disperatamente se stesso (cfr. pp. 69), si possono fare alcune distinzioni. In primo luogo, l’ostinazione ha a che fare con un io attivo (cfr. p. 71 sg.) che, nel divinizzare se stesso, “non riconosce nessuna potenza sopra di sé” (p. 71), realizzando la volontà di staccarsi da Dio. C’è però anche l’ostinazione di un io passivo che, offeso per così dire dall’esistenza, piegato dalle sofferenze e dalle difficoltà in cui ha urtato, nega la possibilità di potersi liberare dalla propria “croce”, fino a ribellarsi con forza a Dio per farsi testimone del cattivo operato divino (cfr. p. 72 sg.). A differenza della disperazione cosiddetta della debolezza, qui ci troviamo dunque al cospetto di una disperazione che ha assunto i tratti dell’ostinazione. In questi casi la disperazione non consiste più in un patire per ciò che proviene dall’esterno, ma è qualcosa che scaturisce direttamente dall’io, avendo il suo fondamento nel fatto di volersi costituire interamente da sé il proprio io, non puramente come compito da realizzare, ma in ragione della propria riconosciuta infinità. Kierkegaard dice, infatti, che per voler essere disperatamente se stesso “ci dev’essere coscienza di un sé infinito” (p. 70), anche se poi questo sé infinito è solo la “forma più astratta” e la “più astratta possibilità del sé”, per cui volendo essere disperatamente proprio questo sé, si viene a strappare il sé da ogni rapporto con la potenza che l’ha posto.
16) Col richiamo a tale forma infinita il sé vuole creare se stesso, vuole disporre di sé, vuol fare di sé ciò che vuol essere, decidere come dev’essere costituita la propria concretezza. In tal senso, l’io si predispone a rifiutare ogni aiuto, anche quello che per assurdo potrebbe provenire da Dio. Entrambe le forme autentiche di disperazione verranno identificate da Kierkegaard, nella seconda parte, come peccato, poiché il peccato – in quanto disperazione – consiste sempre nel fatto che l’io non vuole essere fondato da Dio, riferendosi unicamente a sé. Su questo piano emergerà, quindi, che il concetto contrario del peccato non è la virtù ma la fede. È la fede, infatti, a contenere la decisione paradossale – contraria alla ragione – di far sì che il proprio sé sia fondato in Dio, pur volendo però continuare ad essere se stesso.
17) Nel caso l’io si ponga in forza di sé, siamo nella figura della disperazione in cui ci si vuole liberare di sé e in cui l’io consiste in un rapporto squilibrato nel quale esso si rifiuta di rapportarsi all’assoluto; Nel caso, invece, in cui l’io si riconosce come un rapporto derivato, e cioè come posto da un altro, ecco che la disperazione consiste nel voler essere se stesso. Al di sopra del livello contrassegnato dalla sintesi di coppie di termini opposti vi sono dunque due piani: il primo consiste nel rapportarsi a sé del rapporto; il secondo consiste nel rapportarsi a un altro, nel mentre si rapporta a sé. L’intricata struttura della disperazione mostra come ciascuna delle due forme autentiche possa essere ricondotta all’altra, a seconda che si privilegi il rapportarsi all’altro o il rapportarsi a sé. Fin dall’inizio (cfr. p. 16) Kierkegaard afferma che la “seconda forma di disperazione (voler essere disperatamente se stesso) designa tanto poco una peculiare specie di disperazione, che al contrario ogni forma di disperazione può essere infine risolta e ricondotta ad essa”. Questa forma di disperazione rappresenta tra l’altro un privilegio immenso, poiché la sua stessa possibilità rappresenta la peculiarità dell’uomo nei confronti dell’animale, definendone infatti la spiritualità ma, al contempo, istituendo un discrimine tra cristiano e pagano. Nell’ambito dell’esperienza cristiana, è questa dunque la forma tipica di disperazione che l’uomo può estirpare solo passando attraverso la consapevolezza di fondarsi, in maniera trasparente, nella potenza che l’ha posto. Sotto questo profilo, anche la disperazione che consiste nel non voler essere se stesso può essere ricondotta all’altra figura della disperazione, nella misura in cui anche in essa – in modo però non sempre consapevole – si avanza il rifiuto di rapportarsi a un altro, ma appunto nelle forme di un rapportarsi a un altro in maniera negativa.
18) Da un altro lato, però, Kierkegaard sembra contraddire ciò quando afferma che “disperare per se stesso, disperatamente volersi disfare di se stesso, è la formula di ogni disperazione, perciò l’altra forma della disperazione, disperatamente voler essere stesso, può essere ricondotta alla prima [...]” (p. 22). Qui il carattere dialettico dello stato della disperazione raggiunge il suo culmine. Se è vero, infatti, che chi vuole essere disperatamente se stesso non vuole certo sbarazzarsi di sé, voler essere l’io che si è non corrisponde però qui all’esatto contrario della disperazione. Difatti, l’uomo che in questo caso vuole disperatamente essere se stesso, vuole essere proprio quell’io che esso non è, ovvero vuol separare il proprio io dalla potenza che l’ha posto, non volendo cioè essere quell’io che invece è chiamato ad essere (cfr. p. 22). L’io che intende assolutizzare se stesso nega il rapporto con l’assoluto e in tal modo cade nella disperazione. Anche il solo pensare di potersi svincolare dal rapporto con l’assoluto è una pura illusione, in quanto si può scegliere di farlo solo sulla base di quel rapporto fondativo da cui deriva la libertà del singolo. L’uomo che non vuole disperatamente essere quell’io che si rapporta all’assoluto, decide liberamente per tale negazione solo in quanto fondato nella potenza che gli dà possibilità di scegliere, e paradossalmente contro la potenza stessa. Kierkegaard al riguardo conclude che, per quanto il disperato possa ritenere di aver perso del tutto il proprio io, il senso di eternità continuerà invece a tenerlo legato ad esso, mostrandogli così che il pensiero di essere riuscito a sbarazzarsene era solo un’illusione, anche “perché avere un sé, essere un sé è la massima, l’infinita concessione che è fatta all’uomo, ma insieme la richiesta che l’eternità gli fa” (p. 23).
19) La finezza dell’analisi psicologica di Kierkegaard si rivela nell’esser riuscito a indagare e a tipizzare nella loro sintomatologia le varie forme della disperazione – da quelle latenti a quelle palesi e portatrici di tormento. Tale malattia dello spirito ha tratti benefici, nella misura in cui risulta essere il viatico per l’eternità, ma è pur sempre una crisi in un duplice aspetto: da un lato, come rottura rispetto all’immediatezza della vita naturale e come turbamento del vivere quotidiano, dall’altro, come consapevolezza che da tale condizione si potrà comunque ripristinare la salute, tramite un aiuto sovrannaturale. La disperazione incrina la sicurezza dell’uomo immediato, altera la fiducia che egli nutre nella natura, facendogli così scorgere i propri limiti, disponendolo ad abbandonare Dio. Tale abbandono è compiuto dall’uomo sempre con le proprie forze. Scegliendo di morire per eccesso di spontaneità e immediatezza, l’uomo nutre però anche il fine di una rinascita spirituale. Il piano della vita spirituale non è ancora, tuttavia, quello dell’eterno, poiché quest’ultimo irrompe in modo misterioso e, a tratti, perfino assurdo. Dopo una prima rottura che si consuma col mondo dell’immediatezza, si apre una crisi ancor più acuta che solo Dio può sanare. Di qui l’insistenza kierkegaardiana sul fatto che la disperazione – proprio per la sua natura dialettica – è una malattia che è meglio contrarre, per quanto sia anche la più difficile da debellare.
20) La critica che Kierkegaard rivolge agli atteggiamenti di vita filistei è sempre incisiva e colpisce senz’altro nel segno, ma a tratti pare un po’ compiaciuta nello sconfessare ogni rapporto positivo con la realtà naturale, come se la vita che non passa attraverso l’angoscia e la disperazione fosse di fatto sprecata. La vita è infatti, per Kierkegaard, seduzione e inganno, per cui “quando un giorno la clessidra, la clessidra della temporalità, sarà trascorsa; quando sarà ammutolito il rumore della mondanità, e il daffare inesausto e inconcludente avrà fine [...] l’eternità chiederà a te, e a ciascun singolarmente di questi milioni e milioni, solo una cosa, se tu abbia vissuto o no disperato [...]” (p. 30). Di fronte al pensiero di Kierkegaard, soprattutto di quello esposto nelle opere cosiddette edificanti, ci si trova in una situazione ambivalente: da un lato ci si sente attratti dalle critiche ad ogni forma di conformismo e di grettezza, risultando così partecipi del suo tormento religioso; dall’altro, invece, si stenta ad accettare l’idea che la natura debba essere vista attraverso un velo di colpa e che la materia comporti una costante ribellione nei confronti dello spirito, di modo che la presenza di Dio sarebbe resa possibile solo dall’assenza del mondo. Supposto che la felicità non rappresenti una determinazione dello spirito e che l’uomo si trovi sempre in uno stato critico al limite della malattia, l’inquietudine – come arricchimento della nostra conoscenza emozionale mediante la scoperta di sempre nuove dimensioni – non può limitarsi però a rincorrere solo se stessa, in un gioco acrobatico che si affaccia sull’abisso di un nulla che essa stessa ha creato. Nella prefazione alla Malattia per la morte (cfr. p. 5 sg.), Kierkegaard si richiama però unicamente all’eroismo cristiano, consistente “nell’osare diventare fino in fondo se stesso, un uomo singolo, questo determinato uomo singolo, solo di fronte a Dio [...] (p. 5). In altri termini egli si appella a una conoscenza da condurre con “preoccupazione”, in linea cioè con la serietà che edifica. Se Hegel aveva nutrito dunque grande disprezzo per la filosofia edificante, Kierkegaard – alzando il tiro – sostiene che tutto dev’essere edificante, per cui tale edificazione deve risolversi nel guardare la vita dal punto di vista della morte, anche perché la guarigione della malattia che colpisce lo spirito “è proprio morire, morire a” (p. 6).

