Le Università degli studenti

La storia dell'Università di Bologna nel XIII secolo.

La Pace di Costanza (1183), che poneva fine agli scontri con l’imperatore Federico Barbarossa, permise ai Comuni padani di ottenere maggiori poteri e autonomie sui loro territori.

Per quanto riguarda Bologna, l’evento comportò strategiche attenzioni da parte dell’organismo politico alle vicende universitarie e una serie di legislazioni volte a favorire e tutelare gli studenti, in gran parte responsabili del benessere cittadino.

Anche questi ultimi si organizzarono in modi più stabili, ottenendo un peso politico sempre più importante.

Arca Giovanni da LegnanoDalle loro prime organizzazioni informali, nacquero associazioni di mutua previdenza dette Nationes, indispensabili per i tanti studenti stranieri bisognosi di ritrovare in città un nucleo di connazionali nel quale sentirsi tutelati e protetti.

In quegli anni Bologna stava estendendo i suoi confini, con nuove mura e nuove leggi. Stava divenendo una sede produttiva di alto livello e un crocevia internazionale di scambi economici e culturali, animata, anche grazie allo Studio, da una frizzante e straordinaria vitalità.

In questa stagione di inizio Duecento le Nationes acquisirono ancora più potere, concentrando i loro apparati in cooperative sovrannazionali: le Universitates, capaci di darsi statuti ufficiali e di avere enorme peso nelle decisioni cittadine.

Esse trovarono nei grandi conventi e monasteri cittadini i luoghi idonei dove organizzare le loro assemblee: quella dei citramontani, cioè degli italiani non bolognesi (lombardi, del Nord, toschi, del Centro, romani, del Sud) in San Domenico, e quella degli ultramontani, gli stranieri (francesi, inglesi, spagnoli, tedeschi, polacchi e ungheresi), in San Procolo.

Entrambe le Università eleggevano i loro rettori tra i migliori studenti, sostenuti dai rappresentanti della varie Nationes e da un più allargato consesso di scolari. Queste figure rispecchiavano la natura studentesca dell’organizzazione universitaria e ne rappresentavano i valori nelle sedute cittadine, ne amministravano il corretto funzionamento interno e ne presiedevano l’apparato giuridico.

La vita universitaria veniva così regolamentata attraverso norme e statuti ufficiali, che nei primi decenni non erano stati minimamente pensati, visto il carattere puramente privato e autonomo dei corsi e delle lezioni.

Queste ultime iniziarono ad essere organizzate in un numero fisso di ore e dall’obbligo di frequenza. Si svolgevano attraverso la Lectura, ossia la lettura e il commento di testi prescelti, approfondita e integrata ogni settimana dalle Repetitiones a cui partecipavano attivamente anche gli allievi. Si stimolava e verificava, infine, l’assimilazione delle nozioni per mezzo delle Quaestiones publicae disputae, durante le quali gli studenti potevano dare prova delle loro abilità con grande libertà dialettica.

Non tutti, ancora, anelavano a completare il percorso intrapreso, poiché il titolo di dottore, che veniva inizialmente rilasciato in maniera informale dai singoli docenti, era indispensabile solo a coloro che volevano a loro volta insegnare. Il che durò fino a quando le Università degli studenti potettero autogestirsi.

Il Duecento, infatti, fu un secolo complesso, nel quale lo Studio crebbe e si formalizzò, ma anche nel quale gli studenti iniziarono a perdere il loro potere.

Già nel 1219 papa Onorio III riuscì a imporre l’arcidiacono -seconda carica religiosa cittadina-, come unica autorità a poter conferire ai laureandi la licentia docendi, vincolando così al proprio potere la cerimonia più importante, divenuta nel frattempo indispensabile e imprescindibile.

In quello stesso periodo, al contrario, il papato era duramente respinto dalla politica cittadina, che si arrese alla sua ‘protezione’ solo nel 1278, dopo la sfiancante lotta contro Federico II e i successivi decenni di continui scontri interni tra guelfi e ghibellini.

Bologna entrava a far parte ufficialmente dello Stato della Chiesa.

La perduta indipendenza non comportò tuttavia uno stravolgimento delle conquiste fatte fino ad allora: da un lato il Comune mantenne le sue autonomie gestionali; dall’altro lo Studio restò legalmente amministrato da apparati interni, che però si spostarono sempre più dalle mani dei discenti a quelle dei docenti.

I professori, di fatto, si erano organizzati nel Collegio dei Dottori, speculare alle Universitates degli studenti, ma ristretto ai soli bolognesi e con un numero fisso di iscritti in base alle Scuole di provenienza (16 giuristi civilisti, 12 giuristi canonisti, 15 medici artisti).

Con tale nuovo peso amministrativo, i professori riuscirono a trattare col papa, convertendo l’assegnazione del titolo dottorale in una doppia cerimonia. Per prima cosa lo studente veniva esaminato privatamente da una commissione di docenti bolognesi nella sagrestia di San Pietro, mentre in un secondo momento, con un rito fastoso e solenne all’interno della cattedrale, riceveva dall’arcidiacono, attorniato dalla stessa commissione, i simboli del suo nuovo rango sociale: l’anello, il berretto e il libro.

La natura del titolo della Licentia docendi, venne infine dichiarata valida universalmente da papa Niccolò IV (1291) e da allora i laureati bolognesi potettero insegnare ovunque, diffondendo in tutta Europa la nomea della ‘dotta’ Bologna.

Non è un caso che proprio in questo periodo nel sigillo del Comune sia comparso per la prima volta l’iscrizione “Pietro padre del mondo, Bologna madre delle leggi”, da cui sarebbe poi nato l’appellativo per eccellenza dell’Università stessa: Alma Mater Studiorum.

Si faceva riferimento alla sola disciplina giuridica, poiché fino ad allora lo Studio era stato riservato agli studenti di Diritto.

Verso la fine del Duecento, tuttavia, riuscirono a emanciparsi e a ottenere l’ambita licentia docendi anche gli Artisti, fino ad allora associati e subalterni ai Legisti.

Gli studenti di Retorica, Notariato, Medicina e Filosofia, stanziati nella parte occidentale della città, si organizzarono in un’autonoma Università, che trovò spazio per le sue assemblee nel convento della basilica di San Francesco.

Dietro l’abside della chiesa francescana, così come sulla piazza di quella domenicana, le arche dei glossatori tramandano ancora la memoria dei grandi maestri dello Studio medievale, commemorati pubblicamente come neanche i sovrani riuscivano ad essere, in un’epoca nella quale l’individuo non era altro che una parte della collettività. I monumenti sepolcrali celebravano giuristi e notai che col loro lavoro avevano contribuito al benessere della società cittadina, che così li omaggiava e ricordava come veri ‘patrioti’.

Le arche di Rolandino Passaggeri, di Egidio Foscherari, di Odofredo Denari, di Rolandino de’ Romanzi, e degli Accursio, sono solo quelle ripristinate e conservate negli spazi originali: le altre riposano oggi nel Museo Civico Medievale.