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Lezioni dell’undicesima settimana
1) Per Kierkegaard l’uomo è sempre una sintesi finitezza e infinità, per cui l’uomo non deve a tutti i costi spogliarsi del suo carattere finito. Anche di fronte a Dio la persona umana deve presentarsi nella sua realtà e concretezza, accettando di essere ciò che si è. Nondimeno, anche in opere come Aut-Aut, la realtà umana – propria della finitezza storica – dev’essere però accettata come una colpa di cui ci facciamo carico, come qualcosa da redimere nel pentimento. Nella Malattia per la morte Kierkegaard esaspera ancor più tale tendenza, che consiste in una sostanziale rottura con il mondo dell’immediatezza. L’io autentico è infatti quello che si conquista astraendo da ogni esteriorità, dismettendo cioè i panni in cui si trova a proprio agio nel mondo esterno. Essendo di norma rivolto a ciò che accade fuori di lui, l’uomo evita di attuare quel tipo di riflessione che farebbe emergere, dal fondo della sua anima, tutto ciò che attiene alla coscienza del peccato. Il passaggio dalla prima alla seconda parte di questo trattato è scandito dal fatto che mentre nella parte precedente si era fatto esclusivo riferimento a una “gradazione nella coscienza del sé” ancora interna alla determinazione del “sé umano” – ovvero in cui la “misura” era ancora rappresentata dall’uomo – ora invece il sé di cui si parla è un “sé teologico”, in quanto “sta direttamente davanti a Dio” (cfr. p. 81).
2) Tale considerazione fa pensare che il baricentro della prima parte di tale opera s’incentri nella figura dell’io che disperatamente non vuole essere se stesso, e per il quale il rapporto con Dio è ancora di là da venire (o è stato posto, comunque, solo in maniera negativa o indiretta). Nella seconda parte dell’opera l’uomo ottiene invece una diversa qualificazione, che Kierkegaard non esita a definire teologica. L’uomo diviene infatti consapevole di sé in quanto colpevole, e ciò si registra per il fatto di porsi ora davanti a Dio. Nel contempo l’io diviene però cosciente anche della propria infinità, con la conseguenza che la disperazione di voler essere se stesso si traduce nel tentativo di sfidare Dio, che non è qualcosa di esterno nello “stesso senso di un poliziotto” (p. 82). Più l’io scende nella propria intimità, più si rende consapevole di sé, scoprendo al tempo stesso la potenza infinita di Dio. “Solo quando un sé, in quanto questo singolo determinato, è cosciente di esistere davanti a Dio, solo allora esso è il sé infinito; e questo sé pecca dunque davanti a Dio” (p. 82). Essere al cospetto di Dio significa, dunque, scoprirsi peccatore, ovvero prender atto dell’abisso qualitativo che c’è tra l’umano e il divino. Tutto ciò che non è presenza davanti a Dio è privo di valore: meglio, è finitezza e colpa. Riprendendo un passo dell’Epistola ai Romani, Kierkegaard afferma che l’opposto del peccato è appunto la fede (cfr. p. 84). A differenza di ciò che pensano i pagani, ovvero gli uomini che vivono nell’immediatezza, il contrario del peccato non è la virtù ma la fede, giacché tutto ciò che distoglie dalla concentrazione richiesta dalla fede è appunto peccato. Tale posizione risulta assurda per chi, sotto il profilo speculativo, voglia rendersi ragione del peccato restando all’interno delle maglie del pensiero, ma non per chi accetti invece il principio della differenza qualitativa tra Dio e uomo. Per costui, anche il solo fatto di voler persistere nella sfera dell’umano costituisce una colpa irrimediabile. Kierkegaard dice infatti che la “dottrina sul peccato “disgrega incondizionatamente la massa, rafforza la differenza qualitativa tra Dio e uomo così a fondo come mai prima è stata rafforzata” (cfr. p. 123). Non c’è un altro aspetto in cui l’uomo sia così diverso da Dio come quello appunto di essere peccatore, e di esserlo davanti a Dio: in questo modo, infatti, gli opposti sono accostati senza potersi separare reciprocamente, ma proprio per questo essi fanno risaltare ancor più la loro differenza (come nel caso dei colori, cfr. p. 123). Il peccato è perciò l’unico predicato che non si può attribuire a Dio.
3) L’uomo è dunque separato da Dio dal profondo abisso della qualità (cfr. p. 127). Una dottrina che non consideri tale differenza è una “bestemmia”, pura blasfemia. La via che l’uomo percorre verso l’intimità, ritraendosi dalla dispersione del mondo, è la stessa lungo la quale riconoscerà la propria natura di peccatore, ovvero di uomo imperfetto e finito. Kierkegaard giunge dunque al riconoscimento della finitezza dell’essere umano, nonché del suo carattere angosciato e colpevole, non sulla base della mera speculazione o di un pensiero di ordine logico, ma di una chiarificazione esistenziale di tipo essenzialmente emotivo.
4) Kierkegaard distingue, fondamentalmente, tra una disperazione che ignora, ovvero una disperazione che si presenta nella forma dell’inconsapevolezza dell’io come custode dell’eterno, e la disperazione consapevole caratterizzata dalla volontà ottusa di rimanere nella disperazione attraverso una libera scelta di rifiuto. Il pensiero kierkegaardiano si regge sul principio secondo cui la consapevolezza di sé sarebbe il criterio decisivo dell’io, in quanto l’elevazione a potenza dell’io e della stessa disperazione si ha con il grado di coscienza che l’io manifesta nei confronti di stesso, dal momento che tale consapevolezza accresce la volontà e il potere di scelta dell’io (cfr. p. 52). Al grado di consapevolezza corrisponde però anche quello della disperazione: l’intensità di quest’ultima sarà tanto più elevata quanto l’io risulterà consapevole della propria disperazione. E soprattutto ciò si registrerà allorché l’io sarà consapevole della propria disperazione davanti al fondamento che l’ha posto come rapporto che si rapporta a se stesso. La disperazione varierà, quindi, dal grado più basso dell’innocenza (o, più propriamente, dell’ignoranza) a quello più elevato del demoniaco. La tonalità della disperazione cresce, dunque, da un minimo di chiarezza a un massimo di trasparenza: e cioè, dalla situazione in cui c’è ancora ignoranza della disperazione a quella in cui si è diradata ogni oscurità che potrebbe eventualmente fungere da attenuante. In un caso la disperazione è inconsapevolmente ridotta al minimo, nell’altro essa deflagra in un’ostinazione assoluta. In due luoghi (cfr. p. 52 e 132) Kierkegaard afferma che l’opposto della disperazione è rappresentato dal credere, ovvero da quella condizione in cui non ci si dispera di nulla e che equivale alla fede. La concezione kierkegaardiana della fede si riconferma come diversa da quella hegeliana citata nel Concetto dell’angoscia (fede come conciliazione di opposti), essendo infatti la fede lo stato in cui (nel rapportarsi a se stesso e nell’essere se stesso il sé si fonda in modo trasparente nella potenza che lo ha posto” (p. 132).
5) La disperazione che ignora si presenta nella forma dell'inconsapevolezza dell'io come custode dell'eterno, mentre la disperazione consapevole (che è cosciente di essere tale perché l'uomo sa di avere un io che presenta tratti di eternità) è caratterizzata da una volontà ottusa di rimanere nella disperazione attraverso una libera scelta di rifiuto. Le figure che rientrano nella modalità della disperazione consapevole oscillano tra il non voler essere se stesso e il volerlo essere – ovvero, per dirla con Kierkegaard, tra la disperazione della debolezza e quella dell'ostinazione, tra una disperazione tipicamente femminile e una che ha connotati di virilità. Kierkegaard distingue, anzitutto, tra lo stato di colui che dice di essere disperato e la consapevolezza interiore di cosa sia realmente per lui la disperazione, dato che le due cose non vanno sempre di pari passo. Una persona può avere infatti consapevolezza di essere disperata, ma ignorare al contempo il chiaro significato di tale parola, dal momento che lo stato del disperato è una sorta di penombra contornata da varie sfumature. Al disperato si richiede però al riguardo una certa chiarezza per poter cogliere di trovarsi in una situazione in cui s'illude di conoscere il proprio stato di disperazione – uno stato che però è solo intravisto, conducendo egli una vita nella semioscurità. Per avere consapevolezza di ciò, occorre avere un''idea della disperazione, ovvero dev'essere chiaro – per chi dispera – che il suo vivere nella penombra è motivato, in particolare, proprio dalla sua disperazione.  Dal momento in cui l'uomo diviene consapevole della propria disperazione, questa si eleva sempre più quanto a potenza. Dalla consapevolezza della disperazione Kierkegaard fa scaturire due forme distinte (debolezza e ostinazione), sottolineando però come i contrasti tra le due siano solo relativi, poiché ogni forma di disperazione – anche quella della debolezza – presenta un tratto di ostinazione (che traspare nella sua stessa formulazione. "non voler essere"), così come d'altro canto voler ostinatamente insistere sulla volontà di essere se stesso è indice d'indubbia cdebolezza. Debolezza e ostinazione si implicano dunque a vicenda, tanto che si può parlare, riguardo alla disperazione, di un'ostinata debolezza e di una debole ostinazione.
6) Il tipo di disperazione più comune è quello dell'immediatezza, dell'estemporaneità, di una disperazione subita. In questo caso non c'è consapevolezza dell'infinità del proprio io (cfr. p. 54), per cui la disperazione si traduce in un patire, in un soccombere sotto la pressione esteriore. È come, cioè, se al disperato capitasse – in maniera accidentale – qualcosa che lo porta alla disperazione: da qui il carattere di disperazione subita, caratterizzata da un'assoluta impersonalità. Si può crollare nella disperazione per i motivi più svariati, ma in questo tipo di disperazione si constaterà solo la mancata ripetizione di ciò che è immediato. L'uomo cosiddetto immediato, che vive cioè nella cerchia delle cose mondane, si dispera per il finito, caratterizzandosi per un atteggiamento passivo nei confronti di sé e del mondo. L'uomo immediato non riesce a varcare la porta che gli sta di fronte, la quale peraltro costituisce un ingresso destinato a lui. In tal senso, è l'uomo della porta finta o della "porta cieca sullo sfondo della sua anima, dietro la quale non c'è nulla" (p. 59), giacché la propria condizione gli rimane oscura o inintelligibile. In altri termini, costui sa di essere disperato, ma pensa che la causa di tale situazione sia nelle cose esteriori che gli sono state tolte, mentre invece disperarsi è perdere l'eterno e questo tipo di perdita egli non è in grado nemmeno d'immaginarselo. "È come se uno volgesse le spalle al municipio e al tribunale, puntasse il dito proprio davanti a sé e dicesse: lì stanno il municipio e il tribunale; quell'uomo ha ragione, stanno lì...quando si volterà" (p. 55). Ciò che quest'uomo dice è in un certo senso vero, ma non lo è nel modo in cui lui lo intende. La sua posizione è in qualche modo rovesciata, nel senso che ciò che lui dice va inteso all'inverso, dal momento tra l'altro che la disperazione lo coglie alle spalle a sua insaputa. Si tratto di un uomo certamente disperato, ma sulla base di una motivazione sbagliata, per cui quando le cose sembrano nuovamente mutare di segno in direzione della positività, egli crede di essere guarito dalla disperazione. Per questo non realizza la vera complessità della disperazione, non facendosi nemmeno carico del compito assegnatogli di divenire un io, di formarsi in quanto persona. La formula di tale disperazione è: "disperatamente non voler essere se stesso, oppure al livello ancora più basso: disperatamente non voler essere un sé, oppure al livello infimo: disperatamente voler essere un altro da se stesso, desiderare un nuovo sé" (p. 56), ovvero cambiare identità.
7) Quest'uomo vorrebbe dunque essere un altro, vorrebbe cambiare il proprio destino così come s'indossa un altro vestito, laddove la tragicomicità della sua situazione consiste nel voler essere un altro, pur non essendo ancora stato in grado di diventare quell'io che è stato chiamato a essere e che peraltro non desidera nemmeno divenire. Questo io che vive consapevolmente nell’immediatezza, manca però di una riflessione interiore che gli consentirebbe d’intuire che la disperazione non accade ma è azione, attività dell’io. Egli non sospetta minimamente che a farlo disperare sia l’insistere al di qua dell’apertura del campo di possibilità che gli è assegnato – ovvero è l’insistenza tra le cose, nelle abitudini e nella sicurezza mondana, giacché è proprio la mancata relazione con l’eterno a farlo precipitare in un cieco disperare. Disperdendosi tra le cose che gli sono esterne, evitando ogni momento di riflessione interiore, a costui manca quindi “un’autoriflessione o riflessione etica”, nel senso che esso non ha coscienza di un sé che si conquista mediante “l’astrazione infinita da tutto ciò che è esterno”, di un io che – lungi dall’essere vestito dell’immediatezza – è la forza motrice del “processo attraverso cui un sé coglie illimitatamente il proprio sé effettivo con le sue difficoltà e i suoi vantaggi" (p. 58). 
8) Così concepito, l’io non intende però piegarsi sotto i colpi della necessità che il reale sembra infliggergli, cadendo del tutto nella disperazione. Esso rinuncia all’idea ridicola di voler essere un altro, mantenendo quel rapporto col proprio io, avviato attraverso la riflessione. Esso si limita tuttavia ad aspettare che la disperazione passi, anche se ciò costituirà un’attesa del tutto vana, priva di compimento, per cui tale uomo finirà per comportarsi come colui che disprezza la propria casa ma, invece di abbandonarla e andare a vivere in un’altra, esce di casa sperando che la situazione si trasformi, giacché considera pur sempre il luogo in cui vive come casa sua. Al riguardo Kierkegaard dice che il disperato dell’immediatezza, segregato in una speranza del tutto illusoria, sarà sempre comunque ospite di se stesso, nel senso che il suo io resterà confinato a quella porta cieca dietro a cui egli non riesce a cogliere la presenza del nulla. 
9) Mentre questo tipo di disperazione è in ragione di ciò che la determina, vale a dire riguarda qualcosa di terreno, nella seconda forma di disperazione – sempre relativa al non voler disperatamente essere se stesso – la disperazione riguarda ciò che potrebbe liberare dalla disperazione stessa, in quanto si tratta appunto di disperazione dell'eterno. Quest’altra forma di disperazione riguarda l’uomo cosiddetto taciturno o chiuso, il tipo per così dire introverso, che dà molta importanza al mondo esterno e che, proprio per questo, tende a ripiegarsi su di sé. Tuttavia, più il suo io tenta di staccarsi da ciò che disprezza, più egli sente di legarsi ad esso, ed è questa debolezza che lo fa disperare. Anche costui soffre di quella malattia dello spirito che si precisa in un “disperante non voler essere se stesso”. Ad accomunare queste due forme di disperazione è in ogni caso l’io, che resta dialettico, e riguardo al quale si dice che ci si dispera per e di se stessi. La disperazione di ciò che è terreno è mancanza dell’eterno, mentre quella dell’eterno è mancanza di ciò che è terreno. Nel primo caso la disperazione è “della debolezza”, nel secondo ci si dispera invece “per la propria debolezza” (p. 64).  Nondimeno, anche se ora si comprende che disperarsi per ciò che è terreno rappresenta una debolezza, “anziché svoltare davvero via dalla disperazione verso la fede, umiliandosi davanti a Dio sotto la propria debolezza, egli s’immerge nella disperazione e dispera per la propria debolezza” (p. 64). 
10) Kierkegaard osserva che tale forma di disperazione costituisce un progresso considerevole rispetto all’altra, poiché se l’uomo immediato si dispera per il finito, ed è questa la sua debolezza, l’uomo taciturno e chiuso in sé comprende che è debolezza aver attribuito al terrestre tanta importanza, di modo che ora la sua disperazione si eleva a potenza, disperando egli per aver “perduto l’eterno e se stesso” (p. 64). La disperazione assume così un andamento ascendente. In questa forma di disperazione c’è infatti anche un aspetto positivo, in quanto ci si può disperare dell’eterno solo nella consapevolezza di avere un io abitato da qualcosa di eterno. Tuttavia, tale uomo non supera la propria condizione, malgrado abbia individuato cosa lo tormenta e sappia – nel suo insistere presso il finito – che è l’eterno a sfuggirgli, facendolo così disperare. Costui non è capace di guardarsi senza una certa riprovazione, essendo infatti persuaso di aver perduto l’eterno, e in tal senso non si riconosce quasi più, non volendo disperatamente essere se stesso. Egli non volge però i propri passi verso l’eterno, ma sceglie di chiudersi in sé, disperandosi proprio per se stesso. Qui, la disperazione, pur restando sempre confinata nella passività a motivo di debolezza, è però indirizzata al proprio io, non essendo cioè semplicemente un patire, come nel caso dell’altra forma di disperazione dai tratti marcatamente femminili. Proprio perché più intensa, questa disperazione è per così dire più vicina alla salvezza, anche se resta però irrimediabilmente consegnata al “non voler essere se stesso”. Kierkegaard dice, al riguardo, che al pari di un padre che disereda un figlio, l’io non vuole riconoscere se stesso dopo essere stato così debole. Disperato, esso “non può dimenticare questa debolezza, in qualche modo odia se stesso, non vuole, credendo, umiliarsi sotto la propria debolezza per riacquistare se stesso, no, per così dire, disperatamente non vuole ascoltare nulla su di sé, nulla vuol sapere di sé” (p. 65). 
11) L’io non può però liberarsi di se stesso e non può liberarsi dell’eterno verso cui si sente disperato, così come il padre non può ripudiare il figlio con un gesto di mera esteriorità, pena il fatto di far crescere il legame ancora di più. Il disperato non può allora far altro che tacere. Mentre in precedenza, il disperato, giungeva fino alla porta cieca dell’immediatezza, ora egli si trova accovacciato dietro a una “porta reale, ma chiusa con grande accuratezza” (p. 65), dietro la quale il sé si siede trascorrendo il suo tempo silenziosamente, non volendo “essere se stesso” ma essendo abbastanza consapevole  di sé  “da amare se stesso”. Il cammino della disperazione si è approfondito nella consapevolezza di sé, giungendo così al confine dell’ultima figura di disperato: quello che ostinatamente vuol essere se stesso. Qui l’io è però ancora troppo debole per voler fino in fondo essere se stesso, per cui preferisce rimanere braccato nel suo silenzio. Nel suo aspetto esteriore è un uomo del tutto realizzato, ma dentro di sé è schiacciato sotto il peso del “segreto del proprio io”. Si tratta di un uomo solitario, che fugge la chiacchiera, rifugiandosi nella propria intimità, per il quale la necessità di solitudine diviene una necessità che svela la profondità del suo essere eterno. Kierkegaard dice, infatti, che il bisogno di solitudine è sempre segno che in un uomo c’è spirito (cfr. p. 66). E tuttavia, quest’uomo disperato resta sotto scacco del proprio io, resta cioè pericolosamente ancorato alla propria disperazione – “nella chiusura marcia sul posto” (p. 68) – correndo un pericolo immenso. La strada intrapresa è quella giusta, perché si deve passare attraverso la disperazione dell’io per giungere all’io, ma egli sosta troppo a lungo nel tratto della sua debolezza, rimanendone immancabilmente schiacciato, e per questo si dispera. Il pericolo più grande che quest’uomo corre è il suicidio, che consiste nel il guadagno di sé come incapacità di guadagnare il fondamento del proprio sé. Il suicidio sembra essere dunque una soluzione per smorzare la propria debolezza, ma sarebbe del tutto evitabile se invece di resistere nel silenzio, quest’uomo si aprisse a un altro (spalancasse cioè le porte della sua taciturnità a un confidente). Ma anche per un poeta – dice Kiekegaard (cfr. p. 69) – sarebbe un bel compito mostrare la contraddizione penosa che travaglia l’io di un demoniaco, e che consiste nel non poter fare a meno di un confidente, ma di non potere al contempo averne uno. Le vie per poter uscire da questo stato di debolezza sono due: o proiettarsi verso l’esterno, e cioè rituffarsi a capofitto nel mondo, cercando di far tacere il tormento interiore attraverso un’intensa attività mondana e un ritorno all’immediatezza della sensualità; o elevare ulteriormente il grado della disperazione verso il vertice costituito dall’ostinazione, e cioè dal voler essere disperatamente se stessi. 
12) Quando il disperato si rende conto perché non vuol essere se stesso, ecco che la situazione si capovolge e si manifesta l’ostinazione, per cui costui ora vuole disperatamente essere se stesso. In ciò egli raggiunge un maggior grado di consapevolezza, dato che chi vuol essere disperatamente se stesso sa che la disperazione non giunge dal di fuori, non accade dall’esterno, non è un patire sotto la pressione dell’esteriorità, bensì un’azione che viene direttamente dall’io: è una nuova qualificazione della disperazione sotto la determinazione dello spirito, è l’ostinazione di fronte alla disperazione della propria debolezza. Come dice assai bene Kierkegaard, “è disperazione con l’aiuto dell’eterno” (p. 69), è l’abuso disperato dell’eterno, che è nell’io, per voler disperatamente essere se stesso. Essendo in virtù dell’eterno, tale forma di disperazione è più vicina alla verità perché sembra aver raggiunto l’oggetto della ricerca, che è appunto l’eterno; d’altro canto ne è, però, più lontana, perché l’io si pone come creatore di se stesso, sradicandosi da ciò che lo costituisce: per essere se stesso, egli non vuole infatti perdere se stesso in ragione dell’eterno, ma vuole disperatamente essere se stesso, negando il fondamento che l’ha posto. Questa forma di disperazione non riconosce, cioè, i limiti dell’io, non conosce né determinatezza né concretezza: una simile disperazione rappresenta uno slancio ostinato verso un’immagine e, per così dire, un progetto: il disperato, infatti, vuol farsi un io (vuol farsi farsi io) a prescindere da chi l’ha posto come rapporto e a prescindere dal finito che, nel rapporto dell’io con sé stesso, si rapporta con quell’infinito che orienta il suo ostinato errare. 
13) Voler essere se stessi implica la coscienza di un io infinito, ma questo io infinito è solo la sua forma (o la possibilità) più astratta, dal momento che l’io è sintesi di finito e infinito, e il finito rivela la concretezza della sua necessità creaturale. L’io è condannato così alla disperazione perché desidera essere un io astratto, infinito, strappando via da sé i limiti della propria realtà finita e svestendosi di ogni carattere di concretezza. Ma se l’io è attivo, la sua corsa per sostituirsi a Dio – per quanto insistente – non lo conduce da nessuna parte. Ciò che egli costruisce è un involucro rigonfio di nulla e di sterile volontà. Pur con i suoi sforzi disperati di voler essere se stesso, egli realizza esattamente il contrario, e cioè non diventa in fondo nessun io, “non diventa in senso proprio un sé” (p. 71), Anzi, come dice Kierkegaard, “egli è un re senza terra, in fondo regna sul nulla; la sua condizione, il suo dominio soggiace alla dialettica per cui è la rivolta a costituire in ogni istante la legittimità. Infatti quest’ultima riposa alla fin fine arbitrariamente nello stesso sé” (p. 71). In un proibitivo sforzo prometeico di autofondazione e di assolutizzazione di sé, l’uomo così disperato finisce col negare il rapporto con il fondamento, con l’assoluto e – non realizzando in tal modo se stesso – cade rovinosamente in uno stato di disperazione. Quest’io che nega attivamente Dio, è il medesimo io che rifiuta ostinatamente se stesso come corporeità, finitezza, necessità e temporalità. Per mezzo di un io infinito che nega un io finito, l’uomo pretende dunque di svincolarsi dal rapporto con la potenza che l’ha posto, decidendo per così dire da sé cosa vuole o non vuole essere nel suo io concreto. 
14) Si tratta dell’uomo che nel principio (come dice Kierkegaard a p. 70, con allusione all’incipit del Genesi: In principio Dio creò il cielo e la terra) nega il suo principio, un io che non è col principio ma nel principio, un io che vuole se stesso. Un io che “non vuole indossare il proprio sé, non vuole vedere nel sé che gli è stato dato il proprio compito, lo vuole costruire da sé grazie all’essere la forma infinita” (p. 70). Un io, quindi, che vuole crearsi da sé, che vuole godersi disperatamente la soddisfazione di essere l’artefice di se stesso, un io prometeico che manca di serietà, un io ipotetico che è immagine di se stesso, un io che negando la relazione col proprio fondamento perde se stesso, perché non riconosce di essere sintesi (derivata) posta da altro, e che volendo disperatamente essere se stesso finisce in realtà per non diventare nessun io: in altri termini, un io la cui volontà è un arbitrio, una cattiva volontà. Si tratta cioè di un io paragonabile a un re senza regno, a un sovrano che effettua il passaggio dall’essere al nulla, riuscendo a fare qualcosa di segno contrario a ciò che invece fa Dio, che crea l’essere ex nihilo. 
15) Se l’io disperato è attivo, esso non si rapporta però che a se stesso, non riconoscendo al di sopra di sé alcuna potenza. Al riguardo non c’è però solo un io attivo, ma c’è n’è anche uno passivo che – diversamente da quello – non vuole diventare Dio, non vuole sostituirsi ad esso in virtù di un’assoluta volontà di esercitare la propria potenza, ma – riconoscendo Dio – gli si rivolta contro. Siamo giunti così alla forma più potenziata di disperazione, alla sua massima intensità, e cioè al demoniaco, inteso come massima consapevolezza di sé, come massima volontà di affermare se stesso, addirittura come opposizione voluta al proprio fondamento: come negazione assoluta dell’assoluto (cfr. p. 72 sgg.). L’io passivo che disperatamente vuol essere se stesso rifiuta Dio – l’infinito – nella misura in cui è inchiodato alla propria determinatezza – al finito. È un io che si scontra con la realtà, con i disastri che attraversano il mondo; è un io offeso dalla vita, che coglie l’assurdo dell’esistenza e, non potendo sperare in alcuna possibile liberazione, dubita della bontà di Dio, che avrebbe permesso ai suoi occhi che la croce fosse piantata ogni giorno sulla terra: in tal senso egli si fa portavoce della protesta, impersonando la creatura che si ribella al creatore. 
16) Il demoniaco è superbo è non vuol umiliarsi domandando aiuto, perché ciò vorrebbe dire rinunziare ad essere se stesso. Per ostinazione non vuol essere consolato, perché ciò significherebbe credere nella possibilità di una salvezza, implicherebbe cioè una relazione con colui per il quale nulla è impossibile, ristabilendo quindi la relazione di assoluta relatività al cospetto dell’altro che è il vero assoluto. Chiuso disperatamente nel tugurio del proprio io taciturno, il demoniaco vuole essere se stesso in quel tormento che è diventata la sua passione frenetica (la sua frenesia demoniaca). In tal senso, egli respinge ora ogni tipo di cura. Un tempo egli avrebbe dato di tutto per sbarazzarsi di quel tormento, mentre ora la cosa più importante per lui è avere sempre a portata di mano il proprio tormento (cfr. p. 74). È un uomo risentito che ha in odio tutta l’esistenza, che ha fatto della stabilità del proprio tormento la prova inconfutabile del fatto che non è vero che a Dio sia tutto possibile. Di conseguenza, egli non vuol essere liberato da quel pungolo che esiste per lui come un segno che contrasta con l’eterna possibilità di Dio, e non vuol essere consolato in quella miseria, perché tale consolazione comporterebbe il venir meno di sé come demoniaco, alla stregua di un errore che venga cancellato (e corretto) dal suo scrittore (cfr. p. 75 sg.). Più la disperazione si accresce e più l’interiorità si sprofonda in un mondo chiuso in sé, per il quale l’esteriorità diventa tra l’altro sempre più insignificante.
17) Con il passaggio alla seconda parte del trattato Kierkegaard dà compimento alla sua fenomenologia della disperazione, spiegando le ragioni del sottotitolo di tale scritto: Saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio. Nella prima parte, termini come Cristo non compaiono mai, e lo stesso contenuto cristiano viene esplicitato – all’interno della polemica dogmatica che Kierkegaard conduce – solo in quest’ultima parte. La stessa psicologia della disperazione, costruita con le fitte analisi che abbiamo fin qui osservato, trova una sua stabile conclusione (dottrinaria) in una teologia del peccato. L’uomo che disperatamente non vuole essere se stesso, perché non sa arrischiarsi nel fondo della propria anima o perché, giunto di fronte alla propria anima, dispera per la debolezza che gli impedisce di stringersi nel rapporto con chi l’ha posto come rapporto, è un peccatore. Ma è peccatore anche l’uomo che vuol essere disperatamente se stesso, dal momento che insegue ostinatamente l’infinito che custodisce in sé nel tentativo di farsi assoluto, o perché – spinto dall’odio per un’esistenza gravida di sofferenze e sconvolta dall’assurdo – si scontra con violenza contro chi l’ha posto come rapporto. Qui la disperazione – sia quella della debolezza sia quella dell’ostinazione – diventa peccato, che è il potenziamento della disperazione, non appena questa è posta davanti a Dio. Anzi, come dice Kierkegaard (cfr. p. 79), è la “rappresentazione di Dio” a fare del peccato (sotto il profilo dialettico, etico e religioso) una sorta di “disperazione qualificata” (linguaggio giuridico che fa riferimento a un’aggravante). Se nella prima parte K. ha preso in esame la gradazione evidenziabile nella coscienza del proprio io, avendo come misura di tale determinazione l’uomo, ora il fatto che quest’io sia posto deliberatamente di fronte a Dio, ne fa qualcosa di non più meramente umano, trasformandolo in un “io teologico”, che non ha più come misura se stesso, ma la cui misura è appunto Dio (cfr. p. 81). Per trovare la misura dell’io occorre chiedersi, infatti, che cos’è ciò al cui cospetto esso è un io (o un sé). Il peccato in cui la disperazione qui si trasforma consiste dunque nel farsi distanti da Dio, giacché il peccato – come dice Kierkegaard (cfr. capitolo terzo, pp. 97 sgg.) – non è una negazione ma una posizione.
18) L’uomo si fa scivolare di mano Dio – invertendo il verso di quell’immagine che Kierkegaard riprende, con tutta probabilità, dalla Confessione Augustana, opera di Melantone del 1530 – sia quando non vuole disperatamente essere se stesso, sia quando vuole disperatamente esserlo. E la disperazione dice che si è nel peccato, e questo a sua volta ci dice che c’è un rapporto compromesso tra l’uomo e chi l’ha posto come rapporto. La colpevolezza di tale rapporto compromesso non può essere peraltro addossata a chi ha posto il rapporto, ma è colpevole chi sceglie di non rapportarsi con chi l’ha posto come rapporto. Solo l’uomo, quindi, è colpevole, e lo è di fronte a Dio. Nondimeno, vi sono due gradi distinti di colpevolezza (o di disperazione qualificata). In quanto rapporto compromesso con chi l’ha posto come rapporto, vi è il peccato di chi ignora Dio, ossia di chi ignora cosa sia il peccato, di chi ignora il rapporto stesso. Ma c’è poi anche il peccato di chi non ignora cos’è il peccato – giacché conosce Dio – ma che insiste ostinatamente nel peccato. Nel primo caso abbiamo a che fare con l’uomo naturale, con il pagano, mentre nel secondo a peccare è essenzialmente il cristiano. Il peccatore cristiano è quindi il più disperato tra i disperati, è colui che dopo aver saputo, per mezzo di una rivelazione divina, che cos’è il peccato, davanti a Dio disperatamente non vuol essere se stesso o, disperatamente, vuol essere se stesso. La distanza scellerata che il disperato cristiano pone tra sé e Dio, la posizione disperante di fronte a questo, misura la sua incapacità di accogliere la rivelazione tramite la fede. Se la possibilità dello scandalo testimonia la distanza infinita che corre tra Dio e l’uomo, il peccato dello scandalo fissa, disperatamente, il posizionamento di tale distanza. Infatti, la disperazione più profonda, la malattia per la morte, piega il cristiano che – avendo conosciuto Cristo – non sa però resistere allo scandalo del Dio-uomo. Di conseguenza disperato è l’uomo che china la testa e che abbandona debolmente la mano quando Cristo gli tende la propria.
19) Il peccato è essere disperati “davanti a Dio” (giacché ogni singolo uomo esiste davanti a Dio), e in questa definizione è contenuta la possibilità stessa dello scandalo, del paradosso, dell’assurdo, ovvero di tutto ciò che contrassegna in positivo il Cristianesimo a fronte di ogni speculazione. Qui entra in gioco, naturalmente, il momento della fede. Il salto nella fede si compie sempre in solitudine, quando cioè tacciono i rumori del mondo. Il bisogno di solitudine è un segno di spiritualità, mentre gli uomini che non fanno altro che chiacchierare non sentono questo tipo di richiamo. Mentre, infatti, la socievolezza si nutre di buon senso, si rafforza nella gioia di trovarsi sempre d’accordo, la solitudine e il silenzio sono l’atmosfera in cui avviene il dialogo tra l’uomo e Dio. Come insinua Kierkegaard (cfr. p. 88), la Summa summarum di ogni sapienza umana è costituita da quella regola aurea (all’“aureo”, riferimento alle Odi di Orazio) che si richiama al ne quid nimis (nulla di troppo), ovvero a un equilibrio pavido (né troppo poco né troppo) in cui si ha sempre paura di essersi spinti troppo oltre. Viceversa, nel silenzio della solitudine ci si lancia nell’assurdo, oltre cioè la sapienza filistea del “nulla di troppo”, e ha inizio così l’avventura e lo scandalo della fede. Kierkegaard accentua sotto questo profilo l’aspetto paradossale del cristianesimo, il suo essere appunto religione della croce, dello scandalo (skandalon: ostacolo, insidia), della contraddizione, per opporre questo cristianesimo eroico e sofferente alla religione meschina e gretta della sua epoca. A tal riguardo, a proposito del rapporto tra cristianesimo e scandalo, e circa il fatto che la possibilità dello scandalo sia per così dire implicita nella definizione cristiana del peccato, si veda ciò Kierkegaard dice a p. 92 sg.
20) Per Kierkegaard, l’abisso tra la dispersione della vita quotidiana e la concentrazione spirituale, che richiede un atteggiamento davvero religioso, si approfondisce sempre di più. Non è un caso che la stessa definizione di peccato che lui promuove – l’unica conforme alla Scrittura (cfr. p. 83) – sia tutta nel segno della spiritualità, giacché il peccato è una determinazione dello spirito. L’originalità della riflessione di Kierkegaard sta proprio in questa sua capacità di legare i temi dell’angoscia e della disperazione a quelli della colpa, del peccato e della possibile redenzione (o liberazione) dal peccato stesso. Per Kierkegaard, tutte le possibili forme di malvagità e di disperazione dipendono da un rapporto sbagliato dell’uomo con se stesso. Il peccato è dunque l’esito del tentativo disperato di porre fine all’angoscia che l’uomo ha di sé e della sua libertà, ovvero al gioco tormentoso delle possibilità che contraddistingue la sua condizione. Ogni volta che l’uomo si risveglia e prende coscienza di sé, scopre il suo essere non-necessario, la sua contingenza, e il problema diviene quello di sopportare questa sua condizione. La vergogna che egli prova per la sua conclamata nullità si trasforma, paradossalmente, nel voler diventare Dio – una volontà che produce necessariamente una condizione conflittuale, in cui l’individuo tende a oscillare tra svalutazione di sé e sopravalutazione di sé. Se, dunque, è l’angoscia che spinge l’uomo ad allontanarsi da Dio e a fondarsi su di sé, tale condizione di distacco da Dio è per Kierkegaard liberamente voluta dall’individuo, e come tale può essere legittimamente definita una condizione di peccato. Il termine peccato va quindi inteso – nell’accezione kierkegaardiana, ma anche biblica – non in senso etico, e cioè come mancanza rispetto alla legge morale universale, bensì in quello religoso-esistenziale di atteggiamento di vita fondato volontariamente sul distacco da Dio. Insomma, l’origine del male sta nel distacco da Dio indotto dall’angoscia, e questo distacco da Dio è il peccato per antonomasia. 
21) Questa condizione di peccato, indotta dall’angoscia, non si limita però a produrre altra angoscia, accrescendola a dismisura, ma è anche all’origine della disperazione, che non è uno stato d’animo accidentale e passeggero, ma è un modo errato di elaborare la propria angoscia, una forma distorta, unilaterale, decurtata dell’esistenza, che consegue da una presa di posizione sbagliata, da un rapporto sbagliato con sé e con l’altro che ha posto il rapporto, per cui ad ogni passo si riconferma che l’uomo è la causa della sua disperazione. Da tutto ciò scaturisce quello che K. afferma basandosi, tra l’altro, sull’Epistola ai Romani (cfr. p. 84), e cioè che dal punto di vista cristiano la vera alternativa non è quella tra il peccato e la virtù, ma tra il peccato e la fede, tra la fede e la disperazione, dal momento che l’equilibrio interiore non lo si può raggiungere per via etica. Il rifugiarsi nell’etico costituirebbe infatti una via di fuga dall’angoscia, dal momento che per diventare un singolo, l’individuo deve rinunciare a identificarsi con la massa e a disperdersi in essa. Ciò può avvenire invece solo in forza della fede, che mettendo l’io in rapporto con un Tu assoluto (con l’altro), lo riporta al suo essere autenticamente se stesso, facendogli riconoscere il suo peccato, consistente in un’avversione a Dio (in un girarsi dall’altra parte), alla quale si può rimediare tramite una conversione al proprio stato di creatura.
22) Il cristianesimo è però soprattutto scandalo (cfr. pp. 84 sgg.). Ci si scandalizza cioè per il cristianesimo, e questo avviene perché esso è un atteggiamento religioso un po’ troppo cupo e oscuro, fondamentalmente troppo rigido, ma soprattutto perché esso mira troppo in alto, dato che non ha scelto come misura l’uomo, ma vuol fare dell’uomo qualcosa di così straordinario da superare ogni mente umana. E Kierkegaard osserva, al riguardo, che è stato miope pensare di difendere il cristianesimo eliminando lo scandalo, dato che è lo stesso insegnamento di Cristo che ha attirato l’attenzione su di esso, mettendoci in guardia nei suoi confronti e considerandolo un elemento eternamente essenziale del cristianesimo, per cui la pretesa di difendere il cristianesimo a prescindere dallo scandalo rivela una scarsa conoscenza dell’animo umano e declassa la religione cristiana a fenomeno di fatto meschino. Ma per comprendere tale aspetto, occorre fare un passo indietro. Quando Kierkegaard parla di una possibilità che amplia l’orizzonte chiuso della necessità, non c’interessa tanto la polemica che egli conduce contro il mondo umanistico del sapere o a favore di una fede sopramondana, quanto la denuncia – che Kierkegaard ha avuto il merito di condurre – del carattere limitato di una cultura che ha relegato nel mondo dell’edificazione tutto ciò che non rientrava nei propri quadri o ciò che essa non aveva la forza o la capacità di illuminare criticamente. Viceversa, insistere sul carattere di problematicità e di pluridimensionalità dell’esperienza umana esprime l’insofferenza per quelle posizioni dogmatiche che eliminano i problemi senza averli neppure affrontati. La possibilità per Kierkegaard è una formula polemica (oltre che la più pesante delle categorie) quando invita l’uomo a “perdere l’intelletto”, ma si trasforma in un principio critico quando la si interpreta come una sollecitazione a perdere i limiti dell’intelletto, a disperderne i dogmi, per scoprire nuovi orizzonti e nuove dimensioni: quasi cioè un invito a ristabilire una circolazione tra pensiero e vita, a uscire dall’incoerenza di un pensiero a cui non corrisponde, né può corrispondere una realtà di vita. Ma ciò che gli uomini temono meno di tutto – mostrando di non atteggiarsi con ciò in maniera socratica – è l’essere in errore, è “l’errare” (p. 47). Al riguardo, K. fa la parodia del pensatore classico (dietro al quale si nasconde ovviamente l’idealista hegeliano), dicendo che “un pensatore innalza una costruzione immensa, un sistema, un sistema che abbraccia l’intera esistenza e l’intera storia mondiale, e via di seguito; ma se si osserva la sua vita personale, si scopre con stupore qualcosa di orrendo e di ridicolo: che egli stesso non abita di persona questo in questo immenso palazzo che s’inarca alto nel cielo, ma in un fienile lì accanto, o nel canile o al massimo nell’appartamento del portinaio. Se ci si permettesse, pur con una sola parola, di attirare l’attenzione su questa contraddizione, egli si offenderebbe. Perché non teme di errare, se solo gli riesce di finire il sistema…grazie a un errore” (p. 47). 
23) Questa satira del pensatore che costruisce il sistema non vale però solo contro Hegel, ma contro ogni forma di speculazione che esclude dal proprio ambito la problematicità del possibile. Come arma contro la speculazione Kierkegaard si serve in chiave destabilizzante del cristianesimo, interpretato come paradosso, come scandalo, come assurdo. Come abbiamo visto, per Kierkegaard il cristianesimo scandalizza l’uomo perché rappresenta una posizione spirituale troppo alta, che vuol fare dell’uomo qualcosa che non può essere accolto dalla mente umana. Del resto, “l’angustia di cuore dell’uomo naturale non può concedere a se stesso di godere dello straordinario che Dio gli ha destinato, dunque si scandalizza” (p. 87). Per il cristianesimo, il singolo esiste sempre davanti a Dio, Ed è per amore di quest’uomo che Dio è venuto nel mondo (si è fatto Cristo), supplicandolo quasi di accettare l’amore che gli viene offerto. Ma ciò – come dice Kierkegaard – fa quasi uscire di senno, soprattutto se non si possiede quel coraggio umile che osa credere in ciò. Se questo coraggio manca, se l’uomo non è indotto cioè “a umiliarsi sotto lo straordinario adorandolo” (p. 87), si determina allora lo scandalo, che è “ammirazione infelice”, ovvero è una forma d’invidia che l’uomo rivolge contro se stesso. L’invidia è infatti un’ammirazione nascosta. Ma mentre l’ammirazione felice consiste nel rinunciare a se stessi, l’invidia consiste in un’ammirazione di sé, ma del tutto infelice, essendo il risultato della scelta di invidiare ciò che si ammira. Ecco, quindi, che il rapporto uomo-Dio è riconducibile, sotto il profilo dello scandalo indotto dal cristianesimo, a un rapporto di ammirazione-invidia. Chi si limita a difendere il cristianesimo, è segno che non vi ha mai creduto; viceversa, l’entusiasmo della fede decreta il trionfo del credente.
24) Questa è tra l’altro la Scuola del Cristianesimo, l’altra opera di natura edificante, che riprende in qualche misura il tema delle Briciole di filosofia e della Postilla, e che è stata scritta da Kierkegaard con lo pseudonimo di Anti-Climacus, e dunque con la stessa maschera della Malattia per la morte. L’imitazione di Cristo costituisce la vera scuola di cristianesimo, ma di un Cristo paradossale e per certi versi ambiguo, che può essere imitato solo nella sua miseria, nella sua sofferenza, nella sua morte. Ma in che cosa consiste davvero questa scuola? Significa, secondo Kierkegaard, accettare per fede ciò che, senza la fede, è impossibilità, scandalo, assurdo. Significa purificare le categorie religiose da ogni contaminazione, a prescindere che si possano poi raggiungere le vette della fede. Il fedele, cioè, non si scandalizza (malgrado non manchino certo i motivi di scandalo), per cui la differenza tra lui e l’incredulo non consiste nel riconoscimento obiettivo e storico che la realtà di Cristo è paradossale. Che il divino scenda nel mondo sotto la veste miserabile di servo, che patisca le offese più umilianti, lo scherno, le percosse, gli sputi, la croce dei malfattori, è certo motivo di scandalo. Lo stesso fedele, che crede alla divinità del Cristo, trova assurdo e scandaloso che la maestà di Dio finisca nell’abiezione e nell’infamia; ma egli ricorre alle categorie della fede, che non sono quelle della ragionevolezza e passa indenne attraverso il paradosso: ovvero, non si scandalizza. D’altra parte, lo scandalo si presenta anche in forma capovolta: e cioè che un uomo, nato da una donna, figlio di un falegname, cresciuto in mezzo a un popolo come tutti gli altri uomini, si proclami figlio di Dio e qualifichi come divini se stesso e il suo operato. Nella Scuola del Cristianesimo si analizza a fondo la fenomenologia dello scandalo, in particolare nella seconda parte intitolata: “Beato chi non si scandalizza di me”. Al paradosso, allo scandalo, all’assurdo non si sfugge: a questo bivio giungono fedeli e increduli e ognuno fa la propria scelta, assumendosi la responsabilità e il rischio che deriva da essa. La scelta dell’incredulo lo riconcilia con la ragione, con la tradizione e le leggi, con il mondo finito, con l’ordine costituito dello stato o della chiesa. Viceversa, la scelta del fedele è un atto d’insubordinazione individuale, che spezza un universo chiuso e consolidato nella sua struttura. E nella storia, gli uomini hanno la tendenza a divinizzare l’ordine costituito e a considerare sovversivo ed eretico ogni atteggiamento individuale di indipendenza, di critica o di lotta. 
25) Di qui, la critica che Kierkegaard sviluppa nel secondo capitolo della seconda parte in ordine alla concezione socratica del peccato, secondo la quale si peccherebbe infatti solo per ignoranza, ossia per difetto di conoscenza. A prescindere dal fatto che la definizione socratica presenta per Kierkegaard il limite di non chiarire in modo determinato cosa s’intenda per ignoranza, e soprattutto quale ne sia l’origine, la questione affrontata è però un’altra e riguarda il tentativo di precisare, in ordine al peccato, il rapporto tra conoscenza e volontà. Per Kierkegaard speculazione e democrazia rappresentano una pericolosa alleanza all’insegna di un umanismo in cui egli ravvisa il vero nemico dello spirito. Egli opera quindi una sorta di sconfessione dell’intelletto, della scienza, e di quello che in definitiva potremmo chiamare l’uomo euclideo. Per lui, del resto, l’uomo non può comprendere il “contenuto cristiano” (p. 99), dato che si tratta di un fenomeno che desta scandalo. Il cristianesimo dev’essere creduto. La comprensione contiene infatti la possibilità dell’uomo riguardo all’umano, ma il rapporto dell’uomo col divino sta nella fede. Il cristianesimo è dunque, per Kierkegaard, qualcosa che gli uomini non possono capire, un messaggio paradossale che non promette né benefici materiali, né pace dello spirito. In Kierkegaard si è determinata quindi una rottura col piano dell’umanità quotidiana e il cristianesimo è una realtà che la comprensione umana non penetra né illumina. Per questo bisogna lasciare il principio cristiano alla fede, ovvero lasciar decidere “alla fede se uno voglia credere o no” (p. 99). Tutti i tentativi di capire sono d’altronde contraddittori e voler capire ciò che non può essere capito è un controsenso insolente (cfr. p. 99 sg.).
26) L’insufficienza della concezione socratica del peccato, e della sua stessa definizione, consiste nell’averlo legato a filo doppio alla conoscenza. Socrate è il fondatore dell’etica e la sua impostazione è di tipo intellettualistico e concettuale. Egli inizia dall’ignoranza, anzi si può dire che miri all’ignoranza (al sapere di non sapere), ma proprio per questo – non essendo un pensatore etico-religioso (e ancor meno dogmatico) – resta a distanza dall’idea cristiana del peccato. Se infatti il peccato si configurasse come uno stato d’ignoranza, il peccato stesso scomparirebbe, non esisterebbe più, dal momento che per Socrate non si può dare che un uomo, conoscendo il bene, faccia il male, o che addirittura sapendo che una cosa è male, si accinga comunque a farla. Viceversa, per il cristianesimo ciò appartiene esattamente all’ordine delle cose, e costituisce la base del concetto cristiano di peccato, che lo differenzia qualitativamente dal paganesimo (che secondo Kierkegaard non sa infatti cosa sia il peccato). La determinazione del peccato fornitaci da Socrate manca del richiamo decisivo alla volontà e all’ostinazione. Del resto, la mentalità greca era troppo intellettuale, troppo felice, troppo estetica, troppo ironica per comprendere che un uomo, deliberatamente, possa tralasciare di fare il bene o, per l’appunto, conoscendolo, si assuma volontariamente la responsabilità di fare il male. Con la solita capacità dialettica Kierkegaard s’incarica di mostrare come in base alla definizione socratica il peccato scomparirebbe e tale concezione si caricherebbe di effetti comici. Infatti, per essa, il fatto che uno non faccia il bene è da attribuirsi alla circostanza che non lo ha compreso, o che al massimo s’illude di averlo fatto. Se l’avesse compreso, costui si sarebbe infatti immediatamente disposto a farlo. Ma l’errore sta proprio nella mancanza di determinazione dialettica nel passaggio tra comprendere e fare, laddove il cristianesimo inizia proprio da tale passaggio, giungendo attraverso ciò a mostrare come il peccato si nutra di volontà e a porre quindi in rilievo il concetto di ostinazione. Il peccato s’installa nello iato tra comprendere e fare, che sfugge del tutto alla spiegazione naturale e alla dialettica della filosofia hegeliana per la quale il passaggio dal concetto al reale, dalla speculazione all’azione è in qualche modo necessitato. D’altronde per Kierkegaard l’ignoranza di cui anche Socrate parla è qualcosa di acquisito e, per così dire, di meritato, se è vero – come Kierkegaard sostiene (cfr. p. 90) – che essa si lega a un’attività, presente al fondo di noi, con la quale operiamo in modo chiaramente cosciente per oscurare la nostra conoscenza – il che dimostra, appunto, che il peccato non consiste nella conoscenza, ma nella volontà. Per il pensiero greco (ma non per Socrate), non c’era alcuna difficoltà nel passare dalla comprensione intellettuale all’agire, e in fondo anche la filosofia moderna conserva il primato del razionalismo, quanto meno nella sua declinazione cartesiana. Ma nel mondo della realtà, dove Kierkegaard incentra la figura del singolo, questo tipo di passaggio dal comprendere al fare è assai meno lineare, per cui nella vita spirituale “non c’è uno stato di quiete” (p. 95) – e se una persona non fa il bene nel momento stesso in cui lo ha conosciuto, significa che il fuoco della conoscenza in lui si sta affievolendo, e che la volontà sta incominciando a scavare, determinando i primi effetti di un oscuramento della conoscenza che si realizzerà gradualmente.
27) La visione cristiana oltrepassa quindi il mero insegnamento socratico, che sembra (al pari di tutta la grecità) non avere il coraggio sufficiente per dire che un uomo possa fare consapevolmente ciò che non è giusto, ovvero che conoscendo il bene non possa scegliere di fare il male. Il Cristianesimo va oltre Socrate, nel momento in cui richiede sia necessaria una rivelazione divina per chiarire l’essenza del peccato e per gettare nuova luce sulla disperazione. Per Socrate chi non fa il bene, è perché non l’ha compreso, mentre il cristianesimo risale alle spalle di tale pensiero, affermando che in tale evenienza forse non l’ha voluto comprendere, e se è così è perché di fatto non l’ha voluto. La dottrina cristiana del peccato non tende quindi a edulcorare quella nozione di peccato, la cui rivelazione è in funzione della gloria di Dio, così come lo è la disperazione in quanto malattia per la morte. Per questo essa insegna che un uomo può fare il male anche se comprende il bene, o comunque tralasciare di farlo pur comprendendolo, In tal senso, la dottrina cristiana formula un’accusa nei confronti dell’uomo: essa è “pura accusa contro l’uomo […] che il divino come pubblico ministero si permette di depositare contro l’uomo” (p. 96). Da tutto ciò si evince che il peccato è fortemente radicato nella volontà, e non nella conoscenza, e che per mostrarne l’essenza c’è bisogno di una rivelazione divina che fa tutt’uno con la possibilità dello scandalo. Da qui l’esigenza, dal punto di vista cristiano, di completare la definizione del peccato data in precedenza, inserendo a fianco del “davanti a Dio” una clausola che sottolinea come l’uomo abbia saputo cos’è il peccato tramite una rivelazione divina (cfr. p. 97).
28) La tesi che Kierkegaard sostiene si oppone tra l’altro, in linea con la dogmatica classica, a quella definizione del peccato – in chiave panteistica (Toland 1705, Dio come natura del mondo) – per la quale il peccato rappresentava qualcosa di negativo, riducendolo quindi a debolezza, a sensualità, a finitezza, a ignoranza. Ma se così fosse, il cristianesimo risulterebbe insostenibile, laddove sono invece paradosso, fede e dogma a formare il baluardo più consistente nei confronti di ogni paganesimo. Il peccato non è negazione, così come il pentimento non è negazione della negazione (togliere cioè, hegelianamente, il negativo). Ma a parte ciò, il peccato – nella sua positività – non può essere compreso concettualmente, ma solo creduto in ragione del suo rivelarsi paradossale. Il fatto però che il peccato sia una determinazione positiva, non significa che sia impossibile toglierlo di mezzo: anzi, è proprio il cristianesimo – unendo la sua concezione del peccato allo scandalo e all’assurdo – a stabilire le condizioni più radicali per la sua eliminazione. Come Socrate, Kierkegaard non ha un sapere già formato da diffondere, ma esercita la sua maieutica nel tentativo di rianimare quel cristianesimo che giaceva assopito nel grembo dell’epoca ne quale egli viveva. Il problema di cui K. si fa carico è la difesa del principio d’interiorità, contro una sua dissoluzione in uno spirito oggettivo, ovvero l’affermazione della persona come identità di pensiero e vita e la rottura della sintesi opportunistica che si era all’epoca determinata, tra spirito borghese e spirito cristiano. Il cristianesimo non è, per Kierkegaard, obiettivamente comunicabile, in quanto non fa appello alla ragione dell’uomo. Oltre che vissuto soggettivamente, esso può essere però trascritto nel linguaggio della poesia. Tale trascrizione indiretta e per molti versi immaginifica non è una comunicazione deformata, ma almeno ha il vantaggio di conoscere la propria imperfezione, di non presumere di essere il vero cristianesimo o, addirittura, un’edizione riveduta e corretta del cristianesimo, come presume di essere il pensiero speculativo. Kierkegaard ammonisce di continuo di non potersi dire cristiano, che il suo è un cristianesimo poetico e che il cristianesimo è un sentiero così angusto e impervio che nemmeno lui – che per tutta la vita ha lottato per affermarlo – è capace di percorrerlo. Questa vetta religiosa, che nessuno sembra capace di attingere, è l’idea limite della religiosità, e cioè la religiosità nella sua purezza categoriale, nella sua autonomia.
29) Contro l’ottimismo umanistico della cultura liberale, contro la comicità del pensiero sistematico che si autodefinisce teocentrico, che proietta l’assoluto nel relativo, il divino nell’umano, creando un’eccessiva familiarità tra l’uomo e Dio, Kierkegaard afferma l’assoluto paradosso, il paradosso dell’abisso qualitativo esistente tra le sfere dell’uomo e di Dio. Il suo insistere sulla follia, sulla singolarità, sull’eccezionalità di essere un cristiano, è la spina che Kierkegaard vorrebbe mettere nella carne dell’epoca in cui viveva. Fin che vive nel tempo, l’uomo è un esistente e non può astrarre dalla propria esistenzialità che lo immerge nei limiti del mondo finito e storicamente condizionato. Il paradosso è invece la misteriosa convivenza del tempo e dell’eterno o, meglio, la disponibilità del tempo per l’eterno: ma questo rapporto è appunto l’assurdo che non può essere trascritto in termini speculativi. Ogni tentativo di spiegazione razionale dissolve, col paradosso, il cristianesimo stesso. Il cristianesimo borghese e speculativo è, nel giudizio di Kierkegaard, ritorno al paganesimo, confusione panteista, mollezza edonistica, amore conformista del quieto vivere. Il cristianesimo è invece scomodo, è timore e tremore, perdita dell’intelletto, disposizione al martirio, testimonianza della propria fede contro il mondo. Il malinteso nei rapporti tra speculazione e cristianesimo si scopre con l’incompatibilità tra sistema ed esistenza. Al riguardo, Kierkegaard si sente un po’ come un cavaliere della fede, mandato sulla terra per lottare contro la speculazione e gli abbagli del mondo finito. Egli è chiamato a scoprire il malinteso della connivenza tra speculazione e cristianesimo, a ristabilire la distanza infinita tra uomo e Dio. Con Dio non vi sono né vi possono essere rapporti immediati. In primo luogo, occorre quindi rompere ogni immediatezza pagana nel rapporto in questione, e tale rottura costituisce il primo atto dell’interiorità, la prima pietra per costruire l’edificio della propria religiosità. Dio, peraltro, non si rivela all’improvviso, come qualcosa che impressioni la fantasia o richiami l’attenzione in maniera clamorosa. Nel silenzio, nell’interiorità, nella faticosa dialettica dell’intimità che conquista se stessa negandosi al mondo, Dio scende nell’anima, che non è mai però sicura di possederlo. Tra maestro e discepolo – come sapeva Socrate, maestro di etica e d’interiorità – non esiste un rapporto diretto. Ogni comunicazione diretta, ogni possesso immediato della verità è malinteso, perché rende immanente la verità nell’uomo e lo illude di essere il depositario della verità, l’illuminato a cui Dio si è rivelato. L’unica conoscenza che abbiamo di Dio è negativa, intraducibile in parole, incomunicabile agli altri, misteriosamente presente nell’intimità dell’esistenza. 
30) La fede non ha quindi nulla a che vedere con l’estetica, con l’etica, con la speculazione. La fede è una sfera a sé, che non ammette malintesi o mistificazioni di sorta. Nella fede tutto è incertezza, rischio, sconvolgimento dei criteri di validità del mondo oggettivo. Solo nella dimensione della fede si sfaldano, per Kierkegaard, le strutture umanistiche della logica e della moralità obiettiva. Solo il rapporto con Dio rende precario l’universo costruito dall’uomo. Se si toglie il rapporto assoluto e paradossale con Dio, se l’eterno come potere supremo e indecifrabile per l’uomo, come possibilità di sconvolgere qualsiasi calcolo umano non esistesse, avrebbero ragione i “professori dell’obiettività” e non vi sarebbe alcuna possibilità di ricorrere contro le sentenze del tribunale della ragione umana. In un mondo che la logica (e con essa la scienza) vuol ridurre a necessità, il possibile irrompe quasi beffardo, in maniera ironica o tragica. Contro lo spirito del sistema, la verità per Kierkegaard consiste nell’audacia di scegliere ciò che obiettivamente è incerto con la passione dell’infinità. Del resto, senza rischio non v’è fede, e la fede è appunto la contraddizione tra l’infinita passione dell’interiorità e l’incertezza obiettiva. Se possiamo cogliere Dio in maniera obiettiva, significa che non crediamo. Ma la fede si paga, e si paga a caro prezzo col venir meno di ogni sicurezza obiettiva. L’audacia consiste dunque nel salto in quella zona inquietante che è l’assurdo. La speculazione, da parte sua, tenta di rendere tale zona sempre meno inquietante, sempre meno assurda, volendo insieme aver fede e mettersi al sicuro. Ma qui comincia appunto la commedia. Per mettersi al sicuro (o per sentirsi al sicuro) si tenta, con approssimazioni e considerazioni obiettive, di trasformare l’assurdo nel probabile, nel sempre più probabile, in un probabile che quasi confina con la certezza. Ma con ciò la fede se n’è andata, confondendosi col suo opposto, il sapere. La fede è invece tenere distinte le categorie sul piano logico e riconoscere che la logica umana deve saltare nel paradosso e nell’assurdo per accettare il mistero dell’esistenza. E l’esistere è essere nel tempo come creatura finita e colpevole, ma al contempo essere misteriosamente aperti a una realtà eterna e infinita, incommensurabile con noi. Il paradosso naturalmente è Cristo, con la sua assurda vicenda mondana, il paradosso è che la verità eterna è esistita nel tempo. Se prima il soggetto trovava nel peccato l’impedimento a riconquistare se stesso per l’eternità, ora non ha più bisogno di preoccuparsi, giacché ora la verità eterna sta dinanzi al soggetto, per cui l’individuo può appropriarsene nell’esistenza.
31) Al cristianesimo ci si avvicina, dunque, in un atto di fede, che è anche un atto d’amore, ma allo stesso modo com’è ridicolo chiedere a un innamorato la dimostrazione logica del suo amore (p. 104), così è ridicolo che i poeti facciano l’apologia del cristianesimo ed elenchino le ragioni per cui dev’essere creduto. Il concetto non riesce infatti a penetrare la posizione etica più profonda del cristianesimo: e cioè lo stato di peccato. Il peccato rinnega il concetto, e questo dovrebbe ammetterlo la speculazione stessa, che però non si accorge che nel rapporto col peccato c’entra l’etica che giudica sempre all’inverso della speculazione e ad ogni passo si muove nella direzione opposta, perché l’etica non astrae dalla realtà, ma si approfondisce nella realtà, operando essenzialmente con la categoria trascurata e disprezzata dalla speculazione: vale a dire, la singolarità (cfr. p. 120). Il peccato è infatti una “determinazione del singolo” (p. 121). Come Kierkegaard dice in maniera immaginifica, il cristianesimo si fa il segno di croce davanti alla speculazione, giacché la serietà del peccato sta nella sua realtà, nel singolo: si tratta cioè di me o di te; viceversa, nella speculazione si deve prescindere dal singolo, il che vuol dire che dal punto di vista speculativo si può parlare di peccato solo con leggerezza. La dialettica del peccato è diametralmente opposta a quella della speculazione. E qui interviene appunto il cristianesimo, con la dottrina del peccato e perciò col singolo (cfr. p. 121). 
32) La via d’uscita dalla disperazione – che s’identifica col peccato – consiste nella decisione eterna del credere: con questa decisione l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto. Il singolo, il sé davanti a Dio; è questa la conquista dell’infinità che si raggiunge solo attraverso la disperazione. La disperazione è un fatto vissuto nella coscienza, cresce qualitativamente con il crescere di questa. Quanto più il singolo è cosciente della propria disperazione, tanto più è vicino a Dio e insieme però consapevole della propria lontananza da esso. Ma alla soglia della decisione infinita, c’è il passaggio attraverso l’accettazione del paradosso, di ciò che precisamente ripugna al pensiero. Per Kierkegaard, l’idea della filosofia è la mediazione, mentre quella del cristianesimo è il paradosso. Cristo stesso è l’eterno venuto nel tempo, l’istante che è pienezza del tempo. Ma che l’eternità si faccia tempo in qualcosa di esistente è una contraddizione che il pensiero non può accettare. La non accettazione del paradosso è lo scandalo: la vera ragione per cui l’uomo si scandalizza del cristianesimo è che esso è troppo alto. L’uomo, da solo, non può nulla: non può che essere peccato e disperazione infinita, se Dio non si muove per amore a colmare l’abisso. Dio si abbassa in Cristo verso l’uomo, diviene maestro, redentore, riconciliatore; viene in incognito e viene come servo; è dono gratuito di salvezza e insieme possibilità dello scandalo. Scandalizzarsi è non accettare l’assurdo che il peccato dell’uomo possa interessare Dio. Scandalizzarsi è non accettare il rischio, l’incertezza della fede, che nessuna prova storica può togliere. La cristianità, riducendo il cristianesimo a dottrina, la filosofia, pretendendo di comprendere tale dottrina, hanno voluto abolire la possibilità dello scandalo, facendo del cristianesimo un paganesimo di ordine sentimentale. Cristo non è però un momento di mediazione, ma un segno di contraddizione, un segno che risveglia, attraverso la contraddizione che lui stesso manifesta, l’attività di chi lo riceve in direzione della verità.
33) La fenomenologia del potenziamento della disperazione (e quindi del peccato) è articolata in tre figure: a) la prima riguarda il chiudersi in sé del peccato, assicurandosi che il bene non possa infiltrarsi da nessuna parte (cfr. pp. 111 sgg.); b) la seconda riguarda il disperare del perdono: meglio, lo scandalizzarsi di quel perdono di cui Cristo è portatore (scandalizzarsi per la la cosiddetta “remissione dei peccati”, cfr. pp. 115 sgg.); la terza riguarda “il salire dalla difensiva all’offensiva”: e cioè il peccato di abbandonare il Cristianesimo (respingerne il contenuto fatto di alterità e peccato) in modo positivo e affermativo (modo ponendo), dichiarandolo appunto una falsità (cfr. pp. 126 sgg.). Ciascuna di queste forme si relazione a uno dei momenti della Trinità. Questa tripartizione s’incrocia con la distinzione più volte segnalata tra il voler e il non voler essere se stesso. La seconda parte dell’opera è sotto la determinazione del voler essere disperatamente se stessi: il che significa essere se stesso nella determinazione dell’essere peccatore, e dunque se stesso nella determinazione della propria imperfezione. In questo senso il crescere della disperazione nelle diverse figure del peccato raffigura un sé disperato che diventa “sempre più decisamente se stesso” (p. 126), giungendo a essere quasi perfetto nella disperazione. Il primo stadio, quello del disperare per il proprio peccato, può essere posto sotto il segno del non voler essere se stesso. Il sé non vuole avere nulla a che fare col bene, per cui si assicura contro ogni possibilità di esserne contaminato e contro ogni pentimento possibile. Il sé non vuole essere se stesso, (anche) perché ha perduto se stesso. Nella seconda figura, ci si dispera per il perdono, e in essa sono presenti entrambe le determinazioni. Il sé si ostina a non voler essere se stesso, ovvero ad essere peccatore, ma – non riconoscendosi come tale – vuol fare a meno del perdono (e della conseguente remissione). Infine, nell’ultima forma, quella in cui si abbandona il cristianesimo, decretandone la falsità e la menzogna, si giunge all’apoteosi del voler essere sé, per attaccare e in qualche modo distruggere l’alterità. Lo scandalo della Croce viene cancellato, oppure Cristo diviene addirittura un’invenzione del diavolo, per cui non c’è bisogno di un uomo nuovo, di alcun paradosso, giacché tutto può essere compreso e giustificato, e l’alterità – se dovesse persistere a volersi dare nella forma della rivelazione paradossale – si qualificherebbe senz’altro come menzogna